Stella mattutina/Stella mattutina
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Storia di donna Augusta | ► |
A te BIANCOLINA
gioia mia
Io vedo — nel tempo — una bambina.
Scarna, diritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto: perchè nell’abitazione della bambina non v’è che un piccolo specchio di chi sa quant’anni, sparso di chiazze nere e verdognole; e la bambina non pensa mai a mettervi gli occhi; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora.
L’abitazione della bambina è la portineria d’un palazzo padronale, in una piccola via d’una piccola città lombarda.
Nel palazzo non vi sono che due inquilini, occupanti alcune stanze del secondo piano: un vecchio pensionato, magro, con la sua governante Tereson: una vecchia signora, grassa, che ogni mese cambia domestica. Il resto è tutto abitato dai padroni: gente ricca, gente nobile.
Quando rientrano in carrozza dalla passeggiata, bisogna spalancare il cancello del portone; e, siccome la nonna (custode della portineria) è troppo indebolita dagli anni, è la bambina settenne che deve farlo. Non ha mai pensato, naturalmente, che tale atto le possa essere di umiliazione; ma non lo compie volentieri.
Molto vecchia è la nonna.
Fa sempre la calza, movendo di continuo le labbra su parole senza suono, che son preghiere. Non è nè buona, nè cattiva. Non racconta favole. Ha una suprema indifferenza per ogni cosa. Curva, minuta, claudicante fin dai primi anni della fanciullezza, con un viso di calme linee chiuso in una cuffiettina nera allacciata sotto il mento, se qualche noia o dolore le sopravviene, non sa pronunciar che una frase, a bassa voce:
— Quell che Dio voeur.
Così avanzata nell’età, e tarda nei movimenti, vien tuttora compatita, dai padroni, nella portineria; perchè da più di quarant’anni appartiene al servizio della famiglia. Potrebbe ritirarsi, presso un suo figlio che è maestro di scuola e vive in bastante agiatezza. Non vuole: preferisce lavorare, fin che può, fino all’ultimo.
Fu, in giovinezza, governante di fiducia di Giuditta Grisi, la meravigliosa contralto, sorella della meravigliosa soprano Giulietta: la seguì fedelmente su tutti i palcoscenici, udì dalle quinte le acclamazioni dei pubblici, vide alle porte dei teatri le folle in delirio staccare i cavalli dalla carrozza della cantatrice: custodì nelle camere di locanda e durante lunghi viaggi in diligenza sacchetti di gioielli e di monete d’oro, carte preziose, preziosi costumi. Udì in silenzio la Diva bestemmiare come un comprimario, nei momenti di malumore: la vestì in silenzio per la scena, mentre ella stoicamente premeva il fazzoletto sulla bocca, per soffocare gli urli che le strappava il male: un male uterino ch’ella non aveva il tempo di curare.
Fu a lei che, dopo la prima notte del suo matrimonio con un magnifico patrizio di Cremona, disse la Diva, dal letto, allargando le braccia e dilatando le nari all’aroma del caffè — Peppina, ah!... finalmente sono contessa Barni!...
Fu lei che l’accompagnò nella villa gentilizia di Robecco sull’Oglio: infermiera vigile fino alla morte, nel tempo in cui l’insidioso male, non curato in principio nelle sue radici, doveva ucciderla in pienezza di rinomanza e di amore.
Dal suo letto di spasimi, tentava la cantatrice note filate, picchiettature e trilli:
— Peppina, la voce c’è ancora.
Sul punto di morire, mormorò al marito:
— Conte Barni, ti raccomando Peppina.
E la fedele seguace rimase a lui, come un lascito: assunse, umilmente, devotamente, la direzione della casa: vi allevò i propri figli, un maschio e una femmina: condivise la fortunosa sorte del padrone, finchè, lui spento, venne passata a un ramo secondario, e già imbastardito, della famiglia.
Nella portineria che rappresenta l’ultima tappa della vecchia Peppina, alcuni ricordi si conservano di Giuditta Grisi.
Un ritratto: antica stampa in cornice nera: busto scollato fin sotto le spalle, magro collo elegante, cortissime maniche a sbuffi, viso appuntito, non bello ma di chiusa intensità, sotto l’alta pettinatura a bande lisce intorno alla fronte e a tre rigonfi a sommo del capo.
Una cassetta da viaggio, per diligenza: pesantissima, di noce massiccio. È chiusa a chiave: dentro, forse, ci sono, in custodia, le strade che percorse, le cose che vide, le avventure che sopportò.
Un singolare astuccio da lavoro, anch’esso per viaggio: formato d’un rotolo di pelle di bulgaro tenacemente profumata, con fodera di velluto rosa stinto, divisa in tanti piccoli scompartimenti.
La bambina ama quegli oggetti, con dispotica padronanza. Ne conosce la storia; e, guardando il ritratto, sedendo sulla cassetta, accarezzando il velluto rosa stinto dell’astuccio, se la ripete, dentro di sè, con avida gioia.
È una sua personale ricchezza, della quale è gelosa.
Pensa: Anch’io andrò sul teatro.
Accanto alla portineria v’è una cameruccia bassa, buia, con un letto matrimoniale in cui vanno a dormire in tre, nonna, mamma e bambina. Due cassettoni, un tavolino, qualche sedia; e una tenda a righe grige e blù, dietro la quale, contro una parete, in mancanza dell’armadio, vengono appesi gli abiti.
Quella tenda è il sipario.
La bambina lo solleva quando vuole. Le flosce vesti pendenti (vesti di pulita povertà) si riempiono, quando vuole, di ossa e di carne: spuntan da esse mani e teste: voci ne escono: un moto illusorio le anima. Giuditta Grisi canta. Il pubblico immaginario applaude.
Un vero pubblico assiste talvolta alle rappresentazioni: le figliole dei padroni di casa.
Maura, Clelia, Pia: tre bei nomi, tre belle fanciulle. Ascoltano in silenzio, con sgranate pupille, le favole sceneggiate: ridon sommesse: una ve n’è fra loro, la piú bella, la meno buona, che ha di continuo, negli occhi e nella bocca, il guizzo d’un ghignetto schernitore. Non gliene importa niente, nè della Grisi, nè delle favole bizzarre, nè del teatro di stracci.
La piccola artista ne soffre in cuore: ne è ferita, già come qualcuno che dia il meglio di se stesso, e senta di non essere compreso.
Ma l’oscuro corruccio dura poco. Basta che una di loro gridi: — Andiamo a giocare!... — E si precipitano in giardino.
Giardino sempreverde: pini, magnolie, un cedro del Libano: pochi fiori, molta erba, profondità di ombre, sapienza di nascondigli. Giardino più bello al mondo non c’è.
Le bambine giocano a rincorrersi: quattro saette. Poi, a palla: ciascuna ha la propria: sotto la palma della mano deve rimbalzar venti, cinquanta, cento volte, senza che la mano fallisca un sol colpo. La gara le eccita: più di tutte esalta la scarna portinaretta. Dopo la palla, il salto alla corda, semplice e in due tempi: il salto su un solo piede, cioè zoppin zoppetta, sino a quando il piede resiste: il salto dai gradini dello scalone d’onore, progressivo fino al rischio d’insaccarsi di schianto.
Gioia del sangue, tensione della volontà, ignara eleganza di muscoli e nervi in moto. La scarna portinaretta non si dà vinta a nessuno, dimostra a volte il freddo coraggio d’una funambula: vuole ad ogni costo sorpassar la Pia, che è la più svelta e par fatta di gomma: miracolo se non si spezza una caviglia o l’osso del collo; ma vuole esser la prima, deve esser la prima, perchè è povera.
Son le sette, e la mamma torna dalla fabbrica: oh, adesso è ben altra vita!...
La mamma non è più giovine (s’è sposata tardi) e ha già molti capelli grigi; ma la sua voce è squillante, di ragazzetta, e tutto in lei è chiaro ed energico: il passo, il movimento, lo sguardo, la parola. Visse libera nella villa di Robecco sull’Oglio, con la nonna, fin dopo i trent’anni: sposa, fu cucitrice di bianco: rimasta vedova e nella più dura miseria, dovette collocarsi come operaia in uno stabilimento di filatura e tessitura di lane.
Guadagna una lira e settantacinque centesimi al giorno: lavora tredici ore filate: spesso è costretta alla «mezza giornata» della domenica.
Ma è gaia e ride, è creatura piccola e vocale come gli uccelli, e cinguetta e canta. Vive in lei il fremito pennuto dei passeri, un’elasticità sempre nuova, una così fresca simpatia per le cose e le creature, che sgorga con la fluidità di certe polle fra l’erba, e ne ha la mutevole trasparenza. Non porta con sè la polverosa e grave atmosfera d’un lanificio; ma, piuttosto, l’acre sentore d’una ventata di marzo, rude alla pelle, piena d’azzurro e di elementi di vita.
Come la nonna e la bambina, si nutre di pane, latte e polenta; ed è forse la sua casta sobrietà, che la rende così leggera sulla terra.
Quando, finiti i chiacchiericci delle serve in portineria, la bambina va a letto, verso le nove e mezzo, l’uscio fra le due stanze rimane aperto. Ella, quatta sotto le coltri e fingendo di dormire, ride ride nell’anima, perchè sa che sta per scoccare l’ora meravigliosa. Di lì a poco, infatti, con la sua voce limpida, la madre, che crede la bimba addormentata, comincia a legger forte.
Per divertir la nonna e per la propria gioia, legge, a puntate, i romanzi d’appendice d’un giornale quotidiano.
Ignora che la piccina ascolta, con gli orecchi tesi, con il cuore teso.
Quanta gente, quante creature più vive, più forti, più malvage, più interessanti di quelle che s’incontrano ogni giorno, in strada, nella casa, nella scuola!... Tutti suoi amici: Rocambole: Remigio Senza Famiglia: la Portatrice di pane: e Rigoletta e Fior-di-Maria, dei Misteri di Parigi.
Storie di vasti intrighi, di amori romantici, di romantici delitti formano la base della sua conoscenza: unite senza possibilità d’oblio alla voce della madre e al chiarore giallastro d’una lampada ad olio, penetrante dall’uscio aperto a rischiarare di scorcio una tenda-sipario a righe grige e blù, e il ritratto di Giuditta Grisi.
Qualche anno dopo, la bambina, divenuta più grandetta, ma rimasta selvatica ed avida di mirifiche istorie, trova in un ripostiglio un fascio di romanzi di Alessandro Dumas padre: da I tre Moschettieri ad Angelo Pitou.
Vecchi libracci, ingialliti, cincischiati, rosicchiati agli angoli, mancanti di pagine qua e là: non importa. — Le è come salire in un bastimento e traversare il mare.
Legge, legge, legge. Arruffa e precipita i compiti di scuola, per leggere. Respira nella favola. Un senso di letizia, di benessere pieno, ad ogni nuova lettura rinsanguato, si diffonde in lei. Ha, con i personaggi dei fantastici romanzi, colloqui d’allucinante intensità: se li raffigura e li vede, dinanzi e intorno a sè, con caratteri di fisionomia e di gesto sui quali non può sbagliare.
E quando, più tardi, l’irriflessiva compiacenza della governante Tereson (quel bravo signor Antonio, che anche lui non può vivere senza libri!...) le lascerà fra le mani gli sporchi e ciancicati volumi d’una biblioteca circolante, e la scolaretta tredicenne scoprirà Emilio Zola, la sua segreta gioia diverrà terribile come un’ossessione.
Le pagine impure, nelle quali più crudamente è rappresentato il vizio, e più turpi odori emana la carne, scorreranno sul suo spirito senza lasciar traccia: acqua su marmo: tanto ella è innocente. Ma la massa dell’opera, così compatta e sanguinante di umanità, graverà su di lei con tutto il suo peso. Ella sarà malata d’una penosa malattia dell’anima, che la renderà dissimile dalle ragazze della sua età. Distratta, a volte prostrata, presenterà a’ suoi maestri componimenti pieni d’inquietudine e di squilibrio, tralucenti d’immagini e di reminiscenze torbide e confuse.
Ma ella non ama la scuola. Nessun rapporto, nessuna confidenza fra lei e il sistematico ingranaggio scolastico. È quieta, lavora, si sforza di comprendere, sa che deve, che ribellarsi non può; ma, in fondo, non desidera che di evadere. Vuole studiar da maestra unicamente perchè non intende logorarsi in un opificio come la madre, o divenir serva di signori in gioventù e portinaia in vecchiezza, come la nonna.
Ora che è quasi una giovinetta, si sente diventar di brace, poi del color dell’erba, quando deve aprire il cancello grande alla carrozza dei padroni di casa, che tornan dalla passeggiata del pomeriggio; e inghiotte acido e respira male quando deve portar le lettere o far qualche commissione. Non invidia il lusso delle sale padronali: non le guarda nemmeno. Nè le fan gola gli squisiti mangiari, tanto l’abito della sobrietà s’è fatto natura in lei.
Solo, non vuol servire.
Quella portineria!... Odiosa, con la bianca invetriata a smeriglio verso la strada, e il doppio uscio a cristalli trasparenti verso il porticato interno. Odiosa, con il campanello che squilla ad ogni entrar di persona; e bisogna rispondere: — Sì, no, i padroni ci sono, non ci sono.
E il giorno di ricevimento, con tutti quegli equipaggi alla porta, e tutte quelle signore fruscianti in seta e velluto, che la guardano dall’alto o non la guardan nemmeno: oppure le sorridono con stupida benevolenza, e questo la fa impallidire di più!...
Salgono a far visita alla signora del palazzo: maestosa femmina, che fu assai bella in giovinezza, ma ora affoga nel grasso e soffre di ipertrofia di cuore; e sarebbe buona; ma ha modi troppo alteri e bruschi perchè le venga riconosciuta la sua bontà. Dirige la propria casa con l’energia d’un comandante di vascello, e fuma insaziabilmente, giorno e notte, sigari virginia, lunghi, dall’acre odore.
Non vuol male alla portinaretta; e pure possiede il segreto di fustigarla a sangue con poche recise parole.
Un giorno le toglie di mano il quaderno dei componimenti: lo sfoglia come si sfoglia un taccuino quando si cerca una data, lo leggicchia qua e là; e sentenzia:
— Questa non è farina del tuo sacco: roba rubacchiata, presa a prestito: via!... Tu leggi troppi romanzacci, bambina!...
La bambina, che in quel momento si sente una donna, risponde di no, di no, più con il gesto del capo che con la voce. Di no, di no: che non ha rubato. Ma ha il viso color ramarro, e gli occhi cattivi. E le sembra che nella vita l’avrà sempre dinanzi, la grossa signora energica che puzza di sigaro, a strapparle di mano il quaderno, e a dirle: Non è roba tua: hai mentito.
E l’odia, come odia la portineria. Ma più sente il rancore crescerle dentro una mattina: — la mattina dei gigli.
Tutta un’aiuola di gigli fiorita quasi all’improvviso, lungo il muro orientale del giardino, quella mattina di giugno. Gigli nel sole: ella non vede altro. Ieri erano ancora in boccio; ma chi ha mai potuto assistere al preciso momento dello schiudersi d’un fiore?...
Ella si è pian piano avvicinata al miracolo dei candidissimi calici, eretti sugli alti gambi, con stami dorati al posto del cuore.
Le par giorno di festa, perchè i gigli sono fioriti. Le par d’essere in chiesa, e l’aroma che respira le ricorda la santa comunione. Tende le mani come per pregare... Ma ecco, da una delle finestre verso il giardino, la rauca voce della signora:
— Ehi, là, dico!... Non si toccano i fiori!... Guai a te se ti prendi un giglio!...
Non voleva toccare. Stava in adorazione, soltanto. Quella donna ha bestemmiato. Vi sarà sempre una ruvida voce che l’accuserà d’essere una ladra, ogni qual volta ella tenderà le braccia e l’anima verso la bellezza?... Amar la bellezza è un peccato?...
Vi è fra lei e la signora qualcosa d’inconciliabile, che più cresce con il crescer degli anni: inimicizia senza remissione, fra lei e tutti coloro i quali han bisogno di qualcuno che apra loro il cancello quando tornano a casa in carrozza, e non vogliono esser derubati dei fiori che rallegrano gli occhi di tutti.
Ma il giardino è ben suo quando nevica, e i cristalli delle finestre sono sbarrati, e nessuno arrischia fuori la punta del naso.
Silenzio: vero, di carne e d’ossa, da toccar con mano: quel tal silenzio del quale si sente il respiro, come d’un uomo che dorma.
Fra l’invetriata a smeriglio verso la strada e le vaste intelaiature a cristalli verso il porticato, la portineria giace in un chiarore pallidissimo d’alba. In quella spettrale bianchezza, la nonna immobile sulla poltrona, pare una figura di pietra.
Neve sopra neve cade in giardino, incappuccia alberi e cespugli, copre le panche di soffici cuscini quasi azzurri a fissarli, ricama cornicioni e balaustri, vuol dire alla fanciulletta tante cose, che questa cerca di comprendere e ancora non può. È una specie di lungo discorso in una lingua ignota, pieno di pause misteriose, dolcissimo.
Come le scotta fra le mani, la neve così fredda!... Tutto è divenuto più piccolo e più basso: le muraglie appaion nerastre, torbide di macchie e di lividori: l’aria ha un odore strano: il respiro si fa corto sotto la vertigine delle falde bianche, che si rovescian sul bianco.
Ella pensa di essere rimasta sola nel mondo. Non più padroni, non più scuola, più nulla: nemmeno la madre. Le si dilata l’anima: le divien leggera leggera: aderisce alla neve, si fa un fiocco di neve, scompare nel bianco.
In un mattino di primavera, il giardino le fa un incanto.
Ha dovuto alzarsi prestissimo, all’alba, per eccezione. Ma, appena sbucata fuori dal portico, dimentica quel che ha da fare, per ascoltar, rapita, gli alberi che parlano.
Parlano tutti, fra loro, sommessamente, nella semiluce. Risa, domande, risposte, scherzi, esclamazioni. Oh, ella non ignora che quel chiacchierio è degli uccelli, cinguettanti nella gioia del primo risveglio. Ma l’illusione è stata così fresca e subitanea, che non vi rinunzia, e preferisce credere che alberi e uccelli formino una sola creatura d’amore, che venga conversando con lei; e, volgendo gli occhi in su per meglio accogliere le confidenze delle palpitanti masse verdi, riceve per la prima volta la diretta sensazione del cielo.
Un cielo d’alba, fra il violetto, il cenerognolo e il roseo, con innumerevoli cirri che vanno vanno, cangiando di colore e tenendosi per mano. Come se il cielo le dicesse: Eccomi, guardami: vuoi venire a passeggio con me?... Ed entrasse in lei, o ella entrasse a far comunella con le nubi; e sempre quell’innocente chiacchierar del giardino negli orecchi.
Non v’era dunque, ieri, il cielo?... e ier l’altro?... e non vi sarà domani?... Perché proprio in quest’alba se n’è accorta?... Le cose le son vicinissime, trasparenti: hanno occhi e respiro, parlano il suo stesso linguaggio: ella incrocia le mani sul petto, per custodirvi la felicità.
Del giardino diventa assoluta padrona nell’estate, quando i signori della casa se ne sono andati in campagna. Le mancano da un giorno all’altro le compagne di gioco; ma non se ne addolora per nulla.
Ha il suo regno.
Lo sa tutto a memoria, lo ha tutto nel sangue, dal più piccolo sassolino della più nascosta rèdola alla più rugginosa foglia d’edera avviticchiata con il gambo ad un angolo di muro. Sdraiata sul ventre, i gomiti affondati nell’erba, si gode con la voluttà d’una lucertola le ore canicolari, leggendo qualcuno de’ suoi libri magici. Vede formiche andare, ode mosconi ronzare, cicale frinire, frasche stormire, campane suonare. Sente il buon calore terrestre entrarle nelle vene, e le pare di poter vivere sempre così. Ha una quantità di amici nel giardino; e ciascuno le vuol bene a suo modo. Il pino gigante che porta così amari frutici verdazzurri la considera un poco d’alto in basso; ma l’erba salina è così piacevole a masticarsi, così acidula ed eccitante al palato!... Le pazze rose giallo-carnee che assaltano il muro a ponente, dietro le tre magnolie di duro lucentissimo smeraldo, si ridon di lei, pungendole le dita e sfogliandosi subito nelle sue mani; ma il boschetto di magre betulle la conduce dolcemente, nell’ombra ricamata di sole, ad un cancelluccio acchiavistellato che guarda su una straducola. Le piace, quella straducola. Pensa: È mia.
Ella è profondamente innamorata del sole. Sa che il suo colore è più splendente in luglio, più intenso in agosto, più riposato nel settembre; e che nulla è più soave agli occhi di una pallida lista di sole sui tetti in febbraio, quando dimoia e soltanto qualche ultimo sprazzo di neve biancheggia qua e là sugli embrici. Potrebbe, come una meridiana, dir l’ora precisa secondo il punto del giardino dove arriva il sole.
Gode di starsene sull’uscio di strada della portineria: in piedi contro uno spigolo, oppur seduta sullo scalino di pietra.
Quanti odori ha la strada!...
D’uva matura e di nespole in autunno: di pere cotte e di caldarroste nell’inverno, e d’aranci verso Natale: per via de’ carretti che i rivenditori ambulanti di frutta spingono in giro, con certi richiami ritmici che a lei dànno un senso di rigogliose campagne lontane, mai vedute e pur ricordate.
Nei mesi d’estate il solleone scalcina i muri, e li rende così abbaglianti che a fissarli vien sonno: tende gialle e rosse s’abbassano sulle vetrine dei negozi: il nastro di cielo che s’allunga fra le due linee parallele dei tetti è una lamina di metallo rovente. Dolce è non far niente, accucciati sulle pietre che scottano, fiutando pesanti sentori e respirando il caldo.
Ma ciò che la bambina non riesce a spiegarsi è come mai, nel febbraio e nel marzo, specie dopo qualche acquata, l’aria sappia di violette. Non ci sono, nella via, negozi di fiorai: pure, l’aria sa di violette. Dirà alla mamma, quando sarà tornata dalla fabbrica: — Domenica, vuoi che andiamo per viole?... —
Oh, sì, si trovano, ella lo sa, fuori porta: occhieggianti nei prati a solatìo, su le prode ancor scure. Ma quel profumo nell’aria le è più caro delle mammole vere da sciupar fra le mani.
Nelle botteghe tutti lavorano. La conoscono, le fanno cenni di saluto: — Allegri, morettina!... — Proprio dirimpetto, un falegname stride con la sega fischiando fra i trucioli, un ciabattino al deschetto batte con il martello sui chiodi infitti nel corame: la sega domanda, il martello risponde: la via ne risplende di contentezza.
Chi sa perchè, ascoltando il canoro colloquio, le torna alla mente ciò che le fu insegnato come verità, dai maestri e dai libri, non appena ella fu in grado di comprendere: e cioè, che noi siamo tutti fratelli?...
Dunque il ciabattino Panin, nero di pece, con un viso che pare intagliato nel cuoio delle scarpacce che sta maneggiando, e il falegname Vincenzo dal gran naso bitorzoluto e dai fitti riccioli sempre impolverati di segatura di legno, sono suoi fratelli. E anche gli operai della fabbrica. E anche i padroni. E tutti gli uomini e tutte le donne che le passan dinanzi senza darle neppure un’occhiata; e nessuno le rassomiglia, e non uno v’è fra essi che rassomigli ad un altro.
Curioso!... Però è bello.
Ma lei chi è?...
Di dove è venuta?... Perché è venuta?... e non prima e non dopo, ma proprio allora?... Chi può affermare che ella non esistesse già prima, e non debba viver sempre, come l’aria, il sole, la terra e tutte le altre cose che sono?...
Si prova a raccogliere, il più intensamente che può, le forze del cervello sul significato della frase «io sono».
Essere: verbo ausiliario. Roba che insegnano a scuola. Ma, «io sono, io sono!...».
Frase che è un pozzo: e più la mente vi sprofonda, più la tenebra e il nulla le si scavan di sotto. Ella è felice di sentirsi sprofondar così. E se qualcuno in quei momenti le rivolge la parola, le chiede qualcosa, non capisce, non risponde: gli allarga in viso due gelidi occhi assenti: dura: nemica.
In iscuola dovrebbero pur spiegarle il mistero della sua presenza nel mondo. Invece le vanno insaccando nella memoria un’infinità di cose inutili, che la raspan di dentro: cifre, somme, divisioni, frazioni: regole grammaticali: storie di gente morta da secoli. Han forse paura di parlare di quella tal cosa?... Ma alle sue compagne non gliene importa. Esse non pensano come lei; anzi, le sembra che non pensino affatto.
Fra le quattro pareti della classe, seduta in un banco e costretta a piegare il cervello a dritta e a sinistra secondo la volontà dell’insegnante, le par di trovarsi in prigione. È sicura, sicurissima d’imparare molte più cose, e assai più chiare ed importanti, bighellonando tutta sola sulla soglia della portineria.
Ha trovato un singolar modo di liberarsi, quando le riesce troppo arduo lo sforzo di fissare, immobile, le parole che escon di bocca alla maestra.
Trattiene il fiato, con labbra e denti ermeticamente serrati, per un minuto, per due, finchè la faccia le si impietrisca in una cadaverica rigidità, e il cuore le batta a precipizio. V’è sempre la buona compagna che se ne avvede, se ne allarma, e ne avverte la maestra; e costei: — Che hai?... ti senti male?... Esci, va a prendere un poco d’aria nel vestibolo.
Esce, con passo di sonnambula. Sa di recitare una parte, e ne è orgogliosa: nello stesso tempo, comincia anch’essa a credere di sentirsi male, molto male. E non le vien fatto di assaporare quei pochi minuti di rubata libertà: una cappa di tristezza la schiaccia, e la vita le pare vuota come quel vestibolo.
Quante maestre, dall’asilo infantile in poi!... Perchè, ad ogni nuova classe, si deve cambiar maestra?... La mamma non è forse una sola?... Ma nessuna di loro è buona come la mamma: nessuna ha sempre ragione, come la mamma.
Nella quarta elementare trova, tuttavia, un’insegnante sopraffina: che l’opinione generale della piccola città considera da anni la fenice delle insegnanti: Giovanna Santafè. Nella piccola città non v’è alcuno che ignori il nome ed i meriti di Giovanna Santafè. Giovanna Santafè discende da nobile famiglia decaduta, e della propria origine conserva il secco orgoglio e l’impeccabile distinzione dei modi. Nelle ore libere dà lezioni private a signorine di case patrizie, e in quella cerchia sa farsi rispettare e temere. Nella sua classe, quantunque ella non alzi mai la voce, la disciplina è assoluta; e non vi sono ripetenti, perchè il metodo è di tal perfezione che non permette di fallire agli esami. Certamente sarà nominata direttrice.
Fra Giovanna Santafè e le allieve la distanza è incommensurabile. Il suo naso rincagnato sembra diritto, tanto il portamento della sua testa è rigido. Ma, per clemenza di Dio, un debole ce l’ha anche lei. Non sa affrontare la prima canizie dei quarant’anni; e si tinge i capelli, con una tintura inchiostrosa e grassa, per cui qualche volta, sulle tempie, suda nero.
In una calda giornata di giugno, dopo un’assenza di dieci minuti in direzione, Giovanna Santafè si presenta innanzi alle scolare, con il viso, per la prima volta, scomposto. Sale in cattedra; e dice, solennemente, con voce che non sembra la sua:
— Giuseppe Garibaldi è morto.
Chi mai l’ha vista piangere, prima d’ora?... Eccola lì, che piange. Ma non si asciuga gli occhi. Lascia cader le lagrime, che tutte le vedano scorrere sulle ossute olivastre guance, lungo il mento eretto e convulso. Il suo pianto vuole essere un esempio: molte testoline, infatti, si curvano sui banchi, e scoppia qua e là qualche singhiozzo.
Ma la nipote della vecchia portinaia Peppina resta con gli occhi asciutti. Non riesce a provar dolore, perchè Giuseppe Garibaldi è morto. Giuseppe Garibaldi?... Lo vede chiomato di oro, ammantellato di vermiglio come negli innumerevoli ritratti, galoppante su un cavallo bianco in paesi a lei sconosciuti, e che mai, forse, conoscerà: oppure già vecchio, ma sempre cinto di oro e di vermiglio, in un’isola irta di rocce fra due azzurri.
Così lo vede. Di tale bellezza, che abbaglia.
Non è un uomo.
Non appartiene ai vivi: non appartiene ai morti. È un’immagine.
Piangere per lui non sa, non può. Tanto più che, trovandosi ella nel primo banco, vicinissimo alla cattedra, i suoi occhi intensamente asciutti scorgon troppo bene — parallele alle lagrime riganti le guance — due gocce di sudor nero, d’un nero oleoso di tintura, colare dalla radice dei capelli sulle tempie della perfetta maestra Giovanna Santafè.
Troppo vecchia e stanca diventa la nonna: non le è quasi più possibile alzarsi dalla poltrona. Ed ecco, un giorno, vien lo zio, che è il figlio maggiore della nonna, e tiene una piccola pensione per ragazzi della campagna che vogliono frequentar le scuole in città. Viene con una carrozza, per portar la sua mamma alla propria casa: dove finalmente possa riposare.
— T’ee finii, Peppina — mormora la vecchia come fra sè, curva ma linda sotto la cuffietta e lo scialle, uscendo dalla portineria tra il figlio, la figlia e la nipotina. Ha già salutato i padroni e le padroncine, chiedendo sommessamente scusa di aver qualche volta mancato al suo dovere; e la grossa gentildonna, con poche, rapide parole buone, le ha messo alcune lire fra le mani. È già passata, con la schiena fin quasi a terra, dinanzi al ritratto di Giuditta Grisi, e alla sua cassetta da viaggio. — T’ee finii, Peppina — poi un bacio alla figlia, uno alla nipote: — Ciao, Vittoria, ciao, Dinin. — E la carrozza la porta via.
Qualche mese dopo, Dinin viene chiamata in fretta in fretta a salutar la nonna morta, nella sua nuova casa in via delle Orfane.
La ritrova quieta e composta come sempre, con il viso impassibile incorniciato nelle trine della più bella cuffietta: solo, non ha più rughe, tien gli occhi chiusi, e non fa la calza; ma incrocia le mani sul petto e con esse prega, perchè la bocca è immobile. Forse è spirata per la sofferenza di non poter più lavorare.
Così la morte si presenta, per la prima volta, alla fanciulla; con sembianze familiari, in casta serenità.
Ma accanto al letto della nonna se ne sta, in silenzio, fra i parenti, un ragazzo di quindici anni, di bellezza femminea. È il primogenito dell’operaia Vittoria: che lo zio si prese con sè fin da bambino, per venire in aiuto alla sorella, quando rimase vedova, senza un soldo, sul lastrico.
Dinin lo vede poco. Ne ha, quasi, soggezione. Perchè è così bello?... Nè lei nè la madre son belle. Perchè non hanno mai giocato insieme?...
Sa che egli si crede disamato dalla mamma, mal tollerato dallo zio: ha l’intuizione ancor confusa di qualcosa d’ingiusto di cui ella non ha colpa, di cui nessuno ha colpa, fuor che la povertà. E ogni volta che lo vede cerca di sorridergli, di essergli molto dolce; e lo chiama Nani, per abbreviargli il troppo lungo nome; e si lascia, così per celia, abbrancar per le spalle da quelle mani che son viluppi di nervi; ma prova una pena, una pena...
Quel giorno, accanto al letto dove la nonna è distesa in pace, Nani sta, visibilmente, sulle spine. Una smorfia involontaria gli torce il labbro inferiore e i muscoli della mascella sinistra: gli occhi fissano il pavimento o le muraglie, sfuggendo la vista dolorosa: tutto in lui ha l’aria di sfuggire.
La morte, che la sorella può guardare con calma già quasi consapevole, a lui mette paura.
Con la partenza della nonna vien, naturalmente, lasciata libera la portineria; e madre e figliuola han potuto ritirarsi in due microscopiche stanzette sotto i tegoli, nello stesso palazzo.
Un peso insopportabile è tolto dal cuore della fanciulla. Le due stanzette guardano il giardino: ella non vi scorrazza più con le tre padroncine, non lo possiede più da signora dispotica, come prima, nei mesi delle vacanze. Ma ora le par più suo: perchè lo vede dall’alto.
Non è soggetta a nessuno, adesso.
L’indipendenza di cui può godere, anche per la quotidiana assenza della madre, viene a sviluppare in lei, fino a quel grado di pienezza che diventa gioia, un senso in lei già vivo: il senso del tempo. Ella ascolta, nella cara solitudine della propria giornata, il tempo fluire. È come se sgranasse un rosario composto di quei chicchi d’antica ambra, che pare condensino nella loro sostanza il sole. Se ne distrae soltanto nelle ore di scuola; per essa, in fondo, ore perdute. Non è felice se non quando, lontana dalla gente che per necessità deve frequentare, può riprendere intera la coscienza di sè, immedesimandosi nel giro perfetto delle ore solari, nel graduale dilatarsi, intensificarsi e decrescere della luce.
D’inverno, un magro focherello basta a riscaldar la minuscola cucina: il gelo intaglia sui vetri della finestra fantastiche foreste, entro le quali la fanciulla galoppa senza briglia. Un cuscino di sdruscito cotone a fiori rossi copre la cassetta da viaggio di Giuditta Grisi. Vi siede di sbieco, di fronte alla fanciulla accoccolata su un panchettino, il figlio di sua madre, le rade volte che viene a trovarla.
Viene di corsa, fugge di corsa. Ha sempre quel suo terreo fondo di colore, quella bellezza un po’ malata che par di donna, quel sogghigno amaro che gli torce la bocca; e un modo, nel sedere, d’appoggiarsi tutto sulla spalla sinistra, alzando l’omero destro all’altezza della mascella.
Non possiede mai la croce d’un soldo.
— Sei in fondi, Dinin?...
Oh, sì: ella ha sempre in serbo qualche moneta: ella, che a quattordici anni lavora già, dando alla meglio ripetizione a qualche bambina delle scuole elementari, che stenta a portarsi avanti nella classe. Tutto costa così caro!... La carta a mano e le matite a carboncino per i disegni; e poi i quaderni, gli atlanti, i libri di testo. Ci sono anche le tasse; e la mamma, poveretta, si sa quel che guadagna. Pensieri, miserie; mentre sarebbe tanto bello abbandonarsi, in ozio, come a lei piace, al fluire del tempo.
Suo fratello?... Ma forse non lo è. Ella pensa a volte questa cosa impossibile: che quel figlio di sua madre, che non abita sotto il suo tetto, non le sia fratello.
Pure lo ama.
Non le somiglia: la finezza de’ suoi lineamenti è quasi eccessiva: la mobilità de’ suoi gesti, de’ suoi occhi dà le vertigini. La passione del libro, comune ad entrambi, sola li infervora in ardenti discorsi. Egli interseca nel suo dire molti, troppi motti latini, poichè è stato un brillante scolaro al ginnasio; ma lo zio lo ha costretto a lasciarlo per la scuola normale: ci vuol troppo denaro per compir gli studi classici. Ed ecco, è uno spostato. Tolto dal suo latino, non si applica più volentieri; se la piglia con i professori, discute in classe, sciorinando cavilli d’avvocato; si fa temere ed odiare; attaccò già un de’ maestri, il più pedante a vero dire, in un giornaletto di studenti, poligrafato, che ha per titolo «La frusta».
Forse, alla prima bravata, lo sospenderanno dalla scuola: forse non potrà finire gli studi. È un predestinato alla vita di bohème: è della razza di coloro ai quali l’ingegno serve come un sasso al collo di chi si getta in acqua. La sorella sa che egli ha un’amante: Daria, la figlia di Ignazia, grossa comare che tiene un negozio di fruttivendola in via Santa Maria del Sole. Vanno a ballare — certe notti in cui Nani riesce a carpir la chiave di casa a insaputa dello zio — in un caffeuccio di studenti: bellissimi entrambi: lei con un viso ovale, bianco, di marmo, illuminato da immensi occhi azzurri a fior di testa, quasi privi di sopracciglia: lui sdutto, snodato, vero danzatore da palcoscenico, d’indiavolata agilità nel passo doppio di valzer, di resistenza senza pari nei vortici del galop: capaci di giungere alle quattro del mattino piroettando insieme senz’ombra di stanchezza.
— È proprio necessario far l’amore, Nani?... — gli chiede la sorella, che pur legge tanti libri, spalancandogli in faccia due occhi di torbida innocenza.
— Non son cose per te, Dinin!... — ride il giovane bizzarro. — Tu lavori, tu sei saggia, sei la vera figlia della mamma: non capiresti.
— Ma lo zio?... se lo venisse a saper lo zio?...
— Lascialo stare, lo zio. Lascialo bere!... Sapessi quanto beve!... Ha già il suo da fare a mettersi in cìmbalis, e rinfacciarmi allora con paroloni a bomba il pane che mangio in casa sua. Se la mamma... se la mamma... via, sai quel che voglio dire. Sarei forse un buon operaio, adesso.
La verità vera, ecco, è sputata.
Sputo di fiele, che lascia l’amaro in bocca.
Ma egli sa pure che, se non era lo zio, sarebbe stato l’orfanotrofio: che in portineria con la nonna due bambini (uno, pazienza, passi!...) i padroni della casa non ce li avrebbero voluti. La colpa non è di nessuno.
La sorella vorrebbe dirgli queste cose; ma egli non le bada, non riesce a star fermo. Prende un libro, gli dà un’occhiata, lo getta. Il suo pensiero è chi sa dove, adesso. Di punto in bianco balza fuori a dire: — Hai letto I Miserabili?... — E si mette a rifar Gavroche, con spontanea efficacia di attore. Poi: — Guarda cosa ho imparato!... — E lì, sinistro clown, fa crocchiar le ossa dei polsi e le scapole in una specie di frenetico contorcimento, che a lei dà i brividi. Crocchia tutto, corpo ed anima. Dov’è la sua radice?... Non ha radice. E v’è sempre qualcosa di procelloso nel gesto d’addio con il quale egli l’afferra per le spalle e la bacia sulla bocca.
Poi si precipita dalle scale inghiottendo i gradini a quattro a quattro; e il suo spensierato fischiettare, che si potrebbe credere suono d’ocarina o di flauto, va perdendosi dal giardino giù nella via.
No: la madre non è in peccato.
Che cosa avrebbe potuto fare?...
Nelle strettoie della necessità, ha accettato il soccorso donde le veniva.
Non credeva con questo di abbandonare il figliuolo: (chi li ricorda, se non lei — se non lei — i suoi riccioli biondi, il suo farfugliare grazioso, di quando aveva due anni?...).
Racconta, qualche volta, del tempo che era incinta di lui, e si abbracciava furiosamente il ventre, gridando: — Caro, caro il mio gognin!...
A diciotto mesi, le faceva già di gran discorsi; e per la strada tutti glielo ammiravano: pareva il Bambino Gesù.
Ma — tredici ore al giorno in una fabbrica, per la paga di una lira e settantacinque centesimi: — si può chiederle d’allevar due figliuoli?...
Da anni ed anni si rompe la schiena così, e non riesce mai a cavarsi di dosso la stanchezza, e per illudersi canta: — si può chiederle di più?...
La fanciulla, che tutto questo medita e pesa nel cuore, ama infinitamente la madre. La madre è l’unica creatura che possa entrare nella sua realtà senza turbarla. Così dissimile da lei, le è necessaria come il senso d’essere al mondo; e formano insieme uno di quei monotoni ma armoniosi cori a due voci, terza sopra e terza sotto, che, cantati da gente del popolo, riempiono le campagne di pacata felicità.
Nei tramonti estivi, che pare non vogliano mai arrivare alla notte, dopo aver mangiata la minestra e un pezzo di pane con un frutto, entrambe, braccio sotto braccio, se ne vanno alla benedizione, nella vicina chiesa di Santa Maria del Carmine.
Dolci lumi, dolce sentore d’incenso, fiori di carta e sospiri d’organo: piccola gente ignota, tutta buona mentre sta pregando: delizia del torpore mistico, litanie gravi modulate in coro, certezza di Dio padre, serenità!...
Poi, sempre a braccetto, si dirigono verso i bastioni, a mangiar due soldi d’anguria. Grande è il cielo sugli ippocastani. L’aria è tuttora così impregnata degli ultimi riflessi solari, che ogni volto splende di un color sanguigno; ma qualche stella già trema nell’azzurro. I carretti dei cocomerai offrono, sotto gli alberi, fra dondolare di allegri palloncini giapponesi, fantastiche lune rosse: «Fette di luna per un soldo, oh!... Chi vuol la luna, un soldo!...»
La genterella popolana si ammassa ai banchi, getta monete, getta frizzi, affonda il viso nella gelida polpa, se lo bagna nell’abbondante succo acquoso, con riso e ciance, motti e ritornelli. Mamma e figliuola sembran sorelle, nella gioia di piantare i solidi canini bianchi nel frutto che, così fresco, ha il color del fuoco.
— Sai, questo non è nulla. Avessi visto!... Quand’ero a Robecco sull’Oglio, in casa Barni...
Son belli, vividi e pieni di tepori primaverili, i ricordi della madre. Pianure vaste come mari, stanze vaste come piazze, frutteti vasti come parchi. Lei, a venti anni: una creaturetta indiavolata, bruttina ma luminosa, che non si ruppe mai le caviglie arrampicandosi scimmiescamente sugli alberi, nè mai s’intossicò mangiando mele acerbe e lazzeruoli verdi. E cento avventure, e cento meraviglie.
— Quand’ero a Robecco sull’Oglio...
Adesso è una povera operaia grigia di capelli, e porta lo scialle nero. Ma anche quando avviene che la figliuola càpiti all’opificio, ed entri nel salone dei telai dove lavora, e se la veda comparir dinanzi, scarmigliata, polverosa, col grembiule sudicio, tra il fragor della trasmissione, i geometrici movimenti delle macchine e la roteante violenza dei cinghioni, piccola e misera qual’è, a lei sembra alta ed austera, vestita di nobiltà e di padronanza.
E prova — sì — una segreta superbia d’esser figlia d’una tal madre. Unicamente da lei, e non per mezzo di parole ma di fatti, le viene l’insegnamento a vivere.
Canto fermo su accompagnamento d’organo, in una chiesa nuda, piena di poveri che ascoltano la messa: tali le loro vite. Ma una stonatura vi stride ogni tanto; e non si sa se sghignazzi o se pianga, spezzando la grave armonia dell’insieme: Nani.
La fabbrica è fuor di porta.
Ad essa conduce una pietrosa stradetta in discesa, chiamata dagli operai «la möntada», cioè, nel loro dialetto, la salita: pensando certamente più al ritorno la sera con la stanchezza che all’andata il mattino, con membra riposate e forze fresche.
Grandi lettere nere sulla facciata: due nomi significanti denaro, comando, potenza: i soli dell’industria laniera, nella piccola città.
Un gruppo di fabbricati bassi, bianchi, con tetti di vetro opaco, all’americana: ciminiera altissima, che taglia il cielo in due, e «fa le nuvole con il fumo» pensa Dinin.
Nuvole nuvole di fumo, a spirali, a cumuli, d’un grigio nerastro, sporco, pesante, sulla fabbrica che reca a sommo della facciata così potenti nomi. Dalle finestre, il ritmico e rauco «tin-tan-tan, tin-tan-tan» del macchinario in moto. Dentro, l’inflessibile regolarità degli organismi di lavoro saldamente costruiti e saldamente diretti: tutto un mirabile congegno operante, dal primo dei direttori all’ultimo degli attaccafili, dalla motrice in gabbia come una belva al più umile degli ingranaggi. La disciplina vi è ferrea; le mancanze, per gradi, vi son punite con multe e licenziamenti. Gli operai, più di cinquecento, male sopportano — e pur lo devono per necessità — di ricevervi paghe irrisorie: acerbi ancora sono i tempi, per le leghe di resistenza e gli scioperi: se ne incomincia a parlare, ma sottovoce, come d’un cataclisma che debba capovolgere il mondo. E, intanto: — Maledetti i signori!... Verrà pure quel giorno, miseria ladra!... —
La figlia di Vittoria osserva, ascolta; ed accetta ed accoglie in sè ogni cosa, con l’apparente indifferenza della terra che riceve le seminagioni. Sua madre non si lagna mai. Divenuta assistente in un reparto di filatura, più aspro sente il proprio dovere, più gioiosa è in lei la volontà di compierlo. Prima a comparire il mattino, ultima a partirsene la sera, nulla le sfugge di quanto è di sua competenza: non lascia impunita una chiacchiera, nè persa una spoletta, nè mal fatto un nodo.
Eseguisce il lavoro che le spetta, e pretende dalle dipendenti che il loro venga compiuto a guisa di un’opera d’arte, e come se la retribuzione ne fosse magnifica. Ha l’aria d’un soldato in guerra, che obbedisca alla consegna, costi quel che voglia costare, sapendo che si tratta di vita o di morte. Dice il direttore generale: — Ah, se tutti qui fossero come Vittoria!...
È un bene? è un male?... Ella dà di sè, per poco più di nulla, ciò che darebbe una collaboratrice.
Non lo è, forse, una collaboratrice?... e allora, perchè è pagata così poco?... Glielo chiede, la figlia: le risponde: — Eh, piccola mia, il mondo è così!...
Penetra, la figlia, attraverso le confidenze materne, in un groviglio d’uomini, d’interessi, di passioni. Conosce tutti gli impiegati: la faccia itterica e la superbia di Mompalao, che non condona una multa: la grossa bonarietà di Consonni, che la domenica va a bere all’osteria con i capi-reparto, e per questo è tenuto d’occhio dai padroni, e le radici nella fabbrica, purtroppo, non le metterà: il rigore e la grinta da poliziotto di Ranalli, l’incaricato della visita alle tasche, nell’ora d’uscita: e certo nessuno potrebbe compiere tale schifoso ufficio meglio di lui, che ha fatto cacciar la Rosalinda, mamma di quattro bimbi, per una matassa di lana ritorta, trovatale sotto il grembiule.
— La visita!... Mamma, e non ti senti morir di vergogna, quando devi rovesciar le tasche?...
— Figliuola!... Tutto bisogna sopportare. Basta non pensarci. Allegri!...
Si parla di certe antiche fate, al tocco delle cui magiche dita o al suono delle cui magiche parole la pietra si trasformava in albero fiorito, le lagrime in perle e diamanti, i singulti in melodiosa dolcezza di canzoni. Nella sempreridente madre rivive forse una di quelle fate, dispensatrici d’ingenue meraviglie?...
Le domeniche di bel tempo, alleluia!... Si va in barca. I compagni, sempre gli stessi: Orsola, la tessitrice guercia che sa tante filastrocche quanti fili ha sul telaio: Francescone e Sergentin, macchinisti: le due sorelle Vestri, Emma bionda e Matilde bruna: tutta gente che abita al Revellino, di là dal ponte. Motteggi, celie grasse: chi ne vuole?... Ma la più giovine nella gaiezza, la più pronta allo scherzo ed al chiasso è la sempreridente Vittoria.
Francescone e Sergentin tengono i remi. Jole e canotti radon le acque con rapidità tripudiante, balenando nel passaggio sorrisi e pupille. Nuotatori guazzano a robuste bracciate; ma le loro teste sgocciolanti a fior d’acqua, quasi fossero staccate dal corpo, hanno una fissa espressione di spasimo che la figlia di Vittoria è forse la sola ad osservare; e il cuore le si stringe, e vincersi non può.
Se ne sta raggomitolata, in silenzio, nel fondo della barca: tutto quel verdazzurro laminato di sole le dà il barbaglio negli occhi. I compagni pensano che ella sia superba, e si tenga sulle sue perchè studia alla scuola normale, e non si sporcherà mai le mani con le lane da cardare e l’olio nero degli ingranaggi; e la sogguardano con un po’ di diffidenza. Ella invece ha, semplicemente, paura: paura dell’acqua; e non lo vuol dire, per orgoglio.
Quell’elemento senza forma, senza compattezza, che ella non può stringere nella mano o calcar sotto il piede; ambiguo, mutevole, traditore; che sta e fugge, che è ma anche non è; che lambisce e travolge, non le piace, non la rassicura, non lascia libertà e serenità al suo pensiero. Le pare sempre in agguato. Non arriva a comprendere la legge fisica per la quale una barca galleggia sull’acqua. Chiudendo gli occhi, finge a se stessa il momento in cui uno annega, e la sensazione che ne riceve è d’una raccapricciante intensità. Che davvero ella stia annegando?... No: la barca fila dolcissimamente; Francescone e Sergentin remano in cadenza, gli altri cantano:
La Vïoletta la va la va, |
E nuvole nuvole nuvole bianche si specchiano, fuggendo, nella corrente; e vanno vanno, nuvole in cielo e nuvole in acqua, barche, risate e canzoni. Chi le fermerà?...
Benedetta la terra, con le fondamenta delle case, con le radici degli alberi, con la solidità delle pietre, con la sicurezza delle belle carraie diritte fra verde e azzurro, simili a nastri di sole.
Verso la fine d’un aprile di piogge diluvianti, ecco che l’Adda straripa, assalta rive, case, campi. Terribile è l’Adda, quando sale. Un giorno che la piena è più alta, dalla fabbrica, in pericolo, gli operai son rimandati alle loro case. Che sorpresa, che gioia, per Dinin, trovare, tornando dalla scuola, la mamma sulla soglia, che le sorride!...
Hanno entrambe l’impressione d’esser due scolarette in vacanza. Quale delle due è la più piccola? E vanno, a dispetto del piovischio, fino al ponte, per veder lo spettacolo come i signori a teatro.
Gran folla. — Una processione, lenta, nera, interminabile, di gente che parla sottovoce, con gesti di tristezza e di terrore; e pur rivela dagli occhi l’inconscia soddisfazione sadica che sempre è data, che a tutti è data, dal brivido della disgrazia.
Il fiume arriva a qualche metro dai parapetti. Sommersi i granitici pilastri, fin quasi all’altezza degli archi.
Lungo è il ponte, di solidità secolare, con l’apparenza d’eternità che non è tanto dei monumenti eretti dall’uomo quanto delle elementari formazioni dovute alla natura.
Ma sembra, ora, ondeggiare come la barca di Francescone: non sicuro sotto i passi, sospeso per miracolo nell’aria caliginosa, fra la tristezza del cielo e l’ira del fiume.
Il fiume?...
Non c’è più. Ha mangiato gli argini, inondato le strade, i prati, i boschi, le stalle, le cascine, a perdita d’occhio. Acqua e solo acqua. La massa dilagante, d’un torbido color terragno, sgorga dall’infinito per riversarsi nell’infinito; rapinando, fra blocchi di giallastra solida schiuma, pezzi di mobili, culle vuote (dov’è il bambino?...), tegoli, cenci, carogne.
E quel rombo!... Quel rombo sordo, vicino e lontano, che non è solo dell’acqua!... Della terra, piuttosto: soffocata dalla nemica che la preme e la sommerge.
Oscure parole del Vecchio Testamento, udite in iscuola, ritornano alla memoria della fanciulla: «E nel principio era il caos. Poscia, il Signore separò le acque dalle acque».
Sta per ritornare il caos?...
Il natural terrore di lei per l’elemento liquido comincia a renderla inquieta: il senso dell’annegamento la ghermisce al cuore, le turba la vista, la fa quasi vacillare. Sempre, in ogni più grave momento della sua vita, quel senso la riafferrerà; con la visione dell’Adda in piena.
Vorrebbe dire alla madre: — Andiamo, mamma, torniamo a casa, — quand’ella, come uscendo da un sogno, mormora, pensierosa, guardando il vuoto:
— Sai?... Debbo dirti una cosa. Una cosa... Ma alla fin fine non sei più una bimba; e poi, io ti ho sempre parlato come a una donna. L’altro dì ho detto di no a Giusto Ferragni, il capo-tintore, che voleva sposarmi. Mi tormentava da tanto tempo!... Figùrati!... Voleva sposarmi.
La fanciulla considera con stupore profondo la femminetta che le sta accanto, e non le sembra più la mamma. Semplicemente una donna. La vede qual’è; non più giovine, non ancor vecchia. Forse quell’età l’ha sempre avuta. Lo scialle le nasconde la persona: la sciarpa, i capelli. Non si vedono le ciocche grige. La fronte nuda è un blocco d’energia: gli occhi guardan diritto, sotto i vasti archi cigliari: c’è un potente carattere di vita in quel volto dalle dure ombre, dai solchi nettamente segnati. E in ogni muscolo quel guizzar dell’interno vigore; e quel riso, quel riso d’occhi e di denti!...
Una donna: che può, ancora, amare ed essere amata.
Per la prima volta ella le appare sotto questo aspetto; e più sente di volerle bene: un commosso rispetto, una tenera trepidazione, verso di lei.
Ferragni: già. Il nuovo capo-tintore, venuto da Torre Pellice. Quasi vecchio anche lui: grosso, ruvido, corto ma saldo sulle gambe: un mastino di buona razza. Ora la giovinetta ricorda certe recenti irrequiete insonnie della madre, nel letto comune. Da qualche tempo deperisce, diventa nervosa, un nulla le è causa di lagno: sintomo grave in una natura come la sua. Ricorda anche, la giovinetta, di averla veduta, andandole incontro una sera, salir la «môntada» al fianco di lui: parlando fra loro: e le son parsi, chi sa perchè, lontani da tutti gli altri intorno.
Dunque l’amore non è solo dei giovani?... E come nasce l’amore?... E come finisce?... E che cos’è?... L’amor di Nani per Daria, l’amor di sua madre per Giusto Ferragni. Certe sue compagne, alla scuola, le fanno confidenze d’amore che non le piacciono perchè la turbano; mentre in un libro è tutta un’altra cosa: vi è la musica lusinghiera delle pagine stampate, che le trasporta l’anima.
— Mamma, perchè gli hai detto di no?...
— Perchè non posso darti un padrigno, figliuola. È ben vero che non si sarebbe più in miseria: Ferragni è ben provvisto, e credo possegga qualche terra al sole, là al suo paese. Ma ha un carattere così furioso!... Lui stesso lo confessa. E allora, capirai: come sarebbe andata, con te?... Dolori su dolori, forse. Una vera mamma non dà, per nessuna ragione al mondo, un padrigno ai suoi figli.
— Ma tu?... Tu potresti riposarti, far vita migliore...
Silenzio. Piovischio. È il fiume che si innalza o il cielo che discende?... Combaciano, quasi.
— Non importa — riprende Vittoria, stringendosi infreddolita nello scialle — non importa. Del resto Ferragni ha già chiesto e fissato un altro posto, ne’ suoi paesi. Partirà presto, fra alcune settimane. Oh, sai, bambina, gli uomini... fanno presto a consolarsi. Lassù ne troverà un’altra, se proprio ha la febbre del matrimonio. Restiamo io e te, Dinin. Io e te, sempre sempre...
Silenzio. Dinin vorrebbe, dovrebbe dirle che, forse, non ha fatto bene: che l’amore è una ricchezza troppo grande perchè si possa respingere. Ma che ne sa, lei, dell’amore?... e della maternità?... Se così la madre ha deciso, è perchè la sua natura risponde meglio a questa risoluzione. Una parola l’ha colpita, in bocca di lei: «i figli».
I figli?... No, mamma: io.
All’altro pensi meno: forse perchè non devi affaticarti per lui. Ma tu non t’accorgi di questo, e credi di volergli lo stesso bene che a me, povera mamma!... È per me, per me sola, che hai detto di no al Ferragni. Tutti i sacrifici, tutte le carezze, tutto l’orgoglio per me. Ma io ti renderò quanto mi dài?... E se domani sulla mia strada trovassi anch’io l’amore che mi portasse via come fa con tante, dove ti lascio, mamma?... E tu che farai?... Non m’hai forse dato troppo di te, mamma?...
Pensa; ma non dice.
Voci che rombano in cuore, imprecise, torbide, con il rombo dell’Adda in piena. E il cuore le fa male, sotto il peso d’una responsabilità che prima d’ora ella non ha così duramente sentita. Son lì, madre e figlia, ancora, e per la vita, avvinte dal laccio di carne che unisce alla sostanza materna il neonato appena espulso. Così fragili, così effimere!... E sole. Il cielo basso, color di fango, par le voglia schiacciare. Sotto i loro piedi, il ponte par debba essere inghiottito d’istante in istante. La madre si appoggia alla spalla della figliuola, ch’è già più alta di lei. E il fiume che sale, che sale a nasconder la terra: e nel cervello della giovinetta, coprendo ogni altro pensiero, le parole del Vecchio Testamento: «Nel principio era il caos. Poscia, il Signore separò le acque dalle acque».
Non è più lei, da qualche tempo. Fiacca negli studii: svogliata in tutto: opaca nel comprendere, e più tarda nel ritenere: giallognola nei toni del viso, con occhiaie talmente addentrate nella carne, da sembrar cicatrici.
Si sveglia, in piena notte, di soprassalto, per sogni paurosi di pozzi nei quali affoga e di muraglie frananti sotto le quali soffoca. Il cibo le ripugna, alcune volte, con sensazioni di nausea intollerabili.
Le dice la madre, serena, senza falsi pudori:
— Non è nulla!... Tu sei sana come un corallo!... Sarai vicina allo sviluppo. Uno di questi giorni, oppur fra qualche mese, vedrai... Non t’inquietare. Sai pure cos’è.
Sì: ella crede di saperlo. Ne ha parlato con altre fanciulle; l’ha intravisto, dietro frasi sapientemente velate, in certe pagine di romanzi. Ma, quando giunge per lei la crudità della rivelazione fisica, il vero l’atterra.
È sola in casa. Maggio entra dal balconcino aperto, tacitamente frenetico, con tremuli riflessi di verde, tepor di sole, profumo di acacie e ronzii musicali di bombi in amore. Ella vorrebbe sempre udire ronzio di bombi in un silenzio verde. Tiene in grembo un’antologia, aperta su una pagina di versi eterni. Deve mandarli a memoria, per la prossima lezione d’italiano; ma non le riesce.
Non le si fissano nel cervello: rimangono sospesi a mezz’aria, per incanto, confusi con il tepor del sole, il profumo delle acacie, il ronzio felice dei bombi. Pensa una cosa bella, che le sorride: nessun poeta ha scritto quei versi: nacquero meravigliosamente da sè, nell’animo e sulla bocca degli uomini, in un mattino di maggio. Son come l’aria, sono un elemento, si può sprofondarvisi...
Ed ecco, si sente davvero inabissare in acque profonde.
Quanti minuti rimane così, abbandonata sulla sedia, senza conoscenza?... Non sa. Ripresi i sensi, s’avvede, con uno spavento che la ragione non sa dominare, della mutazione avvenuta in lei.
Il suo sangue.
Non l’aveva ancora nè sentito, nè veduto. Il suo corpo ne è dunque tutto pieno?... Dentro, non ha che sangue?...
Purpureo, denso, caldo, con un odore che non somiglia a nessun altro, un odore che la rende quasi folle. Dai piedi al cervello è il suo padrone. Se esce fino all’ultima goccia, la lascia morta.
E se stesse per perderlo tutto davvero?... Balza fino all’uscio che dà sulla scala, attraversa il pianerottolo, vincendo il peso di piombo che le mortifica le reni; e batte alla porta di Tereson — la governante del vecchio signor Antonio, impiegato in pensione.
Tereson sta rimettendo a posto, nella rastrelliera di cucina, i piatti ben lavati, lucidi a specchio; e brontola fra sè e sè, perchè le si slabbrano proprio dove splende un filo d’oro. Ha petto esuberante, fianchi poderosi, camusa faccia energica, l’aspetto di una bella bestia sana.
Si mette a ridere a ridere, scuotendosi tutta per l’allegria, alle prime confuse parole della povera piccola: le presta subito, affettuosamente, cure materne: le dà qualche consiglio, la rimette in calma. O, almeno, lo crede.
E la rimanda con queste parole, frammiste a gorgoglìi di riso fra il bonario e lo sguaiato:
— Ma va là, scema che non sei altro!... Che ti serve, allora, aver letto tanti libracci?... Ne avrai di queste noie, per lo meno fino ai cinquant’anni, che Dio ti aiuti ad arrivarci!... Non vuoi essere una donna?... fare all’amore?... aver figliuoli?... Io te lo insegno, io, povera serva, che siam femmine solo per questo!...
Non le risponde. Sguscia nella propria camera, si butta sul letto: stronca.
Ha schifo di sè. Pensa che quella novità fisica la mette al livello della Tereson. Anche lei, ma sì!... ma sì!... uguale alla Tereson. Tanto male, tanta vergogna, tanta schiavitù, fino ai cinquant’anni, fino a quando una donna è vecchia, cioè non esiste più... Perchè non si può essere nè donna, nè uomo, ma un semplice spirito?... Un crudo bisogno di evadere dal proprio corpo le fa graffiar con le unghie la coperta. Sottostare alle leggi della carne le è odioso supplizio; e morde il cuscino e si contorce sul letto singhiozzando, in preda a spasimi di ribellione isterica.
A poco a poco i singulti si fanno più radi e più stanchi: l’esasperazione dei nervi si esaurisce in se stessa: strema di forze, la creatura umiliata si addormenta.
E solo nel sonno può evadere.
Via delle Orfane pregante in solitudine, antica e povera, tutta sassi, con un sottil marciapiede da un sol lato: dall’altro non v’ha che una muraglia bassa, a difesa di vasti giardini. Via delle Orfane piena di conventi, e di tacite case private simili a conventi. Quando il sole vi batte, chi passa vede troppo bene, in quel vuoto silenzio, la propria ombra; e ne rimane turbato. Canti e cinguettii d’uccelli vengono dai nascosti giardini: suoni di campanelli claustrali, tremuli d’umiltà e chiari d’innocenza, salgono dai cortili e dagli oratorii interni.
Per Dinin, via delle Orfane si trasfigura spesso in una strada-cimitero, fiancheggiata da cappelle mortuarie, sulla soglia custodite da un invisibile angelo.
La chiama, dentro di sè, «la strada dei morti»; ma non ne ha paura: da quando vide la nonna sul suo letto di serenità, i morti son per lei più calmi e più benevoli dei viventi.
In fondo, forma angolo con un vicolo: sudicio, oscuro: gli ha messo nome «il ladro», perchè le sembra un ladro in agguato. Proprio su quell’angolo sta la casa dello zio, maestro di scuola.
Dinin non ha mai potuto sopportare lo speciale odore di quella casa. Odor misto d’inchiostro e di muffa, di ossame marcio, di vecchi cenci e di rifritto andato a male: che sta fra la pensione a buon mercato e la scuoletta di carità.
Pure, lo zio è persona istruita e con una cert’aria d’autorità nel secco modo di parlare, nel piccolo corpo diritto, nel lungo naso tagliente. E la zia ha l’aspetto d’una badessa tisica, sempre striminzita in un abito nero che il tempo ha reso lustro e verdiccio, con penduli orecchini di mosaico raffiguranti due colonne tronche, spillone di mosaico raffigurante il Pantheon.
Sotto il peso delle colonne tronche e del Pantheon par ch’ella crolli, con la faccia cerea, le mani ceree, la schiena curva, la bocca amara ma rassegnata di chi nella vita non ebbe in sorte che ingiustizie e sperò sempre invano.
Come mai le cose sono andate così male?... L’odore caratteristico della casa, che la piccola aristocratica non sa respirar senza nausea, è odor di disordine morale e di rovina.
I due angusti dormitorii degli allievi pensionanti, con le finestre aperte sull’orto dove non vivacchian che fagioli, pigre zucche, susini malati ed erbacce, sono ormai vuoti. I letti mostrano i sacconi sbadiglianti dalle vaste scuciture; e uno strato nerastro ed unticcio è rimasto nel fondo delle catinelle. La sala da pranzo è chiusa. Si mangiano, in cucina, certi intingoli di dubbio sapore, che ricordano il grassume con il quale la zia, rimasta miracolosamente d’un nero corvino a cinquantacinque anni compiuti, si spalma le lisce bande dei capelli.
Tristi discorsi, mentre s’inghiottono i cibi ambigui.
Era pur riuscito, lo zio, a mettere insieme una buona comunità di diciotto o venti ragazzi, figli di piccoli possidenti del contado, da avviare alle lezioni pubbliche. Ma il vizio del bere gli ha guastato il carattere, inasprito i nervi, rammollito il cervello. Si bùccina anche, sottovoce, di una malattia inguaribile del midollo spinale; ma proprio in chiaro le cose non si dicono, e non si sanno.
Uno per uno, i pensionanti vengon portati via dalle loro famiglie; ed egli annega nel fiasco e nel bicchierino di liquore l’umiliazione e gli ultimi denari, schiaffeggiando ogni tanto (di uno sfogo si ha pur bisogno!...) la moglie sempre più rassegnata, anche alle busse; e urlando contro Nani che, invece di studiare, fa il politicastro nella Frusta, scribacchia articoletti sovversivi nella Voce dell’Adda; e, per mala imitazione, si mette a bere anche lui.
— Mangiapane a tradimento!.. T’avessi lasciato dov’eri!...
Nani risponde con il suo più terreo pallore e con una scrollata di spalle; e se ne va zufolando. Attaccato alle sottane della zia non resta che Pedrotto: un ragazzino di undici anni, con un visuccio del quale non si vedono che le larghe orecchie ad ansa e gli umili occhi di cane. È senza mamma: suo padre ha ripreso moglie, e, pur di averlo lontano, si accontenta di pagar la retta mensile, senza badare ad altro.
La zia non può vivere senza Pedrotto: se l’è messo persino a dormire in camera, per non lasciarlo solo.
Ma un giorno il maestro è portato in barella alla casa d’angolo di via delle Orfane. L’han raccolto sulla strada provinciale, con una spalla e una mascella sfracellate dal tram a vapore. Non si sa se cadde, o se si buttò sotto per volontà di morire. Il tram non lo ha ammazzato subito; ma lo ha ridotto in fin di vita.
Non v’è da piangere. Certe morti hanno la necessità senza remissione dell’ora che scocca. L’uomo era già finito. Bene è che muoia.
Sul guanciale, la sua testa fasciata di garze sanguinolenti è tranquillissima, con il lungo e stretto naso a lama nel mezzo del volto, proteso in avanti come per dare un comando o lanciare una rampogna, anche in punto di morte. Piangere?... Perchè?... Quel che accade è logico. Eppure la sua donna piange, che resta sola nel mondo, senza più nemmeno chi la schiaffeggi e la faccia soffrire.
Dopo le esequie, anche Pedrotto se ne va.
Nella casa, che a poco a poco si va spogliando dei mobili ad uno ad uno venduti, che sa di muffa e di acquaio, di pattume e di retrobottega, la vecchia si trascina, floscia, inutile, senza speranza, senza bontà: sola sua occupazione, certi complicati lavori in capelli, su raso, su cartoncino, su fil di ferro, che puzzano di cadavere.
Alla fine, scompare.
Chi l’ha veduta morire?...
Forse non è morta: s’è dileguata.
Vi sono esseri che spariscon così, al pari di certi alberi nella nebbia, quando cade il crepuscolo di novembre.
Nani a Dinin, un mattino, trenta minuti avanti l’ora di scuola (la mamma è già partita da un pezzo per la fabbrica):
— Son qui un momento. Poi scappo. Sai, da oggi mi metto con Daria, nella casa di Ignazia: ci sposeremo al più presto. Ignazia è contenta: per forza. Diciassette e quindici anni!.. C’è da morir dal ridere. Due bambocci; ma Daria è incinta. Avverti stasera la mamma, quando torna dalla fabbrica: non mi può negare il suo permesso. So che pensa di mettermi una branda qui in cucina, ora che entreranno i nuovi pigionali nella casa degli zii. Ma qui... è inutile: qui non ci son stato da bambino, non ci starò da grande. E pianto in asso la scuola. Chi paga i libri; ora?...
Gira la testa, a Dinin. Le danzano intorno i mobili e i muri.
— Ma non ti manca che un anno di corso... Ma ti vuoi far mantenere da Ignazia?... Bisogna pur guadagnarsi il pane.
— Vir sum. Ho già cercato, e trovato. L’ingegner Giraldi mi prende come giovine di studio, a cominciare dal venturo mese. Due franchi al giorno... Non vi sarà da scialarla. Daria lavora da sarta. Poi verrà il bambino, e chi vivrà vedrà...
Il bambino!... Figlio di due fanciulli: proprio un bambino vivo, di carne e d’ossa, che strilla e vuole il latte, che cresce e bisogna allevare, quasi avesse padre e madre sul serio.
— Che hai fatto, Nani?... Non hai pensato...
— A cosa?... Sei carina, tu. C’è da morir dal ridere. Tu non capisci nulla. Tu sei Dinin, che impara tutta la sua lezione e crede che la vita si viva tirando tutte le somme sino all’ultimo centesimo. Sei un ritratto in cornice... Ma hai torto marcio. La vita è ben altra cosa, ben altra cosa, Dinin.
Uno strappone agli omeri, un bacio più con i denti che con le labbra, una piroetta, una sghignazzata fra il «te l’ho fatta» e il «me ne infischio»; e via a rompicollo.
Ella rimane, con la testa confusa e pesante, a raccogliere i libri per le lezioni. Gran differenza, fra i libri e la vita. Alla sua età, l’età di Daria, ella potrebbe dunque avere un amante, avere un bambino?... Il suo magro e svelto corpo non ha un brivido a tale pensiero: non un’ombra lo spirito. Solo, un freddo sgomento, un desiderio di sottrarsi, di rendersi libera. È Nani che ha torto: la sua è l’esistenza dei deboli e dei ciechi, travolti nella ridda, mangiati vivi dalle passioni.
Non la vuole. Le mette paura. Preferisce l’acqua pura bevuta dietro la minestra di riso e latte, il buon sonno riparatore dopo lo studio e il lavoro sereno, i poveri conti di casa, chiusi senza il debito d’un soldo, l’ordine che è pace, la solitudine che è indipendenza. Un uomo nella sua vita?... Ma nessun giovane si è finora voltato indietro per guardarla in istrada: oh, meglio, meglio così!... Comprende bene, adesso, per qual ragione la madre l’anteponga al primogenito, e metta in lei ogni sua speranza.
Però, la notte, dopo avere a lungo vegliato con la povera donna, nella fredda cucina e nel letto inquieto, sospirando e ragionando sulla triste novità, ella s’addormenta d’un sonno che non è il suo solito: d’un sonno tormentato, rotto da soprassalti.
E verso l’alba fa un sogno.
Ha un bambino accanto a sè: in una culla: tutto nudo, che vagisce. Sa che è suo. Come l’ha avuto?... e da chi?... e quando?... Non ricorda nulla. Nella carne, si sente intatta e sigillata: un frutto verde. Eppure il bambino è lì, che si lamenta, stringendo i pugnetti; e il padrone è lui. Ella non potrà, non dovrà più fare altro che cullarlo, nutrirlo, servirlo, allevarlo. Un’implorazione piena di dolore trema in quel vagito che fende l’ombra e trapassa i muri.
— Io non volevo venire al mondo — pare che gema — guardate come son misero. Siete voi che mi avete chiamato; e adesso, adesso come si fa?...
Per calmarlo, se lo prende in braccio. Ma non sa tenere in braccio un bambino da poco nato. Quelle membra le sembran di vetro, le fan quasi ribrezzo: teme di lasciarlo cadere, e che si rompa in terra: nulla di quell’essere risponde al suo sangue. E lui piange piange; ma il mugolio sconsolato si tramuta in un balzellante, sardonico sghignazzamento di Nani:
— Ah, c’è da morir dal ridere!... La vita è questa, è questa, Dinin.
Tardi ella si leva, e sofferente: appena in tempo per correre a scuola: con le ossa peste dal sogno malvagio. Il posto della madre, nel letto, è vuoto. In piedi alle cinque, pian piano per non destarla, è partita per l’opificio. Pianse tutta la notte, e non potè assopirsi nemmeno un minuto. E non aveva la forza di alzarsi, così presto, e pur doveva; ma non v’ha tormento che possa permetterci di non lavorare.
Giornate austere, senza mutamento, a grado a grado allargantisi dalla primavera nell’estate: la madre alle fatiche solite, la figlia ai soliti studii.
Ai canti dell’operaia Vittoria scanditi sul respiro dei telai giù nella fabbrica, rispondono dalle stanzette verso il giardino del palazzo di via Roma i canti di Omero. La fanciulla è finalmente penetrata, sangue ed anima, nella Poesia.
Molta carta stampata divorò sin dall’infanzia; ma non era Poesia. Molte pagine di versi studiò alla scuola; ma ancora non li sentiva come Poesia.
Adesso vede: adesso comprende: tutto è trasfigurato.
I venti azzurri dell’Odissea, portanti dal largo echi di cori eroici: la bellezza di Elena, sola femmina nel mondo fra gli uomini e la morte: l’irruente cavalcata notturna degli endecasillabi dei Sepolcri, e sovra tutto certe immobili e portentose serenità del Leopardi la mantengono in quello stato di grazia, di dolcezza gaudiosa che prima le fu rivelato dall’ascoltare, attraverso l’invisibile e l’inafferrabile, il fluire del tempo.
Quanto è ricca!... Assai più della signora che un giorno le disse: — Tu hai rubato: — assai più delle figliuole di lei, che ora studiano il pianoforte e le lingue straniere, frequentano i «balli bianchi», si fanno mandare gli abiti dalle prime sarte di Torino, e la salutano un po’ da lontano, un po’ dall’alto. Buone, però. Lei non è buona: superba come Lucifero, invece, perchè è tanto ricca.
Possiede il numero e l’armonia, il piede e l’accento; e una folla di visioni.
Sa che ne avrà, per sempre. Ora che ha scoperto il segreto della gioia, ne abusa. Quando va, al crepuscolo, ad aspettare la mamma dinanzi all’opificio, il cadenzato fragor della trasmissione, che fa quasi tremare l’aria intorno, si traduce per lei in endecasillabi e settenarii altosonanti.
L’unico nella scuola normale che sia da lei considerato «maestro» è il professore d’italiano; e un sacerdote veramente egli le sembra, in una speciale ora della settimana che dalle allieve vien chiamata «l’ora di Dante».
È un sessantenne, di aspra verdezza. Emigrò, giovanissimo, dalla nativa Trieste in Lombardia, per odio contro l’Austria e per passione di libertà. Il suo nome è Paolo Tedeschi.
Fu già negli ordini religiosi, e si spretò per prender moglie. Rude talvolta, di una battagliera probità: ingiusto mai. Un viso di condottiero antico, sbozzato nella pietra a colpi d’accetta e acre di bitorzoli: spalle da lottatore, bellissime mani da vescovo. Insegna con fervore, con lentezza appassionata; e mentre insegna ha sempre l’aria di studiare e di imparare anche lui. Ma nell’«ora di Dante» non fa che leggere; e legge come si prega.
Mai, fin che avrà vita, la figlia di Vittoria dimenticherà quella voce e quelle letture. Voce ricca di tonalità profonde, che non mangia una sillaba, non tradisce un accento, sale, scende, penetra, con un silenzio o con una vibrazione rivela tesori nascosti; e giunge a sembrar parte carnale del verso.
Tanto può la voce dell’uomo?... Le Cantiche sono in tal modo offerte alla fanciulla, nè meglio potrebbero esserlo: senza commenti, nude, nell’interpretazione più vivente e più casta. Quel che il suo spirito non comprende, le è dalla musica fatto chiaro. Ella ne rimane spesso atterrata, nella dolcezza dell’estasi mistica. La poesia, così cantata a piena orchestra, agisce su di lei come un tempo le visioni celesti sulle sante, che ne cadevano in rapimento. Il maestro se ne avvede: ne stupisce: l’osserva: senza mostrarlo, la predilige sulle altre.
Un giorno, a tu per tu nell’aula rimasta deserta (illuminata ancor l’aria dal canto della divina foresta spessa e viva) le dice, accarezzandole paternamente i capelli castagni, la spalla gracile:
— Come sei pallida!... Ti fa così male la poesia?... Se ti fa così male vuol dir che l’ami troppo. C’è tanta inquietudine anche ne’ tuoi componimenti... Soffrirai, soffrirai, bambina mia.
Il maestro scherza, senza dubbio. A lei, che assapora la sensazione d’esser tutta vuotata del sangue, sembra che egli pronunci una bestemmia. Soffrire?... A quella sofferenza ch’è amore ed eccesso di vita, ella non vorrà mai rinunziare: del resto, si domanda se, a un certo punto di pienezza, sofferenza e gioia non sieno la stessa cosa.
Impressioni di colori e di forme!... Ella non frequenta volentieri le case delle sue condiscepole: con una sola di costoro può andare, senza sforzo, a studiare in compagnia; e non ne ignora il perchè.
Non per l’amica, una fanciullona buona come il buon pane, cresciuta in fretta, che a sedici anni ne dimostra diciannove e nel cuore ne ha dieci; ed è assai bella, un fiore; ma senza intensità di profumo.
Va da lei, perchè la sua casa le piace.
Un palazzetto antico, che fu, nel passato, un convento. Stanze a vôlta, fresche, imbiancate a calce, con mobili neri, ad intagli, e quadri di soggetto sacro, quasi neri anch’essi. Che pace!... Una ve n’è, con le pareti frescate di episodii dell’Antico Testamento; e non contiene che un Cristo di legno, enorme; due cassapanche e un inginocchiatoio.
Nel cortiletto, dove stanno a studiare nelle giornate non piovose, ella passerebbe tutta la vita. Piccolo, ma sembra grande: cinto all’altezza del primo piano da una loggia in cotto: nel mezzo, un pozzo verde di muschio: erba intorno al pozzo: quattro lucidi lauri agli angoli: e all’ingiro un portichetto di leggerezza aerea.
Bianche e nere, una volta le monachelle passavano in fila, pregando, dietro le colonne.
Il sole vi prende un altro colore, più ricco: forse in causa del cotto, che ha un sì bel rosso, e nel tramonto si accende come la bragia.
Fra quegli archi, quella cimasa di ardor sanguigno, quei quattro lauri e la fanciulla si svolgon colloqui, dei quali le parole son linee, luci, ombre, riflessi.
V’è un punto del giorno in cui, se il cielo è sereno, il sole giunge di sbieco fino ad un cornicione di finestra, abbracciato da un gelsomino rampicante. Quel punto del giorno è, per lei, lo stato di perfezione.
Vorrebbe fermarlo: fermarlo in sè.
E solo quando la sua vita sarà matura, ella si renderà ragione di un fatto che la lasciò per molto tempo dubitosa e turbata: il ritiro della sua florida compagna, per incombattibile vocazione, in un convento di clausura.
Le cause del dolce male mistico stanno in quella casa ex-monastero, in quelle stanze popolate di santi in orazione, in quel cortile di estatica bellezza claustrale. Le cose, a poco a poco, hanno inciso nell’anima fanciullesca la certezza che non si cancella più.
Dove sei, suor Innocenza?...
Tu hai fermato quel punto del giorno.
È il luglio torrido. La mamma si è ammalata. Bisogna compiere con viso sereno un atto di coraggio: accompagnarla all’ospedale.
La malattia (una bronco-polmonite) non è gravissima; ma dà pensiero per le conseguenze, e richiede cura e riposo.
Che strappo, lasciar la mamma distesa in quel letto posto in fila con tanti altri, e doversene proprio andare; e addormentarsi sola la sera, senza il conforto della lunga conversazione a bassa voce, al buio, nel tepore delle coltri comuni!...
Ogni giovedì ed ogni domenica, dalle dieci a mezzogiorno, ella si ritrova al capezzale dell’inferma, nella corsia Santa Caterina. Ma, ecco: la verità è questa: se non fosse il veder la mamma con quell’affanno nel respiro, quella tossetta grassa, quegli zigomi che sembrano carboni ardenti, ella troverebbe bellissimo l’ospedale.
Tutto le è fraterno là dentro: la lucente frescura dei corridoi, il bianco inesorabile delle pareti e dei letti, le vetrate che sembran squarci di cielo; e quell’odor misto di disinfettanti e di decotto d’orzo, e quelle suorette in cuffia alata e scarpe di feltro, silenziose come la pietà; e quelle solide infermiere dal fazzoletto candido, incrociato sulla tunica a quadretti bianchi e blù.
V’è un ritmo d’ordine, anche nei malati. Più che di soffrire, han l’aria di riposare.
V’è una bellezza: pacata: piena di solennità.
Dalla bocca febbricitante, ma serena, di Vittoria (attenta intorno a sè e curiosa della vita a malgrado del male) la figliuola impara sventure e miracoli di tutte le inferme della corsia.
Discorre con le meno aggravate, con le convalescenti e gli umili congiunti che le vengono a trovare. Quella gentuccia le par di conoscerla da un pezzo: l’aveva in cuore, forse, e non lo sapeva. Dice parole di consolazione. Ne riceve, con semplicità.
Per la prima volta, attraverso la pena materna, il dolore altrui è entrato nella sua vita. Lo considera con occhio che sembra già esperto: gli va incontro con saldo cuore. Sente, timidamente ancora, che esso è elemento di fortezza e di ricchezza senza pari — e che respingerlo per paura o per egoismo vorrebbe dire impoverirsi.
Se ce la lasciassero, nell’ospedale, sia pure a lavorare, a confortar malati, fino a quando vi deve rimaner la mamma!... Come sarebbe contenta!... Uscendone, proprio nell’ora del mezzogiorno (groppo alla gola, pianto che non si vorrebbe lasciar scorgere e rientra dagli occhi nel cuore) non sa risolversi a ritornar nelle stanzette dove nessuno l’attende.
Può andar dove vuole: girellare per la città: fino a sera: fino a notte.
Da qualche amica?... da qualche compagna di scuola?... È schiva, lei: è orgogliosa: senza invito non va: e poi si è in tempo di vacanze: il pretesto di studiare insieme non si può addurre.
Dal fratello, che si fa veder così di rado dalla povera mamma inferma, semplicemente perchè — dice lui — l’ospedale lo fa ammalare?...
Ma ha una casa, il fratello?... No. La casa è della grossa Ignazia. Nel retrobottega ingombro di legumi e di frutta andata a male, sentirebbe i lagni delle due donne contro Nani, che passa le sere all’osteria, torna alticcio e, per aver ragione, fa alla moglie violente scenate di gelosia; e non mette fuori un centesimo.
Quella piccola sposa della sua età, dal ventre gravido, la turba. Vorrebbe domandarle tante cose sulla sua maternità; ma le sembra che ella non sappia nemmeno d’esser madre fra poco. Nell’intimo, le ripugna. Quanto è bella, se pur resa deforme dal suo stato!... La sente di un’altra razza: la razza delle donne dalla carne felice, che fan voltare gli uomini per via e li attirano nel solco del loro odore. Sa che il disaccordo non impedisce a Daria, fra una burrasca e l’altra, di andar con il giovine marito ai soliti balli nei soliti ritrovi; profanando la propria gravidanza, esponendosi a un immediato pericolo di sconciatura.
Qualcuno dice che lo fa apposta...
... Nemmeno la casa di Ignazia, dunque, per Dinin.
Dove andrà?... E mangiare?... Pazienza. Un pezzo di pane e un frutto si posson ben cacciar giù anche per la strada.
La strada è bella, specie quando si è soli.
V’è in questa solitudine, in questa libertà di cui ella fa, per istinto, uso così puro, una malinconia che non le sfugge, e per la quale si sente privilegiata.
La piazzetta dinanzi all’ospedale non ha che radi passanti: case chiuse, persiane chiuse, erba fra le pietre, gialliccia, bruciata dal sole. Qualche panca, sulla quale sedere e sognare.
Si direbbe che il silenzio vien dalle cose, e che le poche voci degli uomini non riescono a turbarlo. La facciata trecentesca della chiesa di San Francesco, raccolta in nuda purità, chiude la piazzetta con il segno di Dio.
La fanciulla entra nella chiesa, s’inchina, porta alla fronte le dita intinte nell’acqua benedetta, siede ad un banco, in un angolo.
È il suo rifugio.
L’ascetica penombra odorosa d’incenso, l’anelito verso l’alto delle navate archiacute, i santi in estasi sulle vetrate, le Vergini giottesche offrenti il Bambino dalle colonne sono altrettante trasfigurazioni dell’anima sua. Qui ella sente le parole, «sempre» e «mai» terribilmente viventi nell’aria e nella pietra, e il loro significato ella vorrebbe concretare nei limiti del pensiero tesi fino allo spasimo; ma non può.
E prega. Non con umiltà. Ella non è umile: chi vive solo non è mai umile. Non implora: — Dio, aiutami — perchè il proprio dolore lo accetta come vita, e non crede di aver bisogno d’aiuto. Più che preghiera, la sua è comunione. Con le forze supreme, alle quali non dà volto ma nelle quali crede, parla quasi a tu per tu. Il cerchio spirituale che la chiude è assoluto, come il segno di Dio sulla facciata della chiesa di San Francesco.
Un altro luogo di raccoglimento — e di bellezza — ella va spesse volte a visitare, per una strada fuori città, rettilinea tra file di platani e calme distese di prati. Il cimitero.
Vi dormono i suoi vecchi zii, la nonna, (il padre no, che riposa nel Gentilino di Milano) e c’è venuta da poco ad abitare anche l’opulenta signora che un mattino, già lontano ormai, non volle ella toccasse i gigli dell’aiuola; come se la sua mano fosse sacrilega. La morte, nelle prime ore, l’aveva resa così sottile e bella, da parere una santa addormentata: ora è quieta sotterra, e nessun segno di negazione o d’imperio nè con il braccio nè con la voce può fare più.
Al cimitero, però, la giovinetta non va per la morte: va per la vita.
Nè ella lo sa. Obbedisce alla potenza dell’istinto. Quando si trova nel recinto delle lapidi e delle croci, le sembra di esservi nata, e vissuta in pienezza. La serenità che vi respira è perfetta. Ogni epitaffio, spiccante in lettere nere o dorate sui marmi immersi nel verde, le racconta una storia. E il verde è più denso, più gonfio di succhi, che in qualunque altro giardino. Più dei tralci di rose architettonicamente condotti intorno alle tombe, più dei massicci festoni d’edera, di un plumbeo rugginoso alle basi, di un nitor metallico verso le cime, avviticchiati alle pietre macchiate d’umidità, ella ama i fiori plebei: dalie, astri, violacciocche, cinerarie, geranii, traboccanti alla rinfusa e frammisti alle anonime erbe, ai piedi delle umili croci. Ama le stelle bianche e rosee dei sancarlini e il loro odor di terra; e i lumini votivi, preghiere mute. I guizzi di smeraldo delle lucertole le dànno brividi di gioia, le sembrano parole nel silenzio. E quei ronzii di élitre azzurrastre, per il suo orecchio musiche di sogno; e quell’odore complesso di fiori vizzi, di fosfori, di materia in trasformazione, che la rende prima felice, poi incerta nel passo e greve nel cervello come un’ubbriaca...
Non prega. Gode. Occhi immobili la fissano benevolenti. Gode. Non viva fra morti, ma viva fra vivi, in un campo di sconfinata libertà dove nessuno la turba, nessuno aspetta nulla da lei; ed ella basta a se stessa, con la spontaneità d’un elemento.
Il suo bisogno di solitario vagabondaggio qui si placa: più in là non saprebbe andare: ove sono le tombe è l’infinito, e in esso ella riposa.
La mamma sa molte storie. Vere: di famiglie nobilesche, amiche o parenti della casa in cui nacque e visse fin dopo i trent’anni: vedute con i propri occhi, oppure udite dalle bocche dei servi, o respirate nell’aria come leggende.
La sua voce, nel raccontarle, (è tornata dall’ospedale; e a questi pochi giorni di convalescenza conviene pur fare un incanto) è la stessa, fresca d’incorruttibile giovinezza, che dieci anni prima, giù nella portineria della casa, leggeva alla nonna avventure di romanzi; mentre la bimba, di là, nel letto, ritta sui gomiti, con gli occhi sbarrati, in ascolto da ogni poro, riempiva della propria attenzione l’ombra della stanza vicina.
Ma v’è fra tutte quella che la bimba ormai donna ama di più: ch’ella vorrebbe sempre riudire, per sentirsi lo stesso gelido brivido scorrere dalla nuca al dorso: che poi si torna a raccontar da sè, addentrandosi con acuta crudeltà nella materia umana che la compone, per soffrire e godere più intensamente:
la storia di donna Augusta.