greco

Aristofane 391 a.C. 1545 Bartolomio Rositini/Pietro Rositini Indice:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu Teatro teatro Le congreganti Intestazione 19 dicembre 2015 100% Teatro

Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)


[p. 230v modifica]

LE CONGREGANTI


D’ARISTOFANE. COMEDIA IX.

Persone de la Comedia.


Prassagora donna. Un’altra donna.
Coro. Un’huomo.
Un’altr’huomo Blepiro. Un’altr’huomo de la cŏcione Chreme.
Un’altr’huomo Fidolo.
Vecchia. Precone.
Un’altra vecchia. Fante.
Giouane. Giouanetta.


P R A S S A G O R A.


OO
splendido occhio de la lume fatta’l torno, ben desiderato da gli speculanti, ti mostraremo le tue genarationi, e le tue sorti, che sendo agitata d’ogn’intorno da l’empito de’l figulo, hai gli splendidi honori de’l sole ne tuoi bocchini. Muoui i congiacenti segni de la fiamma tua, che per te sola li vegiamo honorevolmente: quale ne stai apresso ne le camerette, che ben ricercano i costumi di [p. 231r modifica]Venere: e nissuno iscacia da la sua casa l’occhio tuo, ausiliatore de corpi che si moveno. Tu sola splendi ne le secrete camere de le gambe, illuminando il pullulante pelo, e giaci piena sotto le lacche de’l portico de’l frutto, e de’l Baccanale vino. e insieme queste cose facendo, non dici poi niente à quelli, per i quali si facciono tali consigli, i quali sono parsi à i Sciri miei amici. Ma non vi è alcuna di quelle che dovevano venire, nondimeno il concilio è prolungato à la mattina. E meglio che andiamo à sedersi à le banche, le quali Sfiromaco ne disse, se be n’aricordate. bisogna che le meretrici, e le donne da bene stijno ascose. che dunque poi? hanno le cusite barbe, che si dice havere? veramente è stà difficil cosa, che se robassero queste veste virili. Hor vegio una lume à venire, e mi tirarò indietro, à ciò che qualche huomo non s’abbatta venire.
Al.d.
E hora d’andare, che’l precone venendo noi, un’altra volta di nuovo ha suonato.
Prass.
Io vigilo tutta la notte aspettandovi, horsu dimandarò questa vicina, pur un pochetto battendo à la porta, che suo marito non senta.
Don.
Ho udito calciandomi, la fricatione de i tuoi diti, come che non dormessi. Quest’huomo ò dilettissima tu è da Salamina con il quale io stò, egli mi ha commosta tutta la notte per il letto, tanto che se non adesso, mai ho potuto haver la vesta [p. 231v modifica]vesta. vegio e Clinarete che vengono, et Filanete.
Pra.
Frettatevi che Clice ha giurato s’ella viene l’ultima che’lla pagherà tre misure di vino, et una di cicero. non vedi Melistica di Smicithione frettarsi in pantofele? parmi che sola uscisca da’l marito per tempo concessole.
Al.d.
Poi non vedi tu Geusistrate di Capelo, che ha la lampada in mano, et quella di Ficodoripo, et di Charetade?
Pra.
Vego, che vengono, et molte altre donne, cosa che è utile à la cità.
Don.
Et io ò dilettissima miseramente fugendo son venuta. il marito mio tutta notte ha tossito, che la sera si riempiè di pesci.
Pra.
Sedete pure: che vi voglio interrogare, poi che sete collette et adunate: havete voi fatto ciascuna cosa che apare à sciri?
Don.
Io primamente sotto le lasene gli ho peli più duri et spessi che bachettine, e così stà bene et quando mio marito veniva à braciarmi, et toccarmi, mi ungeva la persona per tutto il dì, et io mi riscaldava a’l sole.
Don.
Et io ho gettato via fuor di casa il rasore, à ciò che tutta m’inspessisse, et che piu niente fussi simile à una donna.
Pra.
Havete poi le barbe, de quali ve ne stà detto, quando se congregavano?
Don.
Per la Luna io ho questa bella. [p. 232r modifica]
Al.d.
Et io l’ho non poco piu bella, che quella di Epicrate.
Pra.
Et voi che dicete?
Don.
Dicono, e accennano.
Pra.
Vegio che havete ancho l’altre cose, e i bastoni Laconici, e le veste da huomo, si come havemo detto.
Don.
Ho io portato il bastone nascosamente da Lamia che dormiva.
Pra.
Questo è di quelli bastoni, per i quali si pettegia portandoli. per Giove salvatore, egli era atto, e conveniente da mettergli la pellizza di Panotto, se alcuno volesse ingannare il boia.
Don.
Dicete, come faremo in queste cose, tanto che le stelle sono in cielo? il concilio, ne’l quale aparecchiamo andare a farassi à l’aurora.
Pra.
Per Giove, bisogna che toglij le banche sotto la pietra de i Pritanei à la banda de là.
Al.d.
Per Giove le portava, à ciò che io le dividessi a’l perfetto concilio.
Pra.
Perfetto ò misera te?
Don.
Per Diana che cosa pegiore poss’io udire, che il dividere, che mei figli sono nudi?
Pra.
Ecco te dividente, quale era il devere, che niente de’l corpo mostrasti à quelli che sono per sedere. dunque haveremo de’l bene. se s’abbatterà essere il popolo ripieno, alcuna ascendendo e tirandosi suso la veste gli mostri le vergognose parti [p. 232v modifica]parti. ma se noi sederemo, e ne staremo savie acconciandosi le veste, e la barba, quando sederemo, e faremo lì circonlegate, che non pensarà vedendone, che noi non siamo huomini? Agirrio havendo la barba di Promomo s’è ascoso, nondimeno gli era prima una donna, pur tu’l vedi, adesso egli fà cose grandi ne la cità. per il presente dì havemo l’audacia d’un fatto così grande, se à qualche modo potemo pigliare le cose de la cità per farle qualche bene. adesso ne corremo ne spingemosi.
Don.
Et in che modo la potestà feminile concionerà?
Pra.
Molto ottimamente. dicono che i giovani, che molto si commovono molto son gratissimi, e questo n’è à noi secondo una certa fortuna.
Don.
Non so io, la isperienza mia è grave.
Pra.
Dunque congregate quì siamo convenientemente, che consideremo prima, quello che bisogna dirci. non prevenirai tu che ti circonlighi la barba? e l’altre che hanno pensato ciò che debon dire?
Don.
Quale è quella sì misera de noi che non sapia dire?
Pra.
Horsu circumligati ò tu, che presto diventi huomo, e io ponendomi le corone, mi circonlegaro, e istessa dirò, se’l mi parerà.
Don.
Prassagora cara tu, considera ò misera e infelice che la cosa par ridicola. [p. 233r modifica]
P.
In che modo ridicola?
D.
Come s’alcuno se ligasse à cerco la barba con sepie abbrugiate.
P.
Bisogna che Peristiarco porti la benola à torno. andate inanti. Arifrade cessa, non parlar piu. vieni quà che sederai. che vuole predicare?
D.
Io.
P.
Mettili à torno la corona à la buona ventura.
D.
Ecco.
P.
Dì su.
D.
Vuoi che dica, nanti che beva?
P.
Ecco se voi bere.
D.
Perche son io coronata, misera me,
P.
Và di longo, che ciò hai fatto lì.
D.
Che poi, non si beve ne la compagnia?
P.
Ecco che ti beveno.
D.
Per Diana questo è vino puro. Dunque sti consiglij chi facciono costoro dimenticandosi poi, sono stupefattivi come fussero de ebriachi. e per Giove sacrificano, ò pur supplicano per causa di qualche cosa? se’l vino gli mancasse. e vituperano questi e quelli bevendo loro bene, e i sagittarij inalzano, e lodano l’ebriaco.
P.
Vatene via e descendi giu, che niente vali.
D.
Per Giove, certamente seria stà meglio che non mi havessi mettuto la barba, io voglio crepare di sete, à’l mio parere.
P.
V’è ne altra che voglia dire? [p. 233v modifica]
D.
Io, hor su a’l coronare, che la cosa si fà.
P.
Hor dirai bene, e virilmente havendoti ben confirmato l’habito co’l bastone.
D.
Voleva ben io, che un’altra, che fusse prattica dicesse, e sedere io e tacere: pur non lascierò, secondo una openion mia, ch’io non facij laghi d’acqua ne li Cauponi, à me non pare giurare per li dei.
P.
O poveretta dove hai la mente?
D.
Che gli è? non tè hò gia dimandato da bere.
P.
Per Giove sì, hai giurato i dei de essere huomo da bene, e dire altre cose attissime et à proposito.
D.
O per Apolline.
P.
Cessa homai, che io predicando non moverò un piede, se diligentemente non considerarò.
D.
Porta la cororna, che io dirò un’altra uolta, ben penso haver pensato ogni cosa bene. hor sedete madonne.
P.
Infelice tu anchora, gli huomini domandi donne?
D.
Per Giove sì. Io mi credeva, che quello Epigono, guardandole, dovesse predicare à le donne.
P.
Postù morire anche tu. sedete li? Io istessa per causa vostra voglio dire: pigliando costei suplico à li dei che li dirizino il consiglio, e à me l’ugualità con la citade, si come è con voi. ma mi doglio e hò à male queste molestie de la cità. imperò che io veggo ch’ella mai non hà presidenti boni, e se uno è bono per un dì, poi per dieci è cattivo. l’hai commessa ad un’altra, hor farà lei piu [p. 234r modifica]mali. è cosa difficile avisar gli huomini cattivi, i quali temete quelli che vi vogliono amar, et quelli che non vogliono, sempre li pregate. Era ne i concilij, quando in tutto niuna cosa usavamo, ma noi tenevamo l’argento per cosa cattiva. hor di quelli che lo usano, costui pigliatolo l’ha laudato. imperò che colui, che ’l piglia dice non essere degno di morte quelli, che cercano dar mercede ne ’l concilio.
D.
Per Venere ben dici di queste cose.
P.
Misera tu che nomini Venere, seria stà piu grata cosa se ne ’l concilio havresti ditto questo.
D.
Ma non lo direi.
P.
Nanche usati à dirlo, quando consideravamo l’ausiliatoio, s’el non fusse stà fatto, dicevano che la cità doveva morire: poi quando fu fatto, se dolevano. de gli oratori quando uno persuase questo egli subito fugendo se ne partì e ei pare gia voler tuore le navi a ’l povero, non pare poi à li ricchi et agricoli. vi dolete de li Corinthij, e quelli però à te sono boni, e tu ti farai bono Argeo rude, e Hieronimo sapiente. la salute è gia dechinata, ma esso Trasibulo non sendo chiamato la determina.
D.
Huomo quanto sei savio e intelligente.
P.
Adesso bene m’hai laudato, dunque voi ò popolo sete causa di queste cose, havendo la mercede de ’l publico. ognuno considerate il guadagno vostro, et questo commune si rivolge come Esimo. se dunque [p. 234v modifica]sete persuase, vi salvarete, perciò che io dico essere di bisogno che voi diate la cità à queste donne, e massime ne le case adoperamo queste per commissarij e governatori.
D.
Ben, ben per Giove, và và pur dietro huomo da bene.
P.
Et che elle siano meglio accostumate de noi, ve lo manifestarò. Primamente tingono la lana co’l liquore caldo, e tutte secondo la lege e costume antico. non le vederai esse dopoi cerveleggiare. Questa cità d’Atheniesi non si salverà, se questo stà, e se alcuna cosa nuova non gli è fatta. Sedendo seccanosi i capelli come prima, in capo portano come prima, fregano gli huomini come prima, hanno adolteri dentro si come prima, fannosi gli ossonij e companatichi come prima, amano il puro vino si come prima, chiavate s’alegrano come prima. O huomini se daremo la cità a costoro, non burlaremo, ne interrogaremo, ch’elle fare vogliono: ma con usanza semplice lasciamole signoregiare, considerando queste cose sole, che primamente sendo madri desiderano salvar l’essercito, poi, che manda via piu cibi d’una pagliolata? è cosa facillima, una donna dar danari. signoregiando mai s’ingannerà: che esse loro sogliono ingannare. Lascio molte altre cose. se mi persuaderete, ben fortunati felicemente viverete. [p. 235r modifica]
D.
Ben ò carissima Prassagora, e convenientemente, onde ò misera hai si ben’imparato?
P.
In Figi habitai con mio marito ne’l Picne, poi udendo hò imparato da gli oratori.
D.
Non in darno ò misera sei eloquente e savia, che ti elegemo per duce noi donne, se farai quello che pensi. ma se Cefalo ti parla sendo corrotto, come gli dirai tu contra ne la concione?
P.
Dirolo essere pazzo.
D.
Tutti sanno questo.
P.
Anche esso lui far furia.
D.
Et questo sanno tutti.
P.
Et mal formar scutelle, e questa cità bene e galantemente.
D.
Et se Neoclide Glamone te morde?
P.
Gli hò detto che’l vada a guardar ne’l culo a’l cane.
D.
Poi se te battiranno?
P.
Mi moverò pur, non dimeno havendo habute qualche bastonate.
D.
Questo solo è inconsiderato, se i birri te strassinaranno, che farai tu?
P.
Cosi mi isvolgerò, che mai per mezzo sarò pigliata.
D.
Noi se ne levano, li commmanderemo che ne lascino.
P.
Queste cose ben dette sono.
D.
Poi non consideraremo quello, in che modo s’arricordemo levar le mani à l’hora, imperò che siano [p. 235v modifica]solite elevar, ò inalzar le gambe.
P.
Difficil cosa. non dimeno bisogna consentire à quelli che inalzano un sol braccio. hor tiratevi suso le sopraveste, sulligate prestamente le Laconice, si come vedete un huomo quando’l vole andare ne’l concilio, ò fuora sempre mai. poi che haverete bene accommodata ogni cosa, mettitevi la barba, acconciatevi bene à torno, et le vesti virili, le quali havete robate gittatevile sopra, poi fermatevi su li bastoni, andate cantando qualche canzone, et imitando qualche costume da vecchio di quelli vilaneschi.
D.
Ben dici, e noi tutte andiamo pure inanti. perche penso de le altre donne da li campi venir apertamente ne’l Pnice. Horsu affrettatevi, perche gli è consueto quelli che presenti non sono la mattina a’l crepuscolo ne’l Pnico, ritornar senza il bastone.
Co.
E hora ò huomini che n’andiamo. è necessario, che sempre ricordevoli diciamo, che qualche pericolo non picciolo non ne interbenga, se fossimo pigliate, vestitesi ne l’oscuro di tal audacia. Huomini andiamo ne’l concilio, il precone minacciato ne hà, che non troppo dimatina ne habia à ritrovar ispolverate, guardando egli con brusca ciera: et amando à la polenta non darvi il triobolo. ò Chariti una, ò Smicite, e Drace seguimi spingrndo te istessa, attendendo, che niente sia discordante da quelle cose, che bisogna che mostri. poi pigliando [p. 236r modifica]il pegno apresso sediamosi, che diciamo e diamo le sententie, e ogni cosa che bisogna a le amiche nostre. Nulla dimeno che dico io? bisognava ch’io nominassi gli amici. hor vedi che iscacciamo costoro de la cità venendo ciascuno inanti, quando bisognava venire à pigliare il solo obolo sedevano et ragionavano, adesso mi turbano pur assai. ma quando signoregiava quello generoso Mironide, niuno ardiva le cose de la cità governare, portandone via l’argento: ma ogniuno à un per uno veniva portando ne’l vasetto da bevere, e de’l pane insieme, e doi cepolle, e tre olive. Adesso cercamo d’havere un triobolo, quando facciono qualche cosa commune, come se anchor portassino il letame.
Ble.
Che cosa? dove questa donna senza cervello? perche è laurora ella non appare. io havendo voglia di cacare già un pezzo sono qui, et cerco le scarpe ne’l oscuro, e la veste mia. poi che andando à tentone non l’hò potuta trovare (costui ne l’intestino batteva à la porta) piglio questa mezza veste di donna, e mi tiro dietro le soi persiche. ma dove s’abbaterà alcuno cacar ne’l spazzata? certamente di notte ogni luogo è buono, che nissuno non mi vedeva cacare. Oime infelice, che sendo vecchio hò menato moglie, di quante bastonate son io degno, che d’indi mai niuna cosa integra m’è uscita da le mani? non dimeno bisogna cacare. [p. 236v modifica]
Hno.
Ch’è quello? egliè Blepiro nostro vicino?
Ble.
Per Giove gli è quello istesso.
Huo.
Dimi che color vermiglio è quello? te n’ha incacato Cinesia mollemente?
Ble.
Donde? non, ma son io uscito di casa d’una donna, e mi son vestito de la sua vesta.
Huo.
Ove hai la tua?
Ble.
Non se può dire, l’hò cercata per il letto, mai l’hò trovata.
Huo.
Te hò commandato, che n’anche tu toglij moglie.
Ble.
Per Giove ella non è stata in casa, ma non sapendolo io per una fenestra è uscita, per qual cosa hò io temuto, ch’lla non facesse qualche cosa di nuovo.
Huo.
Per Nettuno tu hai patito quelle istesse cose, che io, e quella con la quale io stava, certamente è una civetta, e ella hà la veste, ch’io soleva portare. Nanche questo mi da tristezza, ma nanche à nessun modo hò io potuto haver le mie calze.
B.
Per Dionisio, ne io la mia Laconica, ma come s’abbatte, havendo voglia di cacare mi metto li zoccoli ne piedi, à ciò non cacassi su la veste, imperoche egliera bella.
H.
Che accadè poi? ah la moglie hà invitato à cena qualche amico.
B.
La openion mia.
H.
Non è falsa, quanto a’l mio sapere, ma tu cachi una corda: et à me è hora d’andare ne’l concilio se posso haver quello che solamente io desiderava. [p. 237r modifica]
B.
Et io poi che haverò cacato. un certo pero salvatico mi ritien risarati su li cibi.
H.
E nanche quello, che hà detto Trasibulo de Laconici?
B.
Sì per Bacco. questo è à me grandamente. ma che deb’io fare? certamente nanche questo solo mi da tristezza: ma quando io mangio, dove mi và poi il sterco? costui mi hà serrata la porta, ma voglia che si sia egli è un huomo perifico. Che dunque farà venir il medico? e quale? quello che è ammaestrato de l’arte de slargare il buco: il so certo, Aminone: ma forsi non vorra venire, andatemi à dimamdar Antisthene con ogni industria: che sa bene per causa de’l sospirare, che si richiede à far cacar il segio. ò honoranda Lucina non mi rifiutare, non mi lasciar crepare e oppilare, à ciò non divenga un catino da cacarvi dentro.
Co.
Che fai tu? non poi cacare?
B.
Non io certamente, per Giove, ma mi levo sù.
Co.
Hai la veste di donna?
B.
Così m’è accaduto pigliarla non vedendoli, ma donde vieni?
Co.
Da’l concilio.
B.
Ello è gia finito?
Co.
Per Giove sì, à buon’hora, e certamente molta terra rossa ò Giove dilettissimo mi hà fatto ridere, la quale se è sparsa per il cerchio.
B.
Hai pigliato un Triobolo? [p. 237v modifica]
Cr.
Volesse dio che l’havessi havuto, ma son stà l’ultimo à andargli: però niente mi vergogno, se non per il sacco da’l pane.
B.
Che causa è questa?
Cr.
La grandissima moltitudine de gli huomini, quanta si spessa mai venne, quanta si spessa mai venne in Pnica. e certamente tutti i pelacani gli assomigliano vedendoli essiloro. non si potea vedere il concilio per la gran gente. onde non ho potuto havere, ne io, ne gli altri che gli erano spessi.
Ble.
N’anche io se vi andassi ne haverei.
Co.
La causa? n’anche per Giove se à l’hora fusti venuto, quando cantò il gallo la seconda volta.
Ble.
O misero Antiloco piagne, mò. son io vivo co’l Triobolo, che la cosa mia è ispedita. ma onde è questo, che tanta cosa di moltitudine à quest’hora s’è congregata?
Co.
Che altro, se non ch’è parso à i governatori ragionare, e trar sentenza circa à la salute de la cità? Primamente Neoclide losco salò su, poi il popolo rigridò (che pensitu?) che non voleva udir costui con sua eloquenza, e massime sendo cerca la salute, che egli non s’ha saputo salvarsi le palpebre de gli occhi. e egli rigridando, e guardandosi à torno disse, che dunque bisogna ch’io faccij?
Ble.
Se io gli fusse stato, gli haverei detto la ricetta. Trita de l’aglio con latte di fico, imponendoli la [p. 238r modifica]Lattaria di Laconico, e ungeti le palpebre quando vai à dormire.
Co.
Dopo costui venne Eveon à tempo, sendo nudo, come à molti pareva, egli non dicea haver veste, ma poi parlò civilissimamente. Vedete voi, che io ho bisogno di salute, e di quatro libre, nondimeno dirò, che salvarete la cità, e i suoi citadini. se i fulloni dessino vestimente à quelli che n’han di bisogno, poi che’l sole è ritornato indietro, nissuno havressimo dolor de fianchi, massime quelli che non hanno lettica ne letto, così andaressimo à dormire lacatisi ne i letti de fulloni. e se’l letto non è entro ne la porta, sendo l’inverno, gli voriano almanco tre cozzi.
Ble.
Per Dionisio è bene. ma se gli havesse gionto quello, nissuno haveria detto in suo luogo, che quelli che vendeno la farina, dano à tutti i poveri tre misure de farine da cena: ò che vaghino piangere da longi, poi che hanno ricevuto questo bene di Nausicide.
Co.
Poscia un bello giovane, bianco, simile à Nicia saltò su à predicare, e cominciò à dire. Bisogna dare la citade in governo a le donne. Tutti si turbarono, e gridarono che ben egli dicea per la moltitudine sutorica: et quelli da i campi gridarono insieme.
Ble.
Per Giove erano in cervello.
Co.
Ma erano pochi. e egli con la voce ritenevasi [p. 238v modifica]ritenevasi le donne, dicendo molte buone cose, e à te molti mali.
Ble.
Che ha egli detto?
Co.
Primamente egli ha detto che sei cattivo.
Ble
Et te?
Co.
Non domandare piu inanti. poi ladro.
Ble.
Me solo?
Co.
Et per Giove, accusatore, incolpatore.
Ble.
Me solo?
Co.
Et per Giove la moltitudine di costoro.
Ble.
Che dici poi altrimente?
Co.
Ha detto che la donna è una cosa savia, e che fà roba e facende assai, e non ha detto i secreti, che elle sempre portano à casa qualche cosa da giudici. e tu e io sempre serviamo.
Ble.
Per Mercurio, non s’ha mentito.
Co.
Poi ha detto che loro sole si commodan trà se le veste, l’argento, le tazze d’oro, e senza testimonij: e le portano via tutte, e non si privano: e ha detto, che molti di noi facemo questo.
Ble.
Per Nettuno, con i testimonij.
Co.
Non incolpare, non accusare, e non distruere il popolo: e egli dice molti beni, e altri molti per le donne.
Ble.
Che dunque è parso?
Co.
Commettere la cità à costoro. è parso veramente che questo solo mai piu sia stà fatto ne la cità.
Ble.
Egliè parso? [p. 239r modifica]
Co.
Il dico io.
Ble.
Ogni cosa hanno preordinata à loro, che erano in cura à i citadini.
Co.
Queste cose, cosi stanno.
Ble.
Piu non andarò io a’l giudicio, ma gli anderà mia moglie.
Co.
Ne notrirai quelli figlij, ch’hai, ma ben tua moglie
Ble.
Ne mi bisogna piu sospirare la mattina à buon’hora.
Co.
Per Giove si, che queste cose sono in cura à le donne, e tu con sospiri pettegiando ne starai à casa.
Ble.
Quello poi ne saria grave, se pigliassero le briglie de la cità, e ne facessero star sogetti.
Co.
A che proposito? à far che?
Ble.
A mover loro medesime.
Co.
Se non potremo?
Ble.
Che elle non ne daghino il desinare.
Co.
Tu per Giove farai, che mangiamo, e si moviamo insieme.
Ble.
Questo è gravissimo a’l vivere.
Co.
Se questo sarà utile à la cità, bisogna che l’huomo il facia, e è un certo parlare trà vecchij, che ogni cosa crediamo si dover esser meglio, le quali consultiamosi inscitamente anchor che sijno cose pazze, e rozze, nondimeno sono utili ò Minerua, e ò dei. raccommandomi. stà sano.
Ble.
Tu ò Chreme.
Cr.
Entra, vien inanti, non gli è qualche huomo, il [p. 239v modifica]quale ne venga dietro? volgeti, considera, servati istessa sicuramente. molti sono i scelerati: che alcuno indietro non osservi l’habito nostro. ma facendo strepito con i piedi vatene: che questa cosa detta à gli huomini, ne potria far vergogna. hor ritirati, e guardati à torno, e de qui e de lì, à ciò la cosa non andasse male. affrettiamosi che siamo presso a’l luogo, d’onde facessimo impeto a’l concilio, quando gli andassimo. lece vedere questa casa, onde è questa capitanea. attrovando la cosa, che di nuovo è parsa à i citadini. Però è il dovere, che noi aspettando, non tardiamo. à ciò che alcuno non ne vega le postizze barbe, che forsi non ne mordi, ò vituperi. Horsu quà à l’ombra venendo, guarderai il muro, da l’altra parte ordina te medesima dove tu eri, e non tardare, che vediamo questa nostra Capitanea, che vien da’l concilio. ogniuna s’affretti, e habi in odio la barba, ch’ella ha à le masselle. vengono costoro havendo anchora il medesimo habito.
Pra.
Le cose che consultavamo ò donne felicemente sono successe, ma prestissimamente, nanti che alcun’huomo vi vega, gettate via spogliatevi la veste, i calciamenti vaghino à spasso. Gettate via le laconice subricate, mettete giu i bastoni. Nondimeno tu ordina costoro, che io voglio saltar dentro, nanti che mio marito mi vega, et che io metta giu il pallio lì, dove l’ho tolto, e le altre cose [p. 240r modifica]cose che havemo portato con noi.
Cr.
Tutte le cose apparecchiate sono, che hai detto. pertiene à te avisarne d’ogni cosa, qual vuoi, che che faciamo, é cosa utile à noi, che ben ascoltiamo, so ben io che nissuna più grave di te è meschiata trà le donne.
Pra.
Aspettate un poco, che voglio l’imperio, che mi consultate voi, adesso ho comprovato, che certamente ne la turba, e ne le gravi cose, sete fatte virilissime.
Huo.
Onde vieni Prassagora?
Pra.
Che ne vuoi fare disgratiato?
Huo.
Che ne voglio far?
Pra.
Huomo da niente, non dirai da l’innamorato?
Huo.
Non da uno forsi.
Pra.
E certo t’è lecito, che l’aprovi.
Huo.
A che modo?
Pra.
Se la testa mi sente di perfumi, ò d’onguenti.
Huo.
Che la donna non si chiava senza onguento?
Pra.
Non io misera.
Huo.
Come dunque sei andata la mattina ne’l far de’l dì, con silentio pigliatomi il pallio?
Pra.
Una certa donna, e amica mia, e compagna, volendo parturire. mi ha mandata à chiamare.
Huo.
Non me l’hai detto à me.
Pra.
Non hai cura d’una pagliolata, che cosi stà male ò marito?
Huo.
Non me l’hai detto. [p. 240v modifica]
Huo.
Interviene qualche male?
Pra.
Sì per i dei. e come m’abbattei, andai, e ella mi pregò che mi ha lasciata, che con ogni modo, con ogni arte gli volesse andare.
Huo.
Poi perche non gli sei andata con la tua propria veste? che mi spoglij me, e te ne vai lasciandomi come morto, non coronandoti, ne pigliando il lecito?
Pra.
Faceva gran freddo. r io fiacca e debile, mi ho messa questa, à ciò che mi potessi riscaldare, r te ho lasciato giacer ne’l letto, e ne’l caldo ò marito mio.
Huo.
Questi calciamenti Laconici sono venuti con teco, e il bastone perche l’hai portato?
Pra.
A ciò che non rompess’io la veste, l’ho legata su imitando te, strepito facendo con i piedi, e battendo le pietre con il bastone.
Huo.
Sai dunque perdere la misura de i formenti, la quale era honesto, che io la pigliassi da’l concilio?
Pra.
Non te ne curar, ella ha partorito un bel puttino maschio.
Huo.
Il concilio?
Pra.
Per Giove io te l’ho detto, io son andata, e cosi è nato.
Huo.
Per Giove. non sai quello che heri ti dissi?
Pra.
Me l’haveva dimenticato, adesso m’aricordo bene.
Huo.
Non sai quel ch’è apparso? [p. 241r modifica]
Pra.
Non io per Giove.
Huo.
Sedi dunque, e mangia le sepie. si dice che la cità è data à voi.
Pra.
A che fare? per tessere?
Huo.
Non per Giove, ma per signoregiarla.
Pra.
In che cosa?
Huo.
In tutte le cose de la cità.
Pra.
Per Venere, la cità da qui indietro sarà molto beata.
Huo.
Perche?
Pra.
Per causa di molte cose. nissun da qui indietro serà che ardisca far laidezze, à nissun modo testificare, non criminare, non ingiuriare,
Ble.
Niente farai per i dei, ne mi torrai la mia vita.
Huo.
O misero de gli huomini lascia dir la donna.
Pra.
Non robare vesti, non havere invidia à vicini, non esser nudo, non esser povero, non svillacare, non dare à giudicanti la facultà propria.
H.
Per Nettuno cose grandi, s’ella non se mentisce.
P.
Ma ti mostrerò, che questo mi conferma il testimonio, e niente mi contradice.
Co.
Hor bisogna, che ecciti la mente prudente, e sapiente, e la cura che ben sa aiutar gli amici. communemente ne le buone fortune viene la prudenza de la lingua, illustrando il popolo civile con molte felicità de la vita, à dechiarare di che potenza è il tempo. imperoche la cità nostra hà bisogno de’l inventione d’alcun sapiente. [p. 241v modifica]hor compisce solamente ne li fatti, ne li detti di prima: che di certo hanno in odio, se spesso vedeno le cose antiche. ma non bisogna tardare, ma toccar via con sententie, che l’affrettarsi rende molta gratia à i spettatori.
P.
Et certamente credo, imperoche insegnerò cose buone. Questi spettatori se vogliono far cose nuove (perche non sete usi troppo dimorare in queste antiche) mi fan molto paura.
B.
Circa ’l fare cose nuove non temerai: questo fare à noi è come un’altra signoria, et il rifiutare le cose antiche.
P.
Nessun di voi mi contradica, ne m’interrompa, nanche egl’intenda l’openione, e quello che si dice. Dico che bisogna che ui communicate tutti partecipandovi de’l tutto, e di esso vivere. e non voglio, questo arrichirsi, et quell’altro essere misero, e poveretto, ne costui galdere molta terra, e quest’altro haver nanche da sepelirsi, ne costui haver assai servi, e quell’altro deba seguire: ma io farò una commune vita à tutti, e uguale.
B.
A che modo commune à tutti?
P.
Mangierai tu prima la merda.
B.
Communicaremo questa merda?
Pra.
Per Giove sì. Sei prevenuto à interrompermi, ch’io voleva dir questo. primamente farò la terra commune de tutti e l’argento, et le altre cose che hà ciascuno: poi da questi communi che sono, vi pasceremo [p. 242r modifica]pasceremo noi gouernandovi, e isparmiando, e attendendo à l’openione predetta.
B.
In che guisa dunque quello che non possiede la nostra terra, l’argento poi e i Darichi, e le pecunie e ricchezze ascose?
P.
Egli metterà questo ne’l mezzo, e se non lo metterà, si mentirà.
B.
E possede per questo?
P.
Niente gli sarà utile.
B.
Secondo che?
P.
Nessun n’anche ne la povertà farà niente di male. imperoche tutti haveranno ogni cosa, pani, pezzi di pesce, fugazze, veste, vino, corone, ciceri, però che guadagno è à non mettergli? essaminati e mostralo.
B.
Non piu robamo costoro, i quali hanno queste cose?
P.
Primamente ò amico quando usavamo queste legi antiche e prime. adesso poi sarà la vita di comune. che guadagno è à non metterli?
B.
Se uno vedendo un putto desiderarà e vorrà subagitarlo, haverà à dargli di queste cose facili? participar egli da’l commune insieme dormendo?
P.
Sarà lecito insieme dormire con esso datogli il premio queste communi le farò dormie con gli huomini, e far de gli figliuoli à che ne vuole.
B.
Come dunque, se tutti vorranno la piu bella de tutte e cercaramo da contendere?
P.
Le piu brutte. e le piu gobbe sederanno presso le [p. 242v modifica]piu belle, e poi s’egli desiserarà quella, haverà à far prima con la piu brutta.
B.
In che modo noi vecchij, si congiungeremo con le brutte? non ne caderà giu il me,bro feminale nanti che arriviamo là dove dici?
P.
Non combatteranno.
B.
Circa che?
P.
De’l non dormire insieme.
B.
E cosi à te sarà.
P.
Questo è la openion nostra, imperoche è consultato inanti, in che modo il buco di nessuna sarà vacuo.
B.
Poi che farai de gli huomini, che fugiranno i brutti, e seguiranno i belli.
P.
I piu brutti servaranno i piu belli che si partiranno da la cena, e i piu brutti servaranno in publico. e presso di questi belli non sarà lecito à le donne dormire, nanti che habino fatto appiacere à i brutti, e piccoli.
B.
Dunque il naso di Lisicrate il farà essere uguale à i belli.
P.
Per Apolline e pubblica sentenza e cosa da ridere sarà d’i belli e di che hanno il sigillo, quando dirà, a’l calciamento tu primo da luogo, e poi servalo: quando haverò sodisfatto daroti da fare un’altra volta.
B.
A che modo noi vivendo potremo cosi conoscere i soi proprij figliuoli? [p. 243r modifica]
P.
Che bisogna? i vecchij à l’hora si penseranno tutti esser suoi padri.
B.
Ne strangolaranno bene e utilmente per ordine tutti vecchij per l’ignoranza, che strangolano adesso conoscendoci il proprio padre? che quando non gli conosceranno, à che modo non li incacaranno?
P.
Non li lasciarà fare il soprastante. à quello non sarà cura d’altre cose, il quale gli batterà. e temendo che cosi saranno combatterà con quelli.
B.
Le altre cose dici niente grossamente, ma se venendo l’Epicuro, ò Leucolosa mi chiamerà avolo, questo mi sara grave d’udire.
P.
E cosa molto piu grave per questo rispetto.
B.
Per quale?
P.
Se Aristillo te basciarà, dicendo che sei tu suo padre.
B.
Luchiarò e piagnerò.
P.
Tu senti d’odore di Calamintha, ma questo è nato, nanti che le sentenze siano fatte: onde non è da temere che’l non te basci.
B.
Grave cosa hò patuto, che lavorarà la terra poi?
P.
I servi. e à te sarà cura, quando l’elemento sarà grasso di diece cubiti, andartene à cena.
B.
Circa à la veste che inventione gli sarà? questo è l’interrogare.
P.
Quelle ch’havete, saranno vostre, noi tesseremo poi de le altre. [p. 243v modifica]
B.
Un’altra cosa: se alcuno é debitore de la pena à li signori, in che modo haverà egli quella? imperoche il giusto non è de le communi cose.
P.
N’anche le pene saranno prima.
B.
Chi consumerà questo? io questa openione hò posta da canto.
P.
O misero per cui causa saranno?
B.
Per causa de molte cose per Apolline. prima per causa di questo, se alcuno dovendo dar, nega.
P.
Onde dunque l’imprestante hà prestato se tutte le cose sono in commune?
B.
Egli è ladro manifesto.
P.
Per Cerere mi insegni bene.
B.
Dimi, i ladri donde riceveranno le bastonate, poi che i convivanti gli ingiuriano? certo credo che dubiti di questo.
P,
Da la schizzata, ch’egli hà mangiato. imperoche quando alcuno la roba non è ingiuriato malamente, sendo punito ne la gola.
B.
Ne alcun sarà ladro?
P.
In che modo robarò io il proprio mio?
B.
Ne anche spogliaranno di notte?
P.
Non se dormirai à casa, ne se fuora, si come prima, perche ogniuno havrà da vivere. se spoglierà essi lo darà, che ben gli saria à lui à combattere? ti portarà un’altra cosa da’l commune meglior di quella.
B.
Ne se giocharà à i dati? [p. 244r modifica]
P.
Che sarà da far questo?
B.
Che modo di vivere farai?
P.
Commune à tutti. imperoche io dico che voglio fare la cità una sola habitatione, rompendo ogni cosa insieme, à ciò che si congiungino trà se.
B.
La cena dove parecchiarai?
B.
Pallazzi giudicali e portichi, saroli tutti luochi da mangiare.
B.
Che banca ti sarà utile?
P.
Metterò giu le tazze e l’hydrie, e gli sarà il cantare d’i putti che cantaranno gli huomini forti e galiardi ne la guerra, e se alcun sarà timido, che non cenino per vergogna.
B.
Per Apolline, generosa cosa. i giudicij sortiti dove li volgerai?
P.
Li metterò ne’l palazzo. e poi convenientemente per sorte elegerò tutti fin che sapendo il sortito, ei se ne parta, alegrandosi in che lettera egli ceni. et il precone seguirà li cenanti da la Beta fin’al portico regale. e Theta apresso di se istessa, questi da’l Cappa, a’l portico dove vendono le farine, à ciò che s’inchinino giu.
B.
Per Giove, ma che ivi cenino quelli, à li quali non sia cavata la lettera presso à la quale debino cenare. tutti li minacciano.
P.
Questo non è presso di noi. imperò che à tutti daremo cose abundanti, che ogniuno ebriaco con essa corona se ne vaga à pigliare la face. Et le donne [p. 244v modifica]andando per le vie diranno dopoi la cena à costoro? Vien da noi quà, che egli è bella giovane presso di me. dirà un’altra (di sopra a’l tavolato e bellissima, et bianchissima) prima che di costei bisogna che dormi presso di me. e sequendo costoro i piu belli, diranno i piu deformi, dove corritu? ma che farai ritornando, imperoche è deliberato à i fini e brutti subagittare prima? e voi frà questo mezzo pigliarete le foglie de’l fico, e nanti à i vestibuli ò portichetti le tingerete. Hor ditemi vi piacciono queste cose?
B.
Grandemente.
P.
Bisogna dunque ch’io vada ne’l foro, à ciò che riceva le concorrenti ricchezze, pigliando qualche lira nuova che bene suoni. Send’io eletta è necessario che cosi si faccia, et che ordini i companatichi, à ciò che hogi primamente mangiate.
B.
Hor bene mangiaremo.
P.
Il dico bene: poi voglio acchetare tutte le putane.
B.
Perche?
P.
Questo è chiaro, che loro hanno i fiori de giovani, e non bisogna che le serve ornate vietino la voluttà di Venere à le libere, ma solamente dormina presso à i servi, grattando la pelle a’l porco.
B.
Horsu che apresso ti voglio seguire, à ciò ch’io sia veduta, e costoro mi dicano: Non vi maravigliate voi di questo duce?
B.
Io mi metto a’l ordine, à ciò ch’io porti i vasi ne’l [p. 245r modifica]foro, e ch’io cerchi la sustanza.
H.
Vien quà ò bella Cinachira, che tu prima come soglij porti fuora il canestro de le robe mie, e volgi in giu molti de mei vasi: dove è Difroforo? vien fuora con l’olla negra per Giove, ne t’è accaduto accaduto cuocerti ne la medicina, ne la quale si fa negro Lisicrate. tientela presso. vien quà Commotria, vien quà portatore porta questa hidria, e tu citareda salta fuori, che spesso mi ecciti a’l concilio di notte importunamente per la lege matutina. pigliando la scafa, porta le cere, porta i rami et sentami presso, e porta fuora due ollette e il bocale da l’oglio, le ollette presto, e lascia la moltitudine.
Fid.
Ch’io gli metterò le cose mie? sarei ben infelice, e senza mente. mai per Nettuno. ma proverò primamente, e considerarò. imperò che non voglio mattamente gettare via il sudore, e isparmiamento mio in una sol parola: nanti che non impari ogni cosa come la stia. perche vogliono costoro vasi? gli hai portati scambiando la casa? ò li porti per darli pegno?
Huo.
Nò, nò.
Fid.
Che ordine e questo? e n’anche mandato la pompa à Hieron precone?
Huo.
Per Giove nò, ma li voglio portar à la cità, ne’l foro, secondo le apparenti legi.
Fid.
Li porterai via?
Huo.
Sì. [p. 245v modifica]
Fid.
O misero te per Gioue salvatore.
Huo.
Come?
Fid.
Come? facilmente.
Huo.
Che non bisogna obedir à le legi?
Fid.
A quali ò infelice?
Huo.
A le presenti e apparenti.
Fid.
Apparenti? sei dunque ben grosso.
Huo.
Grosso?
Fid.
Non sei tu il piu pazzo di tutti?
Huo.
Quello ch’è ordinato il facio, come è cosa d’uomo prudentissimo.
Fid.
Costui dunque è pegiore.
Huo.
Non pensitu di lasciare?
Fid.
Il servarò, fin che vego la moltitudine che ella vuole.
Huo.
Che altro, che parecchiati sono à portar via le cose?
Fid.
Vedendolo il crederò.
Huo.
Il dicono per le vie.
Fid.
Il diranno certo.
Huo.
Et dicono di portarla roba elevandola su.
Fid.
Il diranno certo.
Huo.
Morirei non credendo il tutto.
Fid.
Non crederanno.
Huo.
Giove ti strupij.
Fid.
Mi strupieranno ben. pensitu di portar qualche cosa?
Huo.
Ciascuno che ha cervello. [p. 246r modifica]
Fid.
Questo non è cosa de la patria.
Huo.
Bisogna che noi solamente il cogliamo su.
Fid.
Per Giove, e i dei (il conoscerai da le mani, e da le statue) quando preghiamo che ne dijno de’l bene stanno estendendo la mano in su rivolta, non come per dar alcuna cosa, ma come per pigliarne.
Huo.
O infelice de gli huomini, lasciami far qualche cosa eccellentemente, queste cose sono da esser date. dov’è il mio ligame?
Fid.
Certamente il portarai.
Huo.
Cosi per Giove, e hormai legaro questi doi tripiè insieme.
Fid.
Questo è di stoltitia, à non aspettare gli altri, che se faciano poi.
Huo.
Che fai?
Fid.
Tardar è meglio e aspettar un poco.
Fid.
A che fine?
Huo.
Se spesso avenisse il terremoto, ò il fuoco evitabile, ò che’l passasse la gatta, cessariano da portare ò tu intuonato.
Huo.
Haverò à grato, se non haverò, dove debia mettere queste cose.
Fid.
Non certo le pigliarai, d’onde (confidati) le deponerai, anchora che vieni il primo.
Huo.
Perche?
Fid.
So ben io, à costoro che sentenze veloci fanno, quai cose gli pareranno, negando queste cose. [p. 246v modifica]
Huo.
Le portaranno ò amico.
Fid.
Et che, se non le porteranno?
Huo.
Non ti curar, le porteranno.
Fid.
Et se non le porteranno, che?
Huo.
Combatteremo con essi loro.
Fid.
Se saranno megliori, che?
Huo.
Me n’andarò, lasciandoli.
Fid.
Se le vendessero, che?
Huo.
Postu crepare.
Fid.
S’io crepasse, che sarebe?
Huo.
Faresti bene.
Fid.
Tu desideri portarle?
Huo.
Io sì, imperò che io vego i mei vicini à portare.
Fid.
Antistene le porterà. imperò che è molto piu utile cacar prima di piu di trenta dì.
Huo.
Piagni.
Fid.
Callimaco maestro di ballo le porterà, che bisogna di piu di Callia? questo huomo gittarà via la sustanza.
Huo.
Dici cose gravi.
Fid.
Che gravi? come se non vedesti sempre esser fatte tali sentenze. non sai tu quello che è apparso de le astutie?
Huo.
Sò bene.
Fid.
Non sai tu, quando confermassimo quelli denari di rame di sententia?
Huo.
Et quella sectione mi diede noia, imperò che elevai il sacco pieno de racemi de molti danari, e [p. 247r modifica]poi n’andai ne’l foro à le farine. Poi portando io il vaso, il precone fece la grida, che da què inanzi non si pigliasse nissun danaro di rame. perche usano l’argento.
Fid.
E questo non lo giuramo tutti, che saranno cinquecento talenti à la cità quadragenaria, che ha trovato Euripide. onde ogni huomo inaurava Euripide, ma quando à i ben consideranti apparse Corintho di Giove, la cosa non piacque. un’alta volta ogni huomo illiniva Euripide di pece.
Huo.
Non il medesimo ò amico. à l’hora noi signoregiavamo, adesso mò le donne.
Fid.
Le quali io osservarò, che non mi pissino ne gli occhi.
Huo.
Non so quello che haij. piglijti troppo peso ò giovane.
Pre.
O brigata la cosa stà cosi. Andate, frettatevi per la diritta via, à ciò che la fortuna ne dica à ciascuno che per sorte semo eletti, dove habiamo à cenare, perche sono abondanti le tavole, preparate d’ogni cosa buona, e letti pieni di veste, et tapeti. le donne perfumate meschiano le tazze, stanno ordinatamente: i pezzi di pesce sono arrostiti, lepori s’inspedano, fugazzette se pistano, corone s’ingroppano, i frutti sono seccati, le piu giovani cuoceno à lesso de le fave. Smeo tra esse havendo l’ornamento equestre netta i cadini de le donne. il vecchio poi và inanti havendo la veste, [p. 247v modifica]e le calciamenta, ridendo con un’altro giovane, poi che è andato giace giu fregandosi per terra. Apresso, andate ch’ei porta una fugazza, ma aprite bene le masselle.
Huo.
Dunque gli voglio andare certamente. che son io stato à far qui, apparendo tali cose à la cità?
Pre.
Dove andarai? non gli metterai la sustanza?
Huo. che non la depone
A cena.
Pre.
Non certamente, se hai la mente à quelle cose, nanti che porti via.
H. che non.
Porterò vià.
Pre.
Quando?
H. che non.
Il mio ò tu non mi sarà impedimento.
Pre.
Che cosa?
H. che non.
Dico che gli altri portino via anchora posteriori di me.
Pre.
In che modo anderai à cena?
H. che non.
Che ho io fatto? bisogna che i sapienti apportino gravi cose à la cità.
Pre.
Se vieteranno, che?
H. che non.
Andarò inchinandomi.
Pre.
Se ti bastoneranno? che?
H. che non.
Chiameremo esse.
Pre.
Se ti bertegiaranno, che?
H. che non.
Starò su le porte.
Pre.
Che farai? dimi.
H. che non.
Pigliarò i cibi de chi li porterà inanti.
H. che dep.
Và dunque l’ultimo. et tu ò Sicone e Parmenone [p. 248r modifica]Parmenone tolete su tutta la sustanza mia.
H. che non.
Hor che la porto con teco.
H. che dep.
Nò, nò, ho paura che n’anche presso à la Capitanea quando metterò giu, io non le avicini.
H. che non.
Per Giove, con qualche inventione, à ciò che habia le robe. Ma di queste piste communemente participerò. hora è il dovere ch’io vada, egli è da cenar con seco, non è da tardare.
Vec.
Che gli huomini non veniranno? gia è tardo. e io imbellettata sono co'l belletto, e vestita di rosso, e ociosa contando il mio canto à me, scherzando come riceverei alcuno di loro che venissero. Muse venite a la bocca mia, trovandomi qualche canzonetta di quelle Ioniche.
Al. u.
Tu mi ha passata, e sei prevenuta ò marcida, hai pensato di vindemiare i solitarij luoghi senza me, e addure alcuno cantando? e io canterò, et quello per la turba, cio è spettatori ha non so che di ridere, e d’apiacere.
Vec.
Disputa con costei e obediscela: e tu piglia un sonatore amico, e l’instrumenti, e canta un canto degno di me, e di te.
Al.u.
Se alcuno vuole havere qualche bene venga à dormire presso di me, che la sapienza non è ne i giovani, ma in quelli che hanno approvato, ne alcuna piu amarà di me l’amico, con il quale mi congiungerò, ma volarà in altra cosa.
Gio.
Non haver invidia à i giovanetti, che il delicato è [p. 248v modifica]nasciuto ne le gambe tenere, e fiorsice ne le pecore. e tu ò vecchia ricoglie, e frica il pensiere à la morte.
Vec.
L’ornamento tuo te poscialo cascare, e gettalo via. quando ti vorranno far quel fatto postu trovarti apresso un serpente ne’l letto: e esser strascinata, quando ti vorran basciare.
Gio.
Oime, oime, che patirò io? non è venuta l’orina mia, e son lasciata sola. mia madre è andata altrove, e non bisogna che io dica altro. ò baglia pregoti chiama Ortagora, pregoti che aiuti i toi proprij.
Vec.
Gia ti move il costume de la Ionia ò misera tu. imperò che tu mi pari un Lambda secondo i Lesbij. ma non mi rapirai i miei ludi, e non mi torrai, ne farai perdere questa hora mia.
Gio.
Canta quello che vuoi et inchinati à guisa di gatta, che nissuno prima entratà dà te in vece di me.
Vec.
Non à portarmi una qualche cosa.
Gio.
E cosa nuova ò vecchia marcida.
Vec.
Non certamente.
Gio.
Questa vecchia misera che dic’ella?
Vec.
La vecchiezza mia non si dolerà di te.
Gio.
Che cosa?
Vec.
Belletto piu e poi che tua cerusa.
Gio.
Che disputi con meco?
Vec.
Che te inchini tu?
Gio.
Io? [p. 249r modifica]
Vec.
Canto à me istessa il mio amico Epigene.
Gio.
Hai altro inamorato che Gere?
Vec.
Te lo farò conoscere, che à man’à mano mi venirà trovare. egliè questo, non di te ò scelerato ei ha bisogno niente.
Gio.
O corrotta per Giove, presto esso lui te’l mostrerà. e io mi parto.
Vec.
Et io à ciò che conosci che piu di te io sò.
Gio.
Volesse dio che dormessi presso una giovanetta, et non chiavasse prima una difforme, ò vecchia.
Vec.
Piangerai dunque per Giove e chiavarai, che queste cose non sono in Charissene. è cosa giusta à far ciò secondo la lege s’ella publicamente signoregia. hor me ne vò osservando quello, che sei per fare.
H.
Voglia dio che la piglij lei sola, ne la quale havendo io ben bevuto vorrei abbattermi.
Gio.
Ho ingannata questa maladetta vecchia, ch’è senza cervello, e pensa ch’io debia star con seco.
Giovanetta.
Egli è costui, de’l quale riccordate siamo, eia, eia, amico mio hor vien da me, che mi sij marito con l’appiacere, imperche un certo amore mi conturba de questi toi capelli, et un certo desiderio mi assalta, il quale mi da tristezza. lascia, che ò amore io vengo à te, et fallo venire ne’l mio letto.
Gio.
Vien eia eia, e corre e aprimi la porta: se non, si struppierò l’amico tuo. ma voglio essere sbattuto ne’l tuo seno da’l tuo segio. ò Venere perche [p. 249v modifica]m’infurij? lasciami pregoti l’amore, e fallo venire ne’l letto mio, à questo basti quanto a’l mio bisogno, e tu ò dilettissimo pregoti aprimi, basciami, per te hò affanni, o oro vario, mio desiderio grande, ramo di Venere, api de la musa, nodrimento de le grazie, volto de delicij, aprimi, basciami per te son affannato.
V.
Che batti tu? cerchi me?
G.
Onde?
V.
Sbattitù la porta?
G.
Voglio morire.
V.
Di che hai bisogno che vieni à fare havendo la face?
G.
Cerco una persona che mi sguacij i menchioni.
V.
Quale?
G.
Quello forsi che spetti, che ti venga à chiavare.
V.
Per Venere, vuoi ò non vuoi.
G.
Nessuna volemo da i cinquanta anni. non volemo anchora. imperoche l’havemo elette da i vinti solamente.
V.
Ne la prima signoria questo era ò Glicone, hor adesso parmi che ne dei pigliar noi.
G.
Sì à che gli piace, secondo la lege che ne i Peti.
V.
Ne anche cenerai secondo la lege de i Peti.
G.
Non so che dici, quì bisogna battere.
V.
Quando prima batterai à la mia?
G.
Hor non dimandiamo vestimento de’ confini. [p. 250r modifica]
V.
Sò bene che ti bascierò, ma tu ti maraviglij, che à le porte non m’hai trovata, ma à la bocca.
G.
O misera, io hò paura de’l tuo inamorato.
V.
Quale?
G.
L’ottimo de pittori.
V.
Ch’egli è?
G.
Che pinge vasetti à i morti. ma vatene via, che’l non te vega su la porta.
V.
So bene, so bene che vuoi.
G.
Et io anchora tu, per Giove.
V.
Per Venere, che mi hà sortita elegendomi, io non ti lascierò.
G.
Diventi matta ò vecchia.
V.
Tu ragioni, e io ti condurrò ne’l mio letto.
G.
Che forsi compramo noi tenaglie ne i vasi? lasciando questa vecchia, traheremo su vasi da i pozzi.
V.
Non mi ingiuriar ò misero, ma seguimi dietro.
G.
Questo non mi è necessario, se non deponi à la cità il quinquagenario de mei.
V.
Per Venere è necessario. che dormendo io con tali i m’alegrerò.
G.
Mi dolio de tali: ne mai lascierolomi dar intender.
V.
Per Giove, questa ti costringerà.
G.
Che?
V.
La sentenza fatta che è de necessità, che vegni da me.
G.
Dimi la cosa come l’è. [p. 250v modifica]
V.
Hor te’l dico, è apparso à le donne, se un giovane piglia una giovane, non è lecito che egli la chiavi, nanti che prima ei sedazzi una vecchia. e se’l non vuole prima chiavarla ricercando una giovane è concesso à le vecchie donne pigliarlo e strassinarlo ne la camera sua.
G.
Oime che hogi son assassinato.
V.
Bisogna obedire à queste nostre legi.
G.
Che serà poi, se un citadino ò amico mio venendo mi liberarà?
V.
Ma non è piu huomo nissuno, signore sopra mesura alcuna.
G.
Nanche vi è il pergiurio.
V.
Non bisogna che tu ti volgi.
G.
Mostrerò d’essere mercante.
V.
Tu pignerai.
G.
Che dunque bisogna fare?
V.
Che vieni quà à me.
G.
Et questa è la necessiità mia.
V.
La Diomedea.
G.
Getta quà prima del’origano, e rompe quatro viti e mettile su, piglia la corona, et mettili i vasetti, e una secchia d’acqua presso la porta.
V.
Certamente tu mi comprerai una corona.
G.
Per Giove, penso che prestissimamente dentro morirai con le tue cere.
Giovanetta.
Tu dove tiri costui?
V.
Faccio venir dentro il mio inamorato. [p. 251r modifica]
Giovenetta.
Sei matta, imperoche non hà l’età di dormire con teco sendo sì fatto, che piu presso gli potresti essere madre che moglie. Onde se hai constituita quella lege empirete tutta la terra di edipodi.
V.
O veneno, e invidia dove hai trovato questa lege? ma io ti punirò.
Giovanetto.
Per Giove salvatore, fammi questa gratia ò dolcissima tu liberami da questa vecchia: onde questo bene che mi farai, stà sera te lo remeritarò abundantemente.
V.
Tu dunque, dove il tiri trasgrediendo la lege, che dice che prima bisogna ch’ei dormi presso di me?
Giovanetto.
Poveretto me. dove sei cascata ò pessima donna e pazza? questo male è pegior di quello.
V.
Vien quà.
G.
Pregoti non mi desprezzare, che sono strassinato da costei.
V.
Ma non son io, ben sì la lege.
G.
Non tu, ma una certa Empusa vestuta d’una veste tinta di sangue.
V.
Segui mollicinandoti, e affrettati, e non dir nulla.
G.
Horsu, lasciami far à me ch’io vò a’l cacatore, et se non farò nulla, subito mi vederai rosso di paura.
V.
Stà in cervello, vien dentro, che potrai cacare.
G.
Hò paura, che piu non voglio. hor ti darò due sigurtà. [p. 251v modifica]
V.
Non mi darai niente.
Altra v.
Tu dove, dove vai con essa?
G.
Non gli vò, che’lla mi strassina, hor se non mi sprezzarai ch’io sia consumato, liberami, agiutami, ch’io ti renderò il cambio. ò Hercole, ò Pane, ò Coribanti, ò Dioscuri, questo mi è un piu pernicioso male, che cosa è questa di gratia pregoti? è forsi una simia costei che hà doi diti di belletto su la faccia? ò pur è una vecchia resuscitata da morte à vita?
V.
Non mi ingiuriar, seguimi pure.
Al. V.
Vien pur da me, che mai t’abbandonerò.
V.
Nanche io.
G.
O assassine hoggi mi havete assassinato.
V.
Bisogna che segui me secondo la lege.
Al.
Nò. se un’altra vecchia piu brutta vi apparerà.
G.
Se dunque mi strazzarete, come potrò io andar à la bella?
V.
Consideralo tu. questo bisogna che faccij.
G.
Quali, quali iscacciando sarò io liberato?
V.
Non lo sai? vien da me.
G.
Lasciami tu.
Al. V.
Vien dunque da me.
G.
Per Giove se ella mi lascia.
V.
Non ti lascierò per Giove.
Al. V.
Nanche io.
G.
Sete fatte difficili portinare.
V.
Perche? [p. 252r modifica]
G.
Strassinate i navigatori, e li corrompete.
V.
Vien qua e taci.
Al. V.
Per Giove, vien da me.
G.
Questa cosa è manifesta secondo la sentenza de la regola che bisogna chiavarle ambe due, sendo pigliato e strassinato di mezzo: come dunque potro io remigarle ambe due?
V.
Bene, quando havrai mangiato un’olla de bulbi.
Gio.
Oime infelice, stracciato son presso à la porta.
Al. V.
Ciò non serà piu, ch’io voglio morir con teco.
G.
Non, per dio, imperoche è meglio esservi buon uno, che doi cattivi.
V.
Per la Luna ò che vuoi, ò che non vuoi.
G.
O tre volte disgratiato io, s’è ch’io sedazzi tutta notte e tutt’il dì una vecchia marza e poi liberato da costei, ch’io deba havere anchora Fride che su’l mostazzo hà il bocal da l’oglio? Non son io infelice? Per Giove salvatore son gravifelice e huomo infortunato, che à tali bestie e fiere ceder mi conviene. non dimeno se haverò patuto qualche cosa, navigando à queste putane, sepelirolo ne la faccia de l’ingresso.
V.
E ne la superficie de’l sepolcro, elle vivente con la pece si dee illinire, poi legarle il piombo circa le caviglie d’i piedi, et l’imponerai sopra la iscusatione per il lecytho.
Fante.
O popolo veramente beato, e io aventurata, e la mia patria beatissima, e voi qualunche [p. 252v modifica]qualunche sete su le porte, e tutti voi citadini vicini, io mi hò perfumata la testa de eccellenti ò Giove e buoni perfumi, e unguenti. à costoro li vasetti Tasij molto abondano. questi assai stano su la testa, e queste altre fiorite sonno volate via: per il che sono molto piu che ottimi ò Idio da’l cielo. mettimi de’l vino, che tutta notte ne fara star alegre noi elette, che havemo un souave odore. Horsu donne ditemi, dove l’inamorato di mia patrona?
Co.
Egli è lì, tu mi pari haverlo trovato.
Fante.
Certamente, che egli è venuto qua à cena. ò patrone beato felice, e tre volte felice.
Pat.
Io?
Fan.
Sì per Giove, piu che huomo de’l mondo, chi è fatto piu beato di te, il quale, sendovi i citadini piu che tre milla in moltitudine, non hai cenato solo?
Co.
Hai deto apertamente huomo fortunato.
Fan.
Dove, dove vai?
Pat.
Vengo à cena.
F.
Per Venere sei molto piu ultimo de tutti: madonna pigliatemi commandato mi hà ch’io conduca e queste giovanette con teco. V’hà lasciato il vin Chio et altre buone cose apresso, non tardiate. e se alcuno de spettatori è benevolo, e de giudici che altrove non guardino, venga con meco, che ogni cosa vi daremo. donque ciò generosamente [p. 253r modifica]lo dirai à tutti, e non vi lasciarai nessuno, hor liberamente chiamerai il vecchio, la giovanetta à cena. à tutti è apparecchiato. se n’anadaranno à casa. Io gia me n’anderò presto à cena, havendo questa mia facella. che dunque ritardi havendola? ma non meni costoro? fra questo mezzo che discendi tu, io canterò qualche canto cenativo. io mi voglio però consultar un poco con i giudici, e con i sapienti che ricordandosi de sapienti mi giudichino, e con quelli che ridono dolcemente, che con riso mi giudichino. Manifestamente vi dico à tutti che mi giudicate, e non è la sorte causa à noi di quello ch’io ho sortito. ma ricordandosi di queste cose non bisogna piu giurar falso, ma giudicar i cori bene e dirittamente sempremai, ne assomigliarsi di costume à le male putane, che solamente hanno memoria de le cose ultime. ò, ò, è hora donne mie care, se vogliamo far la cosa, movetevi, à cena prestamente. e tu presto muove i piedi.
Sem.
Volentieri, e io muovo le mie gambe. prestamente vengono olle, persutti, cartilaginei, musteli, reliquie di come con agro e aspero intrito, lasero impostovi dentro de’l miele, squassacoda, merolo, columbe, capi de galli à rosto con intinto di motacille, di columbe, di lepori, insperso con le ale. e tu udendo queste cose presto presto piglia la scuotella, poi piglia e ordina un’ovo, [p. 253v modifica]che ceni.
Sem.
Hor mangiano. levatevi eia, eia, eia. ceniamo ei, ei, ei, ei. impetuosamente ne la vittoria ei, ei, ei, ei, ei, ei, ei, ei, ei.


Fine de le Congreganti.



Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Le congreganti