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Preambolo del volgarizzatore
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MANUALE DI EPITTETO

[I]

Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l’opinione, il movimento dell’animo, l’appetizione, l’aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.

Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.

Ricòrdati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t’interverrá di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi.

Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrá sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerá, essendo che in effetto tu non riceverai nocumento veruno.

Ora se tu sei desideroso di pervenire a questo sí felice stato, sappi che a ciò si richiede sforzo e concitazione d’animo [p. 86 modifica]non mediocre, e che di certe delle cose di fuori tu dèi lasciare il pensiero al tutto, di certe riservarlo per un altro tempo, e attendere alla cura di te medesimo sopra ogni cosa. Che se tu vorrai ad un’ora procacciare i predetti beni ed anco dignitá e ricchezze, forse che tu non otterrai né pur queste, per lo studio che tu porrai dietro a quelli, ma di quelli senza alcun dubbio tu sarai privo, i quali sono pur cosí fatti, che solo per virtú di essi si può goder beatitudine e libertá.

Per tanto, a ciascuna apparenza che ti occorrerá nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvézzati a dire: ‘questa è un’apparenza, e non è punto quello che mostra di essere’. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente con vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltá, ovvero a quelle che non sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ‘ciò a me non rileva nulla’.

[II]

Sovvengati che l’intento dell’appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l’intento dell’aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel ch’egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l’animo tuo non ischiferá se non solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non ti avverrá d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietá. Ma se egli sará vòlto a schifare i morbi, la povertá, la morte, tu avrai cattiva fortuna.

Astienti dunque dall’aversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che non sono in nostro potere, e in quella vece fa’ di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltá, si troveranno essere contro natura. Dall’appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocché se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non [p. 87 modifica]potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestá dell’uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbono degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell’animo ad appetire o schifare, con questo però ch’elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto.

[III]

Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle piú picciole. Se tu ami una pentola, dire a te stesso: ‘io amo una pentola’ perciocché se ella si spezzerá, tu non avrai però l’animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: ‘io bacio un mortale’; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi perciò a turbarti.

[IV]

Qualora tu pigli a far che che sia, récati a mente la qualitá di quella cotale operazione. Se tu vai, ponghiamo caso, al bagno a lavarti, récati al pensiero le cose che accaggiono nel bagno; la gente che ti spruzza, che ti sospinge, che ti rampogna, che ti ruba. E per metterti a quell’atto piú sicuramente, tu dirai fra te stesso: ‘io voglio ora lavarmi, e oltre di ciò mantenere la disposizione dell’animo mio in istato conforme a natura’. E il simile per qualunque faccenda. Cosí se per avventura al lavarti ti sará occorso alcun impaccio, tu avrai pronto il modo di consolarti dicendo: ‘io non voleva fare solamente questo, ma eziandio mantenere la disposizione dell’animo mio in grado conforme a natura. Ma io non la manterrò in tale stato, se io mi cruccerò di questo che ora m’interviene’. [p. 88 modifica]

[V]

Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni ch’eglino hanno delle cose. Per modo di esempio, la morte non è punto amara; altrimenti ella sarebbe riuscita tale anche a Socrate; ma l’opinione che si ha della morte, quello è l’amaro. Per tanto, quando noi siamo attraversati o turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sí veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni. Egli è da uomo non addottrinato nella filosofia l’addossare agli altri la colpa dei travagli suoi propri, da mezzo addottrinato raddossarla a sé stesso, da addottrinato il non darla né a sé stesso né agli altri.

[VI]

Guarda di non insuperbire di alcuna eccellenza o di alcun pregio altrui. Se un cavallo montando in superbia dicesse: ‘io son bello’; ciò sarebbe per avventura da comportare. Ma quando tu ti levi in superbia dicendo: ‘io ho un bel cavallo’; avverti che tu insuperbisci di un pregio che è del cavallo. Sai tu quello che è tuo? l’uso che tu fai delle apparenze delle cose. Sicché quando nell’usare di queste apparenze tu ti reggerai conforme a quello che la natura richiede, allora ti piglierai compiacenza di te medesimo a buona ragione: imperocché quello sará un pregio tuo proprio.

[VIII]

Siccome in una navigazione, poiché il legno ha dato in terra a qualche porto, se tu esci del legno per fare acqua, tu puoi bene ancora venir cogliendo per via qua una chiocciolina, lá una radicetta, ma egli ti conviene però aver sempre il pensiero alla nave, e voltarti spesso, per intendere se il piloto ti chiama, e chiamandoti, lasciare tutte quelle cose, per non aver a esser cacciato dentro legato come si fa delle pecore; [p. 89 modifica]cosí nella vita, se in cambio di radicette e di chioccioline ti si porgerá una donnicciuola o un putto, niente vieta che tu non lo debba pigliare e godertelo. Ma se il piloto ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa. E se tu sarai vecchio, non ti dilungherai dal legno gran tratto, per non avere a mancare quando il piloto ti chiami.

[VIII]

Tu non dèi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma volere che elle vadano cosí come fanno, e bene stará.

[IX]

La malattia si è un impaccio del corpo, ma non della disposizione dell’animo, solo che esso non voglia. L’essere zoppo si è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell’animo. Il simile dirai per ogni accidente che ti sopravvenga. Imperciocché troverai che esso sará di natura da fare impaccio a qualche altra cosa, ma non a te proprio.

[X]

A ciascuna cosa esteriore che ti occorra, rivolgiti sopra te stesso e cerca quale delle facoltá che tu hai, si possa adoperare verso di quella. Se tu avrai veduto un bel garzone o una bella donna, troverai che da poter usare verso di queste cose, tu hai la facoltá della continenza. Se ti occorrerá una fatica da sostenere, troverai la facoltá della tolleranza. Se una villania, la pazienza. E cosí accostumandoti, tu non ti lascerai trasportare dalle apparenze delle cose.

[XI]

Non dire mai di cosa veruna: ‘io l’ho perduta’; ma bene: ‘io l’ho restituita’. Ti è morto per avventura un [p. 90 modifica]figliuolo? tu l’hai renduto. Morta la tua donna? tu l’hai renduta. Ti è stato tolto un podere? or non è egli renduto anche questo? Ma colui che me ne ha spogliato è un ribaldo. Che fa egli a te che quegli che ti aveva dato il podere te lo abbia richiesto per via di tale o di tal altra persona? Fino a tanto poi che egli ti lascia tenere o il terreno o che che altro si sia, pigliane quel pensiero che tu prenderesti di una cosa che fosse d’altri, come fanno dell’albergo i viandanti.

[XII]

Se tu vuoi far progresso nella sapienza, lascia da parte questi cotali discorsi: ‘se io non avrò cura della mia roba, non avrò di che vivere; se io non gastigherò il mio schiavo, egli sará pure un furfante’. Meglio è morirsi di fame dopo una vita libera da travagli e timori, che vivere inquieto in grande abbondanza di ogni cosa. Meglio è che il tuo schiavo sia tristo che non tu infelice.

Tu incomincerai dunque dalle cose picciole. Ti si versa un poco di olio? ti è rubato un poco di vino? tu dirai: ‘a tanto si vende la tranquillitá dell’anima, la costanza: niente si può aver gratis’. Quando chiami il tuo fante, pensa ch’egli può accadere che colui non t’oda, e che ancora udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi. Ora tu non voler tanto concedere al tuo fante, che egli abbia in sua mano di poterti turbare la quiete dell’animo.

[XIII]

Se tu vuoi far profitto, comporta pazientemente di esser tenuto pazzo e stolido per cagione delle cose di fuori. Anzi, se egli si avrá di quelli che ti stimino uomo da qualche cosa, diffidati di te medesimo. Perché tu dèi sapere che egli non si può in un medesimo tempo conservare l’animo tuo disposto e ordinato secondo natura, e provvedere alle cose esterne; ma colui che ha cura dell’una di queste parti, di necessitá dèe trascurare l’altra. [p. 91 modifica]

[XIV]

Se tu vuoi che la moglie, i figliuoli e gli amici tuoi vivano sempre, tu sei pazzo. Perocché tu vuoi che dipenda da te quello che non è in tuo potere, e che quello che è d’altri sia tuo. Parimente se tu vuoi che il tuo servo non commetta errore, tu sei sciocco. Perché questo è un volere che la malizia non sia malizia, ma qualcos’altro. Ma se tu vuoi non desiderar cosa che poi non ti venga ottenuta, questo sí che lo puoi. Per tanto indústriati di ottenere questo che tu puoi.

Colui che ha in sua facoltá di dare o tôrre a una persona quel che essa vuole o non vuole, è padrone di quella cotal persona. Però chiunque ha volontá di esser libero, faccia di non appetire né fuggir mai cosa alcuna di quelle che sono in potestá d’altri; o che altrimenti gli bisognerá in ogni modo essere schiavo.

[XV]

Tieni a mente che tu ti dèi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in lá coll’appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignitá; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli dèi. Che se tu non toccherai pur quello che ti sará posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli dèi a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sí fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente.

[XVI]

Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della [p. 92 modifica]roba, guarda che l’apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: ‘questi è tribolato e afflitto, non dall’accaduto, poiché questo medesimo non dá niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch’egli ha dell’accaduto’. Ciò non ostante tu non farai difficoltá di secondare il suo dolore in parole, ed anco, se occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore.

[XVII]

Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sará o breve o lungo, secondo la volontá del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.

[XVIII]

Quando un corvo gracchiando porge cattivo augurio, non ti lasciar muovere da sí fatta apparenza, ma subito distingui teco medesimo e di’: ‘questo animale non prenuncia niuna disavventura a me proprio, ma forse a questo mio corpicino, o forse alla mia robicciuola, alla riputazioncella, ai figliuoli, alla moglie. Quanto si è a me, questo, se io voglio, è augurio buono, anzi ottimo. Imperocché io ricaverò utile dal successo, qual ch’egli sia per essere, solo che io voglia’.

[XIX]

Tu puoi essere invitto, e ciò è se tu non ti metterai a nessun aringo dal quale tu non abbia in tua facoltá di riuscire colla vittoria. [p. 93 modifica]

Guarda che quando tu vedi uomini onorati o potenti o come che sia riputati e osservati, l’apparenza non ti faccia forza in maniera che tu li creda avventurosi e felici. Perciocché se l’essenza del bene sta nelle cose che sono in nostra facoltá, non deono aver luogo né invidia né gelosia. E tu per la tua parte non vorrai essere né capitano di esercito, né presidente del consiglio, né console, ma libero: e a questo ci ha una sola via, che è non curarsi delle cose che non sono in nostro potere.

[XX]

Ricòrdati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l’opinione che si ha che questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all’ira, e non altri. Per tanto sfòrzati d’impedire che l’apparenza non ti trasporti in sul primo; che se tu otterrai un poco di tempo e d’indugio, piú agevolmente ti verrá fatto di vincerti e di contenerti.

[XXI]

Abbi tutto giorno dinanzi agli occhi la morte, l’esilio e tutte quelle altre cose che appaiono le piú spaventevoli e da fuggire, e la morte massimamente; e mai non ti cadrá nell’animo un pensier vile, né ti nasceranno desiderii troppo accesi.

[XXII]

Vuoi tu darti a filosofare? Apparécchiati insin da ora a dovere essere schernito e deriso da molti; aspèttati che la gente dica: ‘oh, egli ci si è tramutato in filosofo a un tratto’, e: ‘che vogliono dire quelle sopracciglia aggrottate?’ Ora tu non aggrottare le sopracciglia, ma non lasciar però di attenerti a quello che tu estimi il migliore, perseverando, come a dire, in una ordinanza nella quale tu sii stato collocato da Dio. E sappi che se tu durerai nel tenor di vita incominciato, [p. 94 modifica]quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d’animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie.

[XXIII]

Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sará intervenuto di versarti, per dir cosí, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l’abito, e sarai uscito dei termini del tuo instituto di vita. Però non cercare altro mai che di essere filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa’ che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti.

[XXIV]

Non istare a darti pena e sconforto dicendo fra te medesimo:

io menerò una vita ignobile

e: ‘io non sarò nulla’. Perocché se la ignobilitá è un male, non puoi tu patire alcun male per cagione d’altri, piú di quello che incorrere in alcuna vergogna. Ora dimmi, il pervenire a un ufficio pubblico, o l’esser chiamato a un convito, forse che sta in tuo potere? or come dovrá egli essere ignobile o ignominioso che tu non abbi parte in questo convito o che non pervenghi a questo ufficio? E come di’ che tu non sarai nulla, quando a te non si conviene essere qualche cosa se non solamente in quello che è in tua facoltá, dove tu puoi bene essere d’assaissimo? — ‘Ma gli amici non avranno da me aiuto né benefizio alcuno’. — Di che benefizi e di che aiuti vuoi tu intendere? Non avranno da te oro e, quanto è a te, non saranno fatti cittadini romani. Ora chi ti ha detto che queste sono cose di quelle che dipendono dal nostro arbitrio, e non cose poste in potere altrui? Chi può dare a un altro ciò che non ha egli? — ‘E tu fa’ di acquistare, dirá qualcuno, per poter dare a noi’. — Se io posso acquistare, salva in me la verecondia, la fede, [p. 95 modifica]e l’altezza dell’animo, mostratemi come si faccia, e io non mancherò. Ma se voi volete che io perda i miei propri beni perché voi dobbiate ottener cose che non sono beni, vedete che poca equitá e che indiscrezione è la vostra. Oltre che, qual vi eleggereste voi prima, tra danari e un amico fedele e ben costumato? Che non mi aiutate voi dunque piuttosto a esser tale, in cambio di volere che io faccia cose per le quali mi convenga perdere queste virtú? — ‘Ma la patria non avrá da me alcun servigio’. — Ancora, di che servigi vuoi tu intendere? Non avrá per opera tua né bagni né portici. Oh, che maraviglia? Né anche ha calzari dal fabbro, né armi da calzolaio. Egli basta bene che ciascheduno adempia l’ufficio suo. Dimmi, se tu instituissi e informassi alla tua patria un altro cittadino modesto e leale, non le faresti tu alcun benefizio? certo che sí. Or come le sarai dunque inutile tu medesimo, essendo tale? ‘Ma che luogo terrò io nella patria?’ quello che tu potrai, salva la modestia e la fede. Che se per voler giovare alla patria, tu perderai la fede e il pudore, che profitto le farai tu, divenuto che sarai sleale e impudente?

[XXV]

Ti è egli stato anteposto di onore il tale o il tale a un banchetto, o pur nel saluto, o nell’essere cerco di consiglio? se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe essere caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dèe dispiacere che non sieno toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare al paro cogli altri. Come può, per modo d’esempio, colui che non frequenta le soglie de’ grandi, che non li accompagna, che non gli loda, andare del pari a coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi dei potenti e dei ricchi, tu gli volessi avere gratis. A quanto si vendono le lattughe oggi? Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo [p. 96 modifica]che uno, spendendo un obolo abbia tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non dèi però pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocché se egli avrá le lattughe, e tu avrai l’obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato invitato a cena dal tale. Ma né anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu non hai nulla? Si che tu hai ben questo, che tu non hai lodato chi non volevi, che non sei stato ad aspettarlo in sull’uscio.

[XXVI]

L’intenzione della natura si conosce da quelle cose dove noi non abbiamo interesse. Se il fante del vicino avrá spezzato un bicchiero o cosa tale, subito ti correrá in sulla lingua: ‘elle sono cose che accaggiono.’ Ora sappi che chi spezzasse il tuo bicchiero, tu la dèi pigliare in quella medesima guisa che tu piglierai che si spezzi quello del tuo vicino. Cosí delle cose di maggiore momento. Muore a un altro il figliuolo o la moglie? sono casi umani. Muore il figliuolo o la moglie propria? tosto gli oimè, gli ahi ahi. Ma egli si converrebbe avere a memoria quello che c’interviene quando il medesimo caso ci è riferito di un altro.

[XXVII]

Come non si mette un bersaglio acciocché l’uomo non lo colga, cosí non si genera e non si ritrova al mondo la natura del male.

[XXVIII]

Se uno desse il tuo corpo in potestá di qualunque che gli venisse alle mani, tu te ne sdegneresti: e dando tu la tua [p. 97 modifica]mente in potere di chicchessia, per modo che se egli ti dirá una mala parola, quella si turbi e confonda, non ti vergogni però punto?

[XXIX]

Innanzi di metterti a qualsivoglia operazione, divisane teco stesso le antecedenze e le conseguenze. Altrimenti tu intraprenderai con grande animo, non pensando punto alle cose che hanno a venire; ma in progresso nascendoti qualche difficoltá e qualche vitupero, tu ti vergognerai. Desideri tu diventar vincitore olimpico? e io non meno di te, per Dio; ché ella è una qualitá che fa onore. Ma considera prima le antecedenze e le conseguenze, e poi mettiti all’impresa. Egli ti conviene sottoporti a una disciplina e osservare una regola; mangiare sforzatamente; astenerti dalle confetture e cotali piacevolezze; esercitare il corpo per forza a certe ore assegnate, sí al caldo come al freddo; non usare bevande fresche né vino a tuo piacimento; in fine darti tutto in mano al maestro, né piú né meno come a un medico. Di poi scendere nell’aringo; a un bisogno guastarti una mano, smuoverti un tallone; ingoiare di buoni tratti di polvere; a un bisogno anche toccare delle sferzate, e poi per ultimo esser vinto. Considerato che avrai tutte queste cose, se tu persevererai nel concetto di prima, datti agli esercizi dei giuochi. Ma se tu non considererai cosa alcuna innanzi, tu ti aggirerai come i bamboli, che ora fanno i lottatori, e quando gli atleti, e quando gli schermitori, poi strombazzano, poi contraffanno le tragedie. Cosí ancora tu: oggi schermitore, domani atleta, e quando oratore, poi filosofo, e nulla mai veramente e con tutto l’animo, ma in guisa delle scimmie tu contraffai tutto quello che tu vedi, e muti voglia a ogni tratto. Perocché tu non imprendi mai cosa alcuna consideratamente, e spiatala prima bene da ogni banda, ma cosí a caso e per qualche fantasia leggera. Egli ci ha di quelli che veduto per avventura un filosofo, o udito dire a questo o a quello: ‘oh, Socrate dice pur bene’, e: ‘chi è [p. 98 modifica]che possa favellare come faceva Socrate?’ si mettono per voler filosofare ancor essi.

O uomo, considera prima sottilmente questo fatto del filosofare, di che sorta egli sia, e quindi fa’ di conoscere la tua natura, a veder se tu sei buono da comportarlo. Vuoi tu pigliare la professione di fare alla lotta ovvero ai cinque giuochi? tu hai da por mente alle tue braccia, alle cosce, ai lombi, perché una complessione è acconcia a una cosa e una a un’altra. Pensi tu di potere filosofando mangiare e bere e fare lo schifo e il dilicato come al presente? Egli ti bisogna vegliare, faticare, separarti da’ tuoi, essere vilipeso da un fanticello, in tutto essere inferiore agli altri, negli onori, ne’ magistrati, ne’ giudizi, in ogni coserella. Considera bene queste difficoltá e questi incomodi, e vedi se egli ti pare espediente di sostenerli per avere in compenso di quelli la libertá, lo stato dell’animo senza perturbazioni, senza passioni; e non voler fare come i fanciulli, oggi filosofo, poi gabelliere, appresso oratore, indi procuratore di Cesare. Queste qualitá non si accordano insieme. Egli si vuole essere una persona sola, o valente o da poco; adoperarsi intorno alla parte principale di noi medesimi, o intorno alle cose di fuori; aver cura dell’intrinseco o dell’estrinseco; che è quanto dire essere filosofo o pure uomo comune.

[XXX]

I doveri e gli offici si misurano generalmente dalle relazioni. Il tale ti è padre? appartientisi aver cura di lui; cedergli in ogni cosa; se ti rampogna, se ti batte, portartelo pazientemente. ‘Ma egli è un cattivo padre’. Forse che la natura ti obbliga al padre buono? non giá, ma semplicemente al padre. Il fratello ti fa egli torto? tu non mancar però seco dell’officio tuo di fratello, e non guardare quello che ti faccia egli, ma quello che abbi a far tu per procedere secondo natura. Perocché giá un altro non ti può fare nocumento se tu non vuoi; ben sarai tu offeso se tu stimerai che altri ti offenda. Or dunque [p. 99 modifica]nel predetto modo, se tu ti accostumerai di por mente alle relazioni, troverai gli offici e i doveri che ti si appartengono rispetto al vicino, al cittadino, al capitano e a qualsivoglia altro.

[XXXI]

La pietá verso gli dèi consiste massimamente in aver sane e rette opinioni intorno a quelli; cioè in credere che egli ci ha veramente iddíi, e che questi iddíi governano ogni cosa bene e con giustizia; e in assegnare a te medesimo questo ufficio e questa parte, di dovere ubbidire agl’iddii, e cedere in ogni cosa agli avvenimenti e acconciarviti di buon grado, come quelli che sono condotti dal miglior consiglio e dalla migliore volontá del mondo. Imperocché avendo queste opinioni, tu non vorrai per cosa alcuna dolerti degli dèi, né imputarli che non ti abbiano cura. Or tutto questo non può altrimenti essere che se tu ti distaccherai dalle cose esterne, riponendo il bene e il male in quelle cose solamente che sono in tua potestá. Imperciocché se tu reputerai pure che alcune delle cose estrinseche sieno beni o mali, tu non potrai fare, quando tu non venghi a capo di ottener quello che avevi desiderato, o che tu incorra in quello che tu fuggivi, di non querelarti degli autori di questo effetto e di non pigliarli in odio; essendo che tutti gli animali per natura fuggono e odiano quelle cose che paiono loro nocive e le cagioni di esse, siccome per lo contrario le cose riputate utili e le cagioni di quelle seguono e pregiano. Laonde egli è impossibile che uno il quale si creda ricevere nocumento, ami quella tal cosa la quale egli si penserá che gli noccia, cosí come è impossibile che uno ami il nocumento medesimo. Di qui è che il figliuolo trascorre alle male parole contro il padre, quando costui non gli fa parte di quelli che la gente estima essere beni; e Polinice ed Eteocle per questo vennero fra loro in discordia, perocché essi reputarono essere un bene il principato. Perciò l’agricoltore, perciò il navigatore e il mercatante bestemmiano gli dèi, e quelli che hanno perduto i figliuoli e le mogli [p. 100 modifica]bestemmiano gli dèi; essendo che la pietá segue sempre l’utile. Di modo che ciascheduno che procaccia di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio. Quanto si è alle libazioni, ai sacrifici, all’offerire delle primizie, queste cose si debbono fare da ciascuno, e ciò secondo le osservanze della propria terra, con puritá e mondizia, e non trascuratamente né in fretta, né con soverchia strettezza, né sopra quello che comportano le facoltá.

[XXXII]

Quando tu andrai per consultare qualche indovino, ricòrdati che tu non sai per veritá il come sia per succedere il fatto, e vai per chiederne all’indovino, ma ben sai da altro canto la qualitá del successo, se tu sei filosofo; perocché se esso è del numero di quelle cose che non dipendono dal nostro arbitrio, perciò solamente è manifesto che il medesimo non sará né bene né male. Fa’ dunque, andando all’indovino, di non recare teco né desiderio né aversione, e non ti accostare a quello tremando, anzi risoluto che qual sia per essere il successo, è cosa, verso di te, indifferente e che non ti fa nulla, poiché in tutti i modi tu avrai facoltá di volgerlo in tuo profitto, e ciò non ti potrá essere vietato da chicchessia. Però con animo franco e sicuro va’, come dire, a consigliarti cogli dèi: e fatto questo, avuto qualche consiglio, ricòrdati che consigliatori sono stati i tuoi, e chi sono coloro ai quali tu mancherai di prestare orecchio se tu ti dipartirai dall’avviso che ti è stato pòrto. Egli si vuol poi, conforme ordinava Socrate, cercare il consiglio degl’indovini in quelle occorrenze nelle quali il bene o male deliberare si riferisce totalmente alla riuscita, e dove né per ragione né per alcuna arte si hanno espedienti da conoscere il partito che si debba prendere. Di modo che se egli ti si dará occasione di doverti porre a qualche pericolo per la patria o per un amico, tu non andrai per chiedere all’indovino se tu debba sottentrare a questo [p. 101 modifica]pericolo; perciocché quando pure ti fosse detto dall’indovino i segni delle vittime essere di mala qualitá, manifesto è che per questa cosa ti sarebbe significata o la morte o il troncamento ovvero lo storpiamento di qualche parte del corpo, o forse l’esilio; ma ragione ti mostra che ancora con tutto questo egli si vorrebbe assistere all’amico e mettersi al pericolo per la patria; e per tanto tu obbedirai a un maggiore indovino, io voglio dire ad Apollo Pizio, il quale scacciò dal tempio colui che era mancato di soccorso all’amico in quella che egli era messo a morte.

[XXXIII]

Stabilisci a te stesso, come a dire, un carattere e una figura la quale tu abbia a mantenere da quindi innanzi si praticando teco stesso e si comunicando colle persone.

Tacciasi il piú del tempo, o dicasi quel tanto che la necessitá richiede, con brevitá. Solo qualche rara volta, confortandovici il tempo e il luogo, discendasi a favellare distesamente; ma non di cotali materie trite e ordinarie, non di gladiatori o di corse di cavalli, non di atleti, non di cibi né di bevande, né di sí fatti altri particolari di che si ode a favellar tutto il dí, e sopra ogni cosa, non di persona alcuna lodando o vituperando o facendo comparazioni.

Fa’, se tu puoi, di raddirizzare e ridurre al convenevole i ragionamenti dei compagni. Se tu ti ritroverai solo tra persone aliene dalla filosofia, tienti senza far motto.

Poche risa, e non grandi, e non di molte materie.

Non prender mai giuramento, se tu potrai; se no, il piú di rado che tu possa.

Schifa di trovarti a conviti di persone comunali e rimote dalla filosofia: e se ciò per alcuna occasione talvolta non si potrá schifare, ricòrditi di stare desto e attento piú del consueto, che tu non trascorressi nei modi e costumi della comun gente. Imperocché sappi che di necessitá, se il compagno sará lordo, e che tu gli praticherai dattorno, tu ti lorderai, ponghiamo che ora sii netto. [p. 102 modifica]

Le cose appartenenti al corpo, come dire il mangiare, il bere, il vestito, il tetto, la servitú, adoprinsi non piú oltre che in quanto elle servono al puro uso. Tutto quello che è ad ostentazione o a delizia, taglisi via.

Innanzi alle nozze egli si vuole astenersi dai diletti carnali quanto si può, e usandogli pure alcuna volta, non si discostare in ciò dalle leggi. Ma tu non vorrai perciò riprendere e noiar con parole coloro che gli sogliono usare, e non istarai ad ogni poco a mettere in campo che tu non usi di cosí fatte voluttá.

Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse mal di te, non pigliare a scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza degli altri difetti che io ho, perocché, sapendogli, ei non avrebbe tócco solamente questi.

A teatri non accade usar molto. Ma quando ti sará nata occasione di trovarti in cotali luoghi, non dimostrar sollecitudine o pensiero di qualsivoglia altro che di te stesso, cioè non voler che avvenga se non quel medesimo che avverrá, né che vinca altri che quegli a cui toccherá la vittoria; perocché in tal modo non t’interverrá che il suo desiderio abbia impedimento. Dal gridare, dal soverchio ridere sopra alcuna qual si sia persona o cosa, dal molto dimenarti e contorcerti, convienti astenere al tutto. E uscito che tu sarai di lá, non andare troppo ragionando cogli altri dell’accaduto, se giá non fosse di cose che potessero conferire a farti migliore. Perocché tu faresti segno che lo spettacolo ti fosse oltre modo piaciuto.

Non andare all’udienza di certi dicitori, anzi schifa di trovarviti in ogni modo. Che se per ventura vi ti troverai, fa’ di serbare una contenenza grave e soda, e non però spiacevole né superba.

Accadendoti di dover venire a qualche ragionamento o pratica con chicchessia, e specialmente con alcuno di quelli che sono reputati soprastare agli altri, proponti dinanzi agli occhi quello che avrebbe fatto in tale occorrenza o Socrate o [p. 103 modifica]Zenone; e tu non sei per mancare del modo di portarti convenientemente in ogni caso.

Andando a trovare alcuno dei potenti, mettiti nell’animo che tu non sei per trovarlo a casa, ch’egli si sará serrato dentro, che non ti sará voluto aprir l’uscio, che colui non ti dará mente. E se con tutto questo, per non mancare dell’ufficio tuo, ti conviene andare, pòrtati in pace ogni cosa che t’intervenga, e non dire mai fra te stesso:‘ egli non portava il pregio’; che è un parlare da uomo ordinario e dato tutto quanto alle cose esterne.

Guarda bene nei cerchi e nelle compagnie, che tu non istessi a far troppe parole intorno ad azioni fatte o a pericoli sostenuti da te medesimo. Perciocché non siccome egli piace a ciascuno di raccontare i propri pericoli, cosí riesce dilettevole alle persone l’udire le avventure di chi favella.

Non istare anco a studiarti di muovere il riso; perché ciò facendo, si porta pericolo di trascorrere ai modi e all’usanza dei piú; oltre che di leggeri avverrebbe che i circostanti rimetterebbono piú o manco della loro riverenza verso di te.

Egli è medesimamente pericoloso lo entrare in ragionamenti di cose oscene: e per tanto ove ciò intervenga, se egli ci avrá luogo, tu sgriderai quel tale che sará entrato in cosí fatta materia; se no, col porti a stare in silenzio e collo arrossire e fare il viso brusco, tu darai ad intendere che quel cotal favellare ti spiaccia.

[XXXIV]

Se tu avrai concetta la immaginazione di alcuna voluttá, guarda che cotale impressione non ti trasporti, ma fa’, per modo di dire, che la cosa aspetti, e impetra da te medesimo un poco d’indugio. Poi mettiti davanti agli occhi l’uno e l’altro tempo; quando tu ti godrai questa voluttá, e quando, goduta che tu l’abbi, tu te ne pentirai e rampognerai teco medesimo; e a rincontro metti il piacere che sei per provare [p. 104 modifica]se tu te ne sarai astenuto, e le lodi che ne riceverai da te stesso. E se egli ti parrá tempo opportuno da venire a quel cotal fatto, poni cura di non lasciarti vincere da quella piacevolezza e a quelle lusinghe e da quel dolce della cosa, e metti a rincontro quanto ei ti saprá meglio se tu sarai consapevole a te medesimo di aver vinto tu questa cosí fatta vittoria.

[XXXV]

Quando farai cosa che tu abbi considerato e giudicato di dover fare, non volerti nascondere che gli altri non ti veggano a farla, se bene il piú delle persone fossero per interpretare il fatto sinistramente. Perciocché o tu fai male, ed egli si vuole anzi fuggire il fatto medesimo; o fai bene, e che timore hai tu di quelli che ti riprenderanno a torto?

[XXXVI]

Siccome il dire: ‘o egli è dí’ ovvero ‘è notte’, quanto al senso disgiuntivo, afferma e ha gran forza, ma pigliato congiuntamente, tutto al contrario; per simile il prendersi la maggior porzione della vivanda, quando al proprio corpo, sta bene ed è molto acconcio, ma quanto a quella comunione che vuolsi osservare nei conviti, sconviene e non è a proposito. Per tanto quando tu sarai a mangiare con qualche altro, ricordati di non guardare solo a quella convenienza che hanno le vivande coll’utilitá e col piacere del tuo corpo, ma eziandio a quella che debbe osservarsi rispetto al convitatore.

[XXXVII]

Se tu prenderai a fare una persona da piú che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente. [p. 105 modifica]

[XXXVIII]

Siccome, andando per le vie, tu hai l’occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, cosí abbi cura di non fare pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascun atto, noi faremo ogni cosa piú sicuramente.

[XXXIX]

Misura dello avere si è a ciascheduno il proprio corpo, siccome della scarpa il piede. Per tanto se tu ti conterrai dentro ai termini di quel che è richiesto alla tua persona, tu serberai la misura; ma se tu gli passerai, di necessitá da quell’ora innanzi andrai senza fine precipitando come per un dirupato. Non altrimenti che nella scarpa se tu passi piú avanti di quello che si appartiene all’uso del piede, la scarpa ti diventa prima dorata, appresso di porpora, poi ricamata, gioiellata. Perocché di lá dalla misura non ci ha limite alcuno.

[XL]

Le donne insino dall’etá di quattordici anni incominciano a esser chiamate dagli uomini con titolo di signore. Sicché vedendo che esse niun altro pregio hanno, ma solo sono pregiate rispetto all’usar cogli uomini carnalmente, dannosi ad acconciarsi e ornarsi, e a riporre ogni loro speranza in cotale studio. Per tanto vuoisi por cura di fare ch’elle si avveggano di non essere avute in pregio se non se in quanto si dimostrino costumate, vereconde e caste.

[XLI]

L’essere lungamente occupato dintorno ai servigi del corpo, come dire agli esercizi della persona, al mangiare, al bere, [p. 106 modifica]alle necessitá naturali, alle carnalitá, è segno di piccola indole. Queste cose si deono fare come per transito, e tutto lo studio si dèe porre intorno alla mente.

[XLII]

Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli opera ovvero parla in quel cotal modo, stimando che di cosí fare ovvero parlare gli appartenga e stia bene. Ora è di necessitá che egli si governi, non conforme a quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicché se a lui pare il falso, esso si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s’inganna. Pigliamo una veritá di quelle che chiaman connesse: se uno la si crederá falsa, non la veritá, ma questo tale, ingannandosi, porterá il danno. Per sí fatta guisa discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerá; perocché ogni volta tu hai da dire: ‘cosí gli è paruto che convenisse’.

[XLI1I]

Ogni cosa ha, per maniera di dire, due manichi: a pigliarla dall’uno, ella si sopporta, dall’altro no. Se il fratello ti fará ingiuria, non pigliar la cosa per modo che tu dica: ‘egli mi fa ingiuria’, perché questo è quel manico dal quale se tu la prendi, ella non si porta; ma pigliala da quest’altra banda, e di’: ‘mio fratello, nutrito e cresciuto meco insieme’; e tu la piglierai da quel lato dal quale ella si può portare.

[XLIV]

Queste cotali argomentazioni non reggono: ‘io sono piú ricco di te, dunque io sono da piú di te; io piú letterato di te, dunque io sono da piú’. Queste altre reggerebbero bene: ‘io sono piú ricco di te, dunque la mia roba è da piú che la tua; io piú letterato di te, dunque la mia dicitura val piú che la tua’. Ma tu non sei né roba né dicitura. [p. 107 modifica]

[XLV]

Uno si laverá in fretta. Non dire: ‘ei si lava male’; ma: ‘egli si lava in fretta’. Un altro berrá molto vino. Non dire: ‘egli bee male’ ma sí: ‘’egli bee molto vino. Perciocché come puoi tu sapere se quelli fanno male, innanzi che tu abbi considerata e stabilita l’opinione che tu piglierai? Per tal modo non t’interverrá di ricevere un’impressione, e giudicare secondo un’altra.

[XLVI]

Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sí bene mangia come si dèe. Né ti esca di mente che in sí fatto modo anche Socrate rimosse da sé ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo ch’ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro. Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo piú in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirá che tu non sai nulla, e tu per udire questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantitá ch’elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni. [p. 108 modifica]

[XLVII]

Quando tu sarai perfetto quanto all’uso e al reggimento del corpo, non volere però pavoneggiarti e fare mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: ‘io non beo che acqua’. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, ma talora che tu arderai della sete, piglia una boccata d’acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto.

[XLVIII]

Stato e contrassegno dell’uomo comune si è né beneficio né danno aspettarsi mai da sé stesso, ma sí dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilitá o nocumento sperare o temere da sé medesimo.

Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlare male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellare cosa alcuna di sé come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a sé stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giú ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sará tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con sé medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. [p. 109 modifica]

[XLIX]

Quando alcuno si vanterá o si terrá d’assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, di’ teco stesso:

se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta ch’io metta in pratica gli ammaestramenti ch’io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltá medesima della interpretazione, che altro mi verrá fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirá: ‘leggimi Crisippo’ egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole.

[L]

Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come se fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poiché questa parte non è in tuo potere.

[LI]

In che tempo dunque ti riserbi tu ad aspirare ai maggiori beni dell’uomo, e ad osservare in che che sia la regola che distingue le cose nostre e le esterne? Tu hai pur avuti i documenti che erano da meditare e quasi da conversare con essi; tu gli hai meditati e usato con esso loro: che maestro aspetti tu anco, sotto la cui disciplina tu intenda di voler dare effetto alla riforma di te stesso? Tu non sei piú mica un [p. 110 modifica]fanciullo, ma uomo fatto. Se tu ti starai cosí neghittoso e a bada senza pensare, accumulando ogni giorno indugi con indugi, moltiplicando in propositi, destinando ora un termine e fra poco un altro, in capo al quale incominciare ad attendere a te medesimo; tu non te ne avvedrai che senza aver fatto un progresso al mondo, sarai pur vissuto e morto uomo del volgo. Incomincia dunque insino da ora a studiar di vivere da uomo perfetto e che cresce in virtú; e tutto quello che ti parrá essere il migliore, siati in luogo di legge inviolabile. E come prima ti si fará incontro alcuna cosa dura e spiacevole o pure dilettosa e dolce, alcuna che porti seco l’estimazione o la lode ovvero il dispregio o il biasimo delle genti, fa’ ragione ch’egli sará venuto il tempo dell’aringo, e quella essere l’ora della solennitá olimpica, e non ci aver luogo indugio; e che secondo che tu sarai per durare ovvero per cedere in una battaglia, tu perderai ovvero conserverai l’avanzamento tuo nel bene. Socrate in cosí fatta guisa diventò perfetto, a niente altro avendo riguardo in ciascheduna cosa che gl’incontrava, se non solamente alla ragione. Che se bene tu non sei per ancora un Socrate, tu déi però vivere come uno il quale desideri di esser tale.

[LII]

Il primo e piú necessario luogo nella filosofia si è quello delle proposizioni morali pratiche, come sarebbe, per modo di esempio, questa: che egli non si dèe mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni; come, per esempio, provare con argomenti che non si dèe mentire. Il terzo serve a confermazione e distinzione delle stesse cose, e trattavisi, ponghiamo, donde è che questa tale è dimostrazione, e che cosa è dimostrazione, che cosa sono conseguenza e repugnanza, veritá e falsitá. Di modo che il terzo luogo è necessario a rispetto del secondo, il secondo a rispetto del primo; ma il piú necessario di tutti, e dove si dèe restare, si è il primo. Ora noi facciamo al contrario; che noi soprastiamo nel terzo luogo, e in quello [p. 111 modifica]poniamo tutto lo studio e la industria; e del primo non abbiamo un pensiero al mondo. Sicché avviene ch’egli si mente ogni dì, ma il come provar che egli non si dèe mentire, questo si ha in sulle dita.

[LIII]

Abbiansi ad ogni occasione apparecchiate queste parole: ‘menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei’.

Ancora: ‘chiunque sa bene accomodarsi alla necessitá, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine’.

Ancora in terzo luogo: ‘o Critone, se cosí piace agli dèi, cosí sia. Anito e Melito mi possono bene uccidere, ma non giá offendere’.