Le Metamorfosi/Libro Primo

Libro Primo

../Dedica ../Libro Secondo IncludiIntestazione 20 dicembre 2008 75% Letteratura

Dedica Libro Secondo

 
Le forme in novi corpi trasformate
Gran desio di cantar m’infiamma il petto,
Da i tempi primi à la felice etate,
Che fu capo à l’imperio Augusto eletto.
Dei, c’havete non pur quelle cangiate,
Ma tolto à voi piu volte il proprio aspetto,
Porgete à tanta impresa tale aita,
C’habbiano i versi miei perpetua vita.

E tu, se ben tutto hai l’animo intento
Invittissimo Henrico al fero Marte,
Mentr’io sotto il tuo nome ardisco, e tento
Di figurar sì bei concetti in carte,
Fammi del favor tuo tal’hor contento,
Che le tue gratie à noi largo comparte:
Che s’esser grato à te vedrò il mio carme,
Farò cantar le Muse al suon de l’arme.

Pria che ’l ciel fosse, il mar, la terra, e ’l foco;
Era il foco, la terra, il cielo, e ’l mare:
Ma ’l mar rendeva il ciel, la terra, e ’l foco,
Deforme il foco, il ciel, la terra, e ’l mare.
Che ivi era e terra, e cielo, e mare, e foco;
Dove era e cielo, e terra, e foco, e mare:
La terra, il foco, e ’l mare era nel cielo;
Nel mar, nel foco, e ne la terra il cielo,

Non v’era chi portasse il novo giorno
Col maggior lume in Oriente acceso.
Ne rinovava mai la Luna il corno,
Ne l’altre stelle havean lor corso preso.
Ne pendea la terra intorno intorno
Librata in aere dal suo propio peso.
Ne ’l mare havea col suo perpetuo grido
Fatto intorno à la terra il vario lido.

Quindi nascea, che stando in un composto
Confuso il cielo, e gli elementi insieme,
Faceano un corpo infermo, e mal disposto
Per donar forma al mal locato seme:
Anzi era l’un contrario à l’altro opposto
Per le parti di mezzo, e per l’estreme.
Fea guerra il leve al grave, il molle al saldo,
Contra il secco l’humor, co’l freddo il caldo.

Ma quel, che ha cura di tutte le cose,
La Natura migliore, e ’l vero Dio
Tutti quei corpi al suo luogo dispose
Secondo il proprio lor primo desio.
D’ intorno il cielo, e nel suo centro pose
La terra, indi dal mar la dipartio;
E ’l passo aperto , onde essalasse il foco,
Se ne volò nel piu sublime loco.

Prossimo à lui s’avicinò primiero
L’aer de gli altri piu veloce, e leve,
Che quanto è il mar piu del terren leggiero,
Tanto ei del foco è piu tardo, e piu greve.
Quindi nel centro il suo piu proprio, e vero
Luogo la terra piu densa riceve.
L’ultima parte, che resta, è de l’onda,
Che d’intorno il terren bagna, e circonda.

E dove fur ne l’union nemici,
E cercar farsi sempre oltraggio, e scorno;
Ne la disunion restaro amici,
Poi ch’ognun fu nel suo proprio soggiorno,
E partorir quell’opre alme, e felici,
Onde il mondo veggiam sì bello, e adorno,
Et à far sì bei parti et infiniti,
Sol la disunion gli fece uniti.

Poi che ’l tutto dispose à parte à parte,
Qual fosse de gli Dei quel, che v’intese,
Acciò che fosse uguale in ogni parte,
La terra in forma d’una palla rese.
Poi fe, che l’acque fur diffuse, e sparte
D’intorno, e dentro, per ogni paese,
Lasciando isole, e terre, e quinci, e quindi
A gli Sciti, à gl’Iberi, à gl’Afri, e à gli Indi.

E di ridurla in miglior forma vago,
La terra ornò di mille cose belle,
Quinci un gran stagno, e quindi un chiaro lago,
Là selve ombrose, e quà piante novelle.
Fe correr piu d’un fiume errante, e vago
Fra torte ripe in queste parti, e ’n quelle;
Tanto che giunto in più libero nido,
Percote in vece delle ripe, il lido.

Fece i morbidi prati ornati, e belli
D’herbe, e di fiori, e bianchi, e rossi, e gialli;
I freschi chiari, e limpidi ruscelli
Gire irrigando le feconde valli;
I colli ameni di varij arbuscelli
Fregiati d’erti, e poco usati calli;
E sorger gli alti e faticosi monti,
Quel nudo, e questo pien d’arbori, e fonti.

Cingono cinque cerchi il ciel superno,
Uno nel mezzo, e due per ogni lato.
Cosi voll’ei, che questo mondo interno
Fosse da cinque cerchi circondato.
Senton gli estremi insopportabil verno,
Quel del mezzo è dal Sol troppo infocato,
Due fra gli estremi, e ’l mezzo stanno in loco;
Che son temprati e dal freddo, e dal foco.

Soprastà l’aere à quei cerchi terreni
D’ogni peso terren libero, e scarco,
Ma tal’hor pien di tuoni, e di baleni,
Tal’hor di nubi, e nebbie, e pioggie carco.
Pose ivi i venti torbidi, e i sereni,
Si pronti à farsi l’uno à l’altro incarco,
Che à pena ostar si puote à la lor guerra,
Che non distrugga il mar, l’aere, e la terra.

Euro verso l’Aurora il regno tolse,
Che al raggio matutin si sottopone.
Favonio ne l’Occaso il seggio volse,
Opposto al ricco albergo di Titone.
Ver la fredda, e crudel Scithia si volse
L’horribil Borea, nel settentrione.
Tenne l’Austro la terra à lui contraria,
Che di nubi, e di pioggie ingombra l’aria.

Tra lor divisi à pena havea gli honori
Con si mirabil magistero, et arte,
Che si mostrar le vaghe stelle fuori
Nel bel manto del ciel distinte, e sparte.
Poi, dando à tutti i loro habitatori,
Locò Venere in ciel, Saturno, e Marte.
A le fiere il terren donar li piacque,
A i vaghi augelli l’aere, à i pesci l’acque.

Fra gli animali il più santo, e ’l piu eletto
Mancava anchor, c’havesse arte, e pensiero,
Ilqual col piu purgato alto intelletto
In tutte l’altre cose havesse impero.
Generò l’huom fra tutti il piu perfetto
Quel, che formò l’uno, e l’altro hemispero,
O pur la nova terra di quel seme,
Che ’l ciel gl’infuse mentre furo insieme.

Tutti l’huom superò gli altri mortali
Per l’elevato suo valore interno:
Nè prono il fe come gli altri animali,
Che guardan sempre mai verso l’inferno:
Perche mirasse le cose immortali,
L’alzò co’l grave aspetto al ciel superno,
E per farlo piu amabile, e piu pio,
L’ornò de l’alma imagine di Dio.

O che cosi Prometeo il componesse
Di terra schietta, e d’acqua viva, e pura.
Poi col foco del ciel l’alma li desse,
Ó pur che fosse la miglior natura;
Con questa venerabil forma resse
L’huom su la terra ogn’altra creatura.
E, dato fine à si nobil lavoro
S’ incominciò la bella età de l’oro.

Questo un secolo fu purgato, e netto,
D’ogni malvagio, e perfido pensiero,
Un proceder leal, libero, e schietto,
Servando ogn’un la fe, dicendo il vero.
Non v’era chi temesse il fiero aspetto
Del giudice implacabile, e severo;
Ma giusti essendo allhor, semplici, e puri,
Vivean senz’altro giudice securi.

Sceso dal monte anchor non era il pino
Per trovar nove genti à solcar l’onde;
Ne sapeano i mortali altro confino,
Che i proprij liti lor, le proprie sponde;
Ne curavan cercare altro camino
Per riportarvi ricche merci altronde.
Non si trovava allhor città, che fosse
D’argini cinta, e di profonde fosse.

Non era stato anchora il ferro duro
Tirato al foco in forma, ch’offendesse,
Nè bisognava à l’huom metallo, ò muro
Che dall’altrui perfidie il difendesse.
Tromba non era anchor, corno, ò tamburo,
Che al fiero Marte gli animi accendesse;
Ma sotto un faggio l’huomo, ò sotto un cerro
E da l’huomo securo era, e dal ferro.

Senza esser rotto, e lacerato tutto
Dal vomero, dal rastro, e dal bidente,
Ogni soave, e delicato frutto
Dava il grato terren liberamente.
E quale egli venia da lui produtto,
Tal se ’l godea la fortunata gente,
Che spregiando condir le lor vivande
Mangiavan corne, e more, e fraghe, e ghiande.

Febo sempre più lieto il suo viaggio
Facea, girando la superna sfera,
E con fecondo, e temperato raggio
Recava al mondo eterna primavera.
Zefiro i fior d’Aprile, e i fior di Maggio
Nutria con aura tepida, e leggiera.
Stillava il mel da gli Elci, e da gli Olivi.
Correan nettare, e latte i fiumi, e i rivi.

Ó fortunata età, felice gente,
Che ti trovasti in così nobili anni,
C’havesti il corpo libero, e la mente
Questa da rei pensier, quel da tiranni:
Dove era almen securo l’innocente
Da gli odij, da l’invidie, e da gl’inganni.
Beato, e veramente secol d’oro,
Dove senza alcun mal tutti i ben foro.

Poi che al piu vecchio Dio noioso, e lento
Dal suo maggior figliuol fu tolto il regno,
Seguì il secondo secol de l’argento
Men buon del primo, e del terzo piu degno;
Che fu quel viver lieto in parte spento,
Ch’à l’huom convenne usar l’arte, e l’ingegno,
Servar modi, costumi, e leggi nove,
Sì come piacque al suo tiranno Giove.

Egli quel dolce tempo, ch’era eterno,
Fece parte de l’anno molto breve,
Aggiungendovi state, autunno, e verno,
Foco empio, acuti morbi, e fredda neve.
S’hebber gli huomini allhor qualche governo
Nel mangiar, nel vestire, hor grave, hor leve,
S’accommodaro al variar del giorno
Secondo ch’era ò in Cancro, ò in Capricorno.

Già Tirsi, e Mopso il fier giuvenco atterra
Per porlo al giogo, ond’ei ne mugghia, e geme.
Già il rozzo agricoltor fere la terra
Col crudo aratro, e poi vi sparge il seme.
Ne le grotte al coperto ogn’un si serra,
Overo arbori, e frasche intesse insieme.
E questo, e quel si fa capanna, ò loggia
Per fuggir sole, e neve, e vento, e pioggia.

Dal metallo, che fuso in varie forme
Rende adorno il Tarpeio, e ’l Vaticano,
Sortì la terza età nome conforme
À quel, che trovò poi l’ingegno humano,
Che nacque à l’huom si vario, e si difforme.
Che li fece venir con l’arme in mano
L’un contra l’altro impetuosi, e fieri
I lor discordi, ostinati pareri.

À l’huom, che già vivea del suo sudore
S’aggiunse noia, incomodo et affanno
Pericol nella vita, e ne l’honore,
E spesso in ambedue vergogna, e danno;
Ma se ben v’era rissa, odio, e rancore,
Non v’era falsità, non v’era inganno:
Come fur ne la quarta età più dura,
Che dal ferro pigliò nome, e natura.

Il ver, la fede, e ogni bontà del mondo
Fuggiro, e verso il ciel spiegaro l’ali:
E ’n terra usciro dal tartareo fondo
La menzogna, la fraude, e tutti i mali.
Ogni infame pensiero, ogni atto immondo
Entrò ne crudi petti de mortali;
E le pure virtù candide, e belle
Giro à splender nel ciel fra l’altre stelle.

Un cieco e vano amor d’honori, e regni
Gli huomini indusse à diventar tiranni.
Fer le ricchezze i già svegliati ingegni
Darsi à i furti, à le forze, et à gl’inganni,
À gli homicidij, et à mille atti indegni,
Et à tante de l’huom ruine, e danni,
Che, per ostare in parte à tanti mali,
S’introdusser le leggi, e i tribunali.

Ma quei ciechi desir non furo spenti,
Ch’erano già ne gli huomini caduti.
Die l’avaro nocchier la vela à i venti
Prima, che ben gli havesse conosciuti.
Gli arbori eccelsi ne’ monti eminenti
Per forza da gli artefici abbattuti,
E ridotti altri in asse, et altri in travi,
Si fer Fuste, Galee, Caracche, e Navi.

Ne fur molto securi i naviganti,
Ch’oltre l’orgoglio de’ venti, e de’ mari,
Molti huomini importuni, et arroganti
Sù varij legni diventar corsari.
La terra, già comune à gli habitanti,
Come son l’aure, e i bei raggi solari,
Fu fatta in mille parti; e posto il segno
Fra cittade, e città, fra regno, e regno.

Ne l’huom contento da la ricca terra
Trar le biade, e le sue più care cose,
Andando quanto più potea sotterra,
Cercò s’haveva altre ricchezze ascose,
E ritrovovvi il nervo de la guerra,
E de l’arme più dure, e perigliose,
lo dico il crudo ferro, e micidiale,
E l’oro più, che ’l ferro, empio, e mortale.

Scorta che fu la più ricca miniera,
E quel metallo poi purgato, e netto,
Se n’invaghiro gli huomini in maniera,
Che per lui fero ogni crudele effetto.
Di tu tant’empie cose empia Megera,
Falsa Erinni, Tesifone, et Aletto,
Voi tutte furie del regno di Dite,
Voi, che le ritrovaste, voi le dite.

Va ’l ricco peregrino al suo viaggio,
Ecco un ladro il saluta, il bacia, e ride,
E fingendo amistà, patria, e lignaggio
l’invita seco à cena, poi l’uccide.
Il cittadin, più cortese, che saggio,
Alberga con amor persone infide,
Che scannan poi per rubarlo nel letto
Lui, che con tanto amor diè lor ricetto.

Vede il genero, grave essere il seno
De la moglier, che sarà tosto madre;
E dando al ricco socero il veleno,
Toglie à la fida moglie il caro padre.
Un’ altro, la cui figlia il ventre ha pieno,
Con le sue mani insidiose, e ladre,
Dando al genero ricco occulta morte,
Fa pianger à la figlia il suo consorte.

Tra fratelli ogni amor si vede estinto
Nel partir la paterna facultade;
Vien dal proprio interesse ogn’un sì vinto,
Che spesso la dividon con le spade.
La matrigna crudel con viso finto
À l’incauto figliastro persuade
Che per suo ben l’occulto tosco pigli
Per veder poi più ricchi i proprij figli.

Chi potria dir l’ingiuriose note,
Ch’ogni dì nascon tra marito, e moglie?
Chi per goder la roba, e chi la dote
Cercando van come l’un l’altro spoglie.
Egli l’uccide il figlio, ella il nipote
Ella à lui, egli à lei la vita toglie.
Fa ricco ella il su’ amor d’ogni rapina,
Ei de la dote altrui la concubina.

Per nutrire il buon padre il dolce figlio
Fatica, e suda, e sforza la natura.
Spesso la vita sua mette in periglio;
Per dargli il pane, à la sua bocca il fura.
Poi ricco il face il suo savio consiglio,
E ’l figlio ingrato morte gli procura;
O rimbambito il finge, e di se fuore
Per goder senza lui del suo sudore.

S’accendon l’aspre, et horride giornate
Piene di sanguinosi alti perigli,
Che spingono à morir le genti armate
Sotto l’offese de’ lor fieri artigli;
Onde le donne afflitte, e sconsolate
Piangono i morti lor mariti, e figli,
E ’l fanciullin con l’angosciosa madre,
Resta senza governo, e senza padre.

Astrea, che con la libra, e con la spada
Conosce di ciascun l’errore, e ’l merto;
Poi che s’avide, che non v’era strada,
Da giugner con la pena al grande merto,
Se non rendeva per ogni contrada
Il mondo à fatto inutile, e deserto,
Pria che veder che ’l tutto si consumi,
Ultima andò fra i più beati Numi.

Venner poscia i Giganti, al mal sì pronti,
Che spregiando i bei doni de la terra,
Vollon gustar gli alti nettarei fonti,
E ’l maggior ben, che fra gli Dei si serra;
Onde osar metter monti sopra monti,
E farsi scala al ciel per far lor guerra,
Ponendo con la lor mirabil possa
L’un sopra l’altro Pelio, Olimpo, et Ossa.

Il figliuol di Saturno, che discorre
Un sì nefando, e sì crudel disegno,
E vedendo il pericolo, che corre
L’alta rocca del cielo, e ’l suo bel regno,
Al più dannoso fulmine ricorre,
E folgorando in quel lavoro indegno,
Fè, che quei monti equati à la pianura
Fur di quegli empi e morte, e sepoltura.

Ma la natura pia, che non consente,
Che quella stirpe sia stirpata à fatto,
Fà germogliar di novo un’altra gente
Del sangue loro in terra putrefatto,
Che fu l’idea d’ogni perversa mente,
E d’ogni opera ria norma, e ritratto;
Di sangue nacque, e ne fu tanto ingorda,
Che di sangue era ogn’hor macchiata, e lorda.

Ne fu contra gli Dei la più spietata,
Ne che il lor culto in più dispregio havesse.
Hor mentre il gran motor l’intende e guata
Sdegno degno di Giove il cor gli oppresse,
Et havendo la mensa scelerata,
E mille ingiurie ne la mente impresse
De l’empia Arcadia, con turbato ciglio
Fe chiamar gli altri Dei tutti à consiglio.

Una splendida via nel ciel riluce,
Candida sì, che dal latte s’appella;
La nobiltà del ciel vi si riduce,
La plebe alberga in questa parte, e ’n quella.
Questa è la via, la qual dritto conduce
À la corte real, superba, e bella.
Per questa via con pompa, e con decoro,
Gli Dei n’andaro al santo concistoro.

Assiso ogn’un nel suo bel seggio adorno,
E ne l’alto regale il sommo Giove,
Girando ei l’infiammate luci intorno
Mostrò d’haver cose importanti, e nove;
Crollando il capo altier, che d’ogn’ intorno
Il ciel, la terra, il mare, e i venti move;
Per far noto à che fin tutti raccolse,
La lingua irata in tai parole sciolse.

Non mi trovai più gravemente oppresso
Per le cose del mondo dal pensiero,
Nel tempo, che i Giganti sottomesso
Haveano tutto l’Artico hemispero,
E tutto il cielo in gran travaglio messo
Cercando opprimer noi col nostro impero,
Tentando con la forza, e con l’ingegno
Dar fine al nostro sempiterno regno.

Che se ben era l’inimico acerbo
Del corpo forte, e de l’animo insieme;
Pur tutto quell’indegno atto, e superbo
Nacque sol d’una origine, e d’un seme:
Solo una coppia al mondo hor ne riserbo,
Che la deità nostra adora, e teme;
Ogni altro, ovunque il Sol luce, e le stelle,
Per tutto il mondo à noi fatto è ribelle.

E per quell’acqua giuro, che m’astringe
A dover osservar le mie parole,
Per tutto, ovunque il mare abbraccia, e cinge,
Voler tutta annullar l’humana prole;
Che se necessitade à ciò ne spinge,
Una piaga incurabil se ben dole,
Con ferro, ò foco si recida, e netti,
Perche la parte sana non infetti.

Satiri, Semidei, Fauni, e Silvani
Non degni anchor de l’alto honor del cielo,
Fra spirti sì crudeli, e sì profani,
Come vivran’ sotto ’l terrestre velo;
Se me, che con le proprie invitte mani
Lancio l’ardente, e spaventoso telo;
Me, che dò legge à la celeste corte
Ha cercato un mortal condurre a morte?

Gran mormorio fra lor, gran romor nacque
Udita sì perversa intentione:
E tanto à cieschedun dolse, e dispiacque,
Ch’ogn’un cercò saperne la cagione,
Chi sì ne le mal’opre si compiacque,
Ch’osò d’usar sì gran prosuntione.
E dimostraro tutti à più d’un segno
Ver Giove gran pietà, ver lui gran sdegno.

Ma poi, ch’ei con la mano, e con la voce
Comandò, che ciascun tacendo, udisse;
Via più che mai terribile, e feroce
Ruppe il novo silentio, e così disse.
Lasciate andar, che del suo fallo atroce
Volli, che degna pena ei ne patisse;
Però, che li cangiai la forma, e ’l nome
Per suo supplicio. Et udirete come.

Quando mi venne per sorte à l’orecchio
L’horrenda che del mondo infamia suona;
Dal ciel discendo, e cercar m’apparecchio,
S’è ver tutto quel mal, che si ragiona.
Prendo human volto, e ’l mio sembiante vecchio
Lascio, e vò (non credendolo) in persona.
Qui saria lungo à darne il conto intero,
Che la fama trovai minor del vero.

Vidi cercando diversi paesi
Regnar per tutto la forza, e l’inganno.
Giunsi al fine in Arcadia, e quivi intesi,
Che v’era un crudelissimo Tiranno.
Ver le case spietate il camin presi,
Per voler riparar à sì gran danno;
Fei per gran segni noto al venir mio,
Ch’ io era in corpo human l’eterno Dio.

Gli spirti più sinceri, e più devoti
Già per tutto venian per adorarmi,
À mandar preghi, et à prometter voti
Per segni, che vedean mirandi farmi.
Nè far li potei mai sì chiari, e noti,
Che fede Licaon volesse darmi,
Anzi di me sì forte si ridea,
Che s’adombrò ciascun, che mi credea.

Poi tra se disse. io mi son risoluto
Voler di questo fatto esser più chiaro,
Se questo è Dio, ò pur qualche huomo astuto,
Che cerchi d’ingannare il vulgo ignaro:
M’invita seco à cena. io non rifiuto.
Perche ’l suo mal pensier gli costi caro,
Ch’era di darmi in quello stante morte,
Che ’l sonno à gli occhi miei chiudea le porte.

E non contento del mortal oltraggio,
Che ne la mente sua tenea celato,
Ucciso c’hebbe un’ infelice ostaggio,
Che pur dianzi i Molossi gli havean dato,
O per assicurarlo de l’homaggio
O per altro interesse del suo stato;
E ’n varie foggie quel cotto, e condito
L’appresentò nel funeral convito.

Io l’horrendo spettacolo vedendo,
Tutta di foco quella casa sparsi,
E gli Dei suoi familiari, essendo
Degni di maggior pena, accesi, et arsi.
Ond’egli sbigottito andò fuggendo
Dove meglio pensò poter salvarsi;
E dove il bosco ha più le parti ombrose
Più tosto, che poteo, corse, e s’ascose.

E volendo parlar seco, e dolersi
De la sua acerba, e meritata pena,
Subito in ululato si converse
La voce sua, d’ira, e di rabbia piena.
L’humano aspetto tosto si disperse,
Volse il corpo à la terra, al ciel la schena.
Il volto human si fe ferina faccia,
E piedi, e gambe, le mani, e le braccia.

Si fe d’un huom’, un lupo empio, e rapace
Servando l’uso de l’antica forma,
Che l’human sangue più che mai li piace,
De’ suoi vecchi desir seguendo l’orma.
Hor, per empire il suo ventre vorace
Serva nel gregge anchor la stessa norma,
Gli occhi ha lucenti, e guardatura fera,
La canicie, e ’l color come prim’era.

Solo una cosa ho spenta, hora à me pare,
Che s’havriano à mandar le cose uguali.
Perche per tutto, ove la terra appare,
Han preso imperio le furie infernali,
Pensate, che giurato habbian di fare
Gli huomini tutti i piu nefandi mali,
Si ch’ io condanno ogni mortale à morte,
Perche pari a l’error la pena porte.

La sentenza di Giove ogn’un conferma
Altri con cenni, et altri con parole,
E stan con fantasia stabile, e ferma,
Che splender debbia à novo mondo il Sole.
Pur’ à ciascun, che ’n quel pensier si ferma,
Sì general iattura incresce, e dole,
Che san, che ’l mondo esser non può perfetto
Privo de l’animal, c’ha l’intelletto.

Chi porterà (diceano) in nostro honore
Ne’ sacri altari gli odorati incensi ?
S’han forse à dare in preda al gran furore
Le città d’animali horrendi, e immensi ?
Lasciate andar, c’ho questa cosa à core,
Rispose Giove, e non sia chi ci pensi,
Con mirabile origine io fo stima
Far gente assai dissimile à la prima.

Co’ suoi folgori ardenti allhora allhora
Giove distrutta havria tutta la terra:
Ma tanti fochi ben poteano anchora
Ardere il cielo, e ruinarlo à terra.
Sa ben, che ’l tempo ha da venire e l’hora,
Che ’l foco à tutto ’l mondo ha da far guerra,
E consumar con le sue fiamme ardenti
La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

Da parte tosto ogni pensier si mette,
Che d’intorno à l’incendio il cielo havea,
E si ripongon tutte le saette
Che fa Vulcan ne la montagna Etnea.
In quanto al modo, ogni Dio si rimette
A quel, ch’occulto anchor Giove tenea,
Che fu contrario al primo, e à tutti piacque
Di nasconder la Terra sotto l’acque.

Fa dire ad Eolo la corte superna,
Che vuol la terra à l’acqua sottoporre.
Egli, che i venti à suo modo governa,
E ch’à sua posta gli può dare, e torre,
Rinchiude Borea in una sua caverna,
Et ogni vento, che la pioggia abhorre,
E l’Austral manda fuor, ch’è detto il Noto,
Che per molti suoi segni à molti è noto.

Con l’ali humide sue per l’aria poggia;
Gl’ingombra il volto molle, oscuro nembo.
Dal dorso horrido suo scende tal pioggia,
Che par, che tutto ’l mar tenga nel grembo.
Piovon spesse acque in spaventosa foggia
La barba, il crine, e ’l suo piumoso lembo.
Le nebbie ha in fronte, i nuvoli à le bande
Ovunque l’ali tenebrose spande.

Quando con l’ali egli dibatte, e scuote
Le nubi intorno, e fra le palme preme,
Un strepito, un romor l’aria percuote,
Che par, che l’aria, e ’l ciel s’urtino insieme.
Vien giù la pioggia più spessa che puote;
L’aria percossa ne borbotta, e freme.
Arbori spoglia, et herbe atterra, e biade
Dove la pioggia ruinosa cade.

Il misero villan, ch’ intorno mira
Venir dal cielo il non pensato danno,
Con intenso dolor piange, e sospira,
Che perde il suo lavor di tutto l’anno.
L’arco incurvato suo carica, e tira
La nuntia di Giunon, che quando vanno
L’aria offuscando i più torbidi venti,
Porge à le nubi i debiti alimenti.

E non bastando il mal, che à basso infonde
Il ciel, continuo, ch’ogni cosa atterra,
Nettuno con le sue mortifer’onde
Contra il terren prepara un’altra guerra.
Perche più facilmente lo sprofonde,
Gli dei chiamò de l’acque de la terra,
E lor disse in parlar rotto, et altero,
Il giusto de gli Dei sdegno, e pensiero.

So ben, che non bisogna ch’io v’essorti
(Disse) ad empir la volontà di Dio,
Che vuol, che tutti gli huomini sian morti
Sotto il potente, et ampio imperio mio.
Hor vi mostrate impetuosi, e forti
A ruina del mondo infame, e rio;
Hor vedrò, con che cor ciascun si move
Per ubidire il suo signore, e Giove.

Com’egli ha detto, si torna ogni fiume,
E rompe à l’acque ogni riparo, e bocca.
Percote col tridente il marin Nume
L’afflitta terra, et à pena la tocca,
Che trema tanto fuor del suo costume,
Ch’ in sì gran moto il mar crudel l’imbocca,
Trema, e par ben, che in precipitio cada,
E d’inghiottirla al mar s’apre la strada.

Corrono al mar con furia i fiumi alteri
Di tanta altezza lor gonfiati, et empi,
E traggon seco imperiosi, e feri,
Arbori, et animali, e case, e tempi.
Ruinan’ i palazzi interi interi,
Quel che mai non poter tanti anni, e tempi,
E s’alcun restò saldo come prima
Gli coprì l’acqua l’elevata cima.

Questo e quel fiume tanto, e tanto ingrossa,
Che al fin congiungon le parti supreme,
E fanno di molt’acque un’acqua grossa
Per gire in una massa unite insieme.
Van con tanta arroganza e con tal possa,
Che ’l mar sdegnato le ribatte, e preme.
Esse con tal furor urtan, che pare
C’habbian fatta una lega contra il mare.

Nel mare in quell’incontro entrano i fiumi
Ne’ fiumi il mare, e rotta horrenda fassi,
Prevale al fine il mare, onde i cacumi
De gli alti monti ogni hor si fan più bassi.
Escon le fere de gli hispidi dumi,
E gli huomini di casa afflitti e lassi,
E ’n cima al monte patrio se ne vanno,
E ’ntorno intorno assediati stanno.

Stansi piangendo il lor crudel destino
E l’acqua tuttavia cresce et abonda.
Han grande invidia à l’Alpi, e à l’Apennino,
Che par che poco anchor teman de l’onda.
Superbo in tanto il gran furor marino
Gli huomini, gli animali, e ’l monte affonda.
Nuota il lupo fra capre, e fra montoni,
E gli huomini fra tigri, e fra leoni.

Non vale à l’huomo il suo sublime ingegno,
Nulla giova al leone esser feroce,
Non à Signori haver’ imperio, e regno,
Poco rileva al cervo esser veloce,
Che ’l furore implacabile, e lo sdegno
Del mare à tutti parimente noce.
Van fra gli arbori i pesci ne le selve,
Già nidi, e tane d’augelli, e di belve.
Molti fuggiti in qualche monte alpestre,

In torre, ò rocca van correndo à porsi,
Cercando al mar con le lor proprie destre
Con infiniti mezzi contraporsi.
Rompe l’onda sdegnata usci, e fenestre,
Ch’al fermo suo voler cercano opporsi;
E batter quella rocca mai non cessa
In fin che non l’ha presa, e sottomessa.
L’afflitto montanar col figlio in braccio

Di casa fugge, e maggior monte sale:
L’acqua l’incalza, e già v’è dentro un braccio.
Sopra un’arbore monta, e si prevale:
L’acqua ancho il giunge. ei si sostien col braccio
Al più supremo ramo, e non gli vale,
Che soverchiano al fin le tumide onde,
Quel monte altier, quell’elevata fronde.
Le navi, che solean per l’alto mare

Andar solcando il lor noto viaggio,
Hor sopra terra si veggon portare
Sopra questa cittade, e quel villaggio:
E non è lor possibile contrastare,
À tanto, e non mai tal provato oltraggio;
L’onda è si grossa, il vento è tanto grave,
Che forza è, che perisca ogni gran nave.

Hor come dunque i miseri mortali
Poteano in tanto mar notando aitarsi?
Come poteano i più forti animali
Varcar tant’alto pelago, e salvarsi?
Si tenne un tempo il vago augel su l’ali
Cercando arbore, ò terra ove posarsi,
E stanco al fin lasciò nel mar cadersi,
Che tutti altri animali havea sommersi.

Era gia ’l mare à tanta altezza giunto,
Che superava ogni superbo monte:
E per tutto era il mar col mar congiunto;
Fatto era mare il lago, il fiume, e’l fonte.
Il mar potea vedersi in ogni punto
Bagnare intorno intorno ogni Orizonte.
Tutto ’l mondo era mar per ogni sito,
Ne’l mare havea da verun lato lito.

Se i nuvoli, e le nebbie folte, e nere,
Non t’havesser celato Apollo il volto:
Come havresti sofferto di vedere
Il mondo, à cui tu splendi in mar sepolto?
Havresti il pianto potuto tenere?
Non haveresti il carro altrove volto?
Ma tu, per non veder caso si duro,
Ti velasti d’un nembo così scuro.

Ditemi, havete voi frenato il pianto
Nereide, e voi maritimi divini,
Vedendo l’human seme tutto quanto
In bocca d’Orche, e di mostri marini?
Et ogni luogo sacro, e tempio santo
Ricetto di Balene, e di Delfini?
Che dovea fare in voi vista si tetra,
S’hor da chi non la vide, il pianto impetra ?

Fra gli Attici, e gli Aonij un monte siede,
Che con due sommità s’erge à le stelle,
La cui cima à le nubi soprasiede,
Ne teme l’oltraggiose lor procelle;
Due quivi alme arrivar, d’amor, di fede,
E d’ogni altra virtute ornate, e belle:
Ch’ in una piccioletta, e debil barca
Scelse, e salvò fra tutti il gran Monarca.

Il figliuol di Prometheo, io dico quello,
Che sol con la consorte era rimaso,
Sommerso ogn’altro dal marin flagello
Dal Borea à l’Austro, e da l’Orto à l’Occaso.
Tosto, che s’accostò col suo battello
À la cima del monte di Parnaso,
Le Coricide Ninfe, e Themi adora,
Che l’oracol tenea de’ fati allhora.

Più giusto huom mai non fu, ne più leale
Di quel, che solo allhor fuggì la morte;
Ne più religiosa, e spiritale
Donna, de la prudente sua consorte.
Giove, che dal celeste tribunale
Scorse tutte le genti esser già morte,
E ’l viver solo à due corpi permesso,
Uno de l’un, l’altro de l’altro sesso;

Trovandogli ambo fidi, ambo innocenti,
Ambo d’ogni virtù nobile ornati,
Fè per l’aria soffiar gli Artici venti,
Da cui fur tutti i nuvoli scacciati.
Rasserenati tutti gli elementi,
Ch’eran lunga stagion stati offuscati,
Mostrò la terra al mondo de le stelle,
Et à la terra le cose alte, e belle.

Il gran Rettor del pelago placato,
L’ira del mare in un momento tronca,
Fà, che ’l trombetta suo Triton dà fiato
À la cava, sonora, e torta conca.
Al suono altier da tal tromba spirato
Non può risponder concavo, ò spelonca;
Ma rompe in modo l’aria, e con tal volo,
Che ne rimbomba l’uno, e l’altro polo.

Sparto c’hebbe Triton l’horrendo suono,
Che vuol, che à i luoghi lor ritornin l’acque,
Ch’ insieme, dolci, e salse unite sono,
Fer tutti quel, che al Re de l’onde piacque.
Si mise ogni acqua in corso, e in abbandono
Fin, che nel primo suo letto si giacque.
Già l’onda tuttavia manca, e discresce,
E, secondo che manca, il terren cresce.

Il noto lito già percoton l’onde
Del mar, che poco cura uscirne fuore.
Ogni fiume ha da i lati argini, e sponde,
Alte per l’ordinario suo furore.
Se vivessero quei, che ’l mare asconde,
Saria resa la terra al primo honore.
Standosi adunque muta in ogni canto,
Così l’huom ruppe l’aria, in voce, e ’n pianto.

O Pirra, ò mia sorella, ò mia consorte,
O donna da gli Dei sola salvata,
O sola à me di sangue, e d’un più forte
Nodo d’affinità giunta, e legata,
O sola, à cui m’unisce hor l’empia sorte,
Ch’in noi l’humana spetie ha riservata,
Ecco hor noi siam tutta l’humana prole,
E dove nasce, e dove more il Sole.

Noi tutto ’l popol, noi tutta la gente,
Di tutto ’l mondo siamo insieme unita,
Ben che anchor l’aria mi turba la mente,
Ne siam molto securi de la vita,
Deh che faresti misera, e dolente,
Se fossi senza me dal mar fuggita?
Come sola il timor discacceresti?
Chi ti consoleria? dove n’andresti?

Sappi pur certo compagnia diletta,
Che se l’onda ver noi cruda, et avara,
Havesse anchor di te fatto vendetta,
E me lasciato in questa vita amara,
lo ti seguiterei con quella fretta,
Laqual ricercheria cosa sì cara,
Anch’ io mi gitterei nel mar profondo,
Per non star sol nel desolato mondo.

Sapessi almen con la mirabil arte
L’huom di terra formar, del padre mio,
E dargli l’alma, e riparare in parte
Quel, che morrà, se tu ti muori, et io.
Hor siam de l’huomo essempio in ogni parte,
A i monti, à i boschi, à gli elementi, e à Dio;
Et odon solo i nostri alti lamenti,
Le rive, i sassi, le campagne, e i venti.

Miseri, che farem noi soli in terra?
Già non potremo habitar noi per tutto.
Come empieremo il mondo, che la terra
Non renda in vano il suo pregiato frutto?
Come farassi, quando andrem sotterra,
Ch’ella non resti desolata al tutto?
Qual luogo habiteremo, ò quello, ò questo,
Che non lasciam dishabitato il resto?

Voi, che non mai con mille, e mille ingegni
Nel volere acquistar spuntaste avante,
Voi, che per farvi ricchi, agiati, e degni,
Vedeste hora il Ponente, hora il Levante,
Voi, che per possedere imperij, e regni,
Havete fatte tante guerre, e tante;
Che fate, ahi lasso, perche non correte
À farvi hor quella parte, che volete?

Fermò ’l parlare, havendo cosi detto,
Ma non potè fermar l’immenso pianto;
Straccia la Donna il crin, percote il petto,
Di lagrime spargendo il viso, e’l manto:
E s’è lo spirto in modo in lei ristretto,
Che non puote formar parola intanto,
Piange, e stà muta, e ’l fido sposo abbraccia,
E non sà che si dica ò, che si faccia.

Conchiudono ambo al fin che si ricorra
À l’oracol celeste per aiuto,
Pregandol, che risponda, e lor discorra
Come han da racquistar quel, ch’han perduto.
Non havendo altra via, che à ciò soccorra,
Se ne vanno al Cefiso, che venuto
Se n’era già ne le sue note sponde,
E di mondar ne l’anchor torbide onde.

Sparti de l’acqua il capo, e ’l vestimento,
Al tempio van de la divina Theme,
Dove il loto ascondea di fuori e drento
E le pareti, e le parti supreme.
Stassi ne’ sacri altari il foco spento,
Giunti ivi s’inchinaro à terra insieme,
E poi c’hebber baciato il freddo sasso,
Incominciar con suono afflitto, e lasso.

Se mai posson del ciel mitigar l’ira
I giusti preghi de’ mortali in parte,
Il modo in noi Themi fatale inspira
Da riparar l’humana specie, e l’arte.
A le cose del mondo attendi, e mira,
Che son tutte sommerse in ogni parte.
La Dea si mosse à la giusta proposta,
Dando à l’intento lor questa risposta.

Del tempio uscite, e discinte c’havrete
Le vesti intorno, le tempie velate;
De la gran Madre poi l’ossa prendete,
E quelle dietro à le spalle gittate.
Stero un gran pezzo stupefatte, e chete
Quell’anime trafitte, e sconsolate:
Parla al fin Pirra, e nega che s’adempia
La risposta fatal, crudele, et empia.

Perdonami, dicea, sublime, et alma,
Immortal Dea, se ben non mi son mossa
Ad ubidir, che temo offender l’alma
De la gran madre mia gittando l’ossa.
Pianger non cessa, e batter palma a palma,
Ch’altro non sa che più giovar le possa.
Pur ripensando al dir de gli alti Dei,
Cosi Deucalion parlò con lei.

Pirra l’opinion tua di molt’ erra,
Se, che l’Oracol ne comandi, credi,
Che con le putride ossa homai sotterra
Crear dobbiamo al mondo i novi heredi.
Io so che la gran madre è la gran terra;
Son l’ossa sue le pietre, che tu vedi.
Ne pensar posso, che l’Oracol falle,
Se quest’ossa gittiam dietro à le spalle.

Ben che la donna confortasse alquanto
Quel, che ’l marito suo detto l’havea,
E se ben fu quel senso fido, e santo,
Non però fermamente si credea:
Pur s’accordaro di provarlo in tanto
Ch’altro à la mente lor non occorrea.
E se ben parea lor cosa alta, e nova:
Che nocer potea lor farne la prova?

Escon del tempio, e si bendan la fronte,
Indi ciascun di lor scinto, e disciolto,
Gli spessi sassi, che produce il monte,
Getta à la parte, ove non guarda il volto.
Io dirò cose manifeste, e conte,
Nè forse mi sarian credute molto,
Dicendo quel, ch’ogni credenza eccede,
Se non ne fesse il tempo antico fede.

I sassi sparti per piani, e per colli
Secondo la fatal prefissa norma,
Deposta la durezza, e fatti molli,
Cominciaro à sortire un’altra forma.
Già si scorgono e capi, e braccia, e colli,
E d’huomini imperfetti una gran torma,
Simili à i corpi ne i marmi scolpiti,
I quai siano abbozzati, e non finiti.

L’humida herbosa lor parte terrena
Cangiossi in carne, in sangue, in barbe, e ’n chiome.
E quella, che ne’ sassi è detta vena,
Tenne in quest’altra forma il proprio nome.
Le parti di più nervo, e di più lena,
Diventar nervi, et ossa, e non so come.
Prese ogni sasso quel divino aspetto,
C’ha il senso esteriore, e l’intelletto.

E come da gli Dei lor fu concesso,
I sassi, che da l’huom furo gittati,
Tutti sortir faccia virile, e sesso.
Fur tutti gli altri in donne trasformati.
Ben ne facciamo esperienza adesso,
Da che duri principij siamo nati.
Perciò siam forti à le fatiche, e pronti,
Che siam nati di sassi in aspri monti.

Cosi ripieno fu d’huomini il mondo,
Che del loco natio fer poca stima:
Girar fra i Poli, e l’Equinottio il tondo,
Fin c’habitaro ogni paese, e clima.
Al terren, più che mai lieto, e fecondo
Mancava ogni animal, che v’era prima:
E quelli ad uso de l’humana gente
La terra partorì spontaneamente.

Che poi che riscaldò Febo il terreno,
C’havea renduto dianzi humido il mare,
E concepì nel suo fecondo seno
La terra la virtù del generare:
L’humido, e ’l caldo, temperate à pieno
Le parti ove volean l’alme informare,
Fer, che la terra parturì per tutto
Questo, e quello animale, il bello, e ’l brutto.

Come quando le sette altere corna
Unisce il Nilo, e ’l suo paese inonda,
Tosto che nel suo letto antico torna
E và lavando la sua ricca sponda:
Fa d’animali assai se stessa adorna
La terra, aitata dal Sole, e da l’onda,
Ecco una fera intera, una imperfetta,
Mezza n’è viva, e mezza è terra schietta.

E se ben l’acqua, e’l foco son discordi,
Posson l’humido e ’l caldo unirsi insieme:
E fatti amici, temprati, e concordi,
Fan gravida la terra del lor seme.
E se ben questo à quel par, che discordi,
E sempre l’un l’altro contrario preme,
Con la discorde lor concordia fanno,
Che nascon gli animai, vivono, e vanno.

E non sol rinovò l’antiche sorti
De gli animali à se stessa la terra,
Ma spaventosi mostri, immensi, e forti,
Ch’infinito animal cacciar sotterra;
Ma più da te ne fur feriti, e morti,
E n’hebbe tutto ’l mondo maggior guerra,
Da te crudel Piton serpente ignoto
Che quasi il mondo ritornasti voto.

Come una gran montagna era eminente,
E nero d’un color, come d’inchiostro:
Una grossa colonna era ogni dente,
E n’havea tre corone intorno al rostro:
Sembrava ogni occhio una fornace ardente
Ogni membro, che havea, tenea del mostro.
Febo al mondo levò sì grave incarco,
Votando la faretra, oprando l’arco.

L’arco, che solo in cervi, in caprij, e ’n dame,
Dal biondo Dio fu ne le caccie usato,
Forò la pelle, e quelle dure squame,
Onde il mostro crudel tutto era armato.
E così Febo quella ingorda fame
Spense, che ’l mondo havria tutto ingoiato.
Et ucciso che l’hebbe, si disperse,
E come prima in terra si converse.

E, perche ’l tempo ingordo non s’ingegni
Tor la memoria di sì degna offesa;
Più giochi instituì celebri, e degni,
Per l’età giovenil nobil contesa.
Chiamolli Pitij, e diè premij condegni
Al vincitor d’ogni proposta impresa,
Che per l’immense, e più lodate prove
Si coronava de l’arbor di Giove.

Colui, che più veloce era nel corso,
Il premio havea de l’arbore, e l’honore.
E se col carro alcun meglio havea corso,
Il medesmo ottenea pregio, e favore.
Chi con più forza, destrezza, e discorso,
Restava ne le lotte vincitore,
Cingea di quelle frondi il capo à tondo,
Ch’ancor non era il verde alloro al mondo.

Apollo allhor d’ogni arbor, d’ogni sorte
Ornò le belle tempie, e ’l suo crin d’oro,
Fin che ’l suo primo amor non fe di sorte,
Che nacque al mondo il sempre verde alloro.
E non fu l’empia, e dispietata sorte,
Che ’l fece entrar ne l’amoroso choro;
Ma sdegno, onde lo Dio d’amor s’accese,
Per l’arroganza, che d’Apollo intese.

Lieto Apollo sen’ gia, gonfio, e superbo,
D’havere ucciso il mostro horrendo, e crudo,
Et incontrato in quel garzone acerbo,
Contra il cui stral non vale elmo, ne scudo,
Vedendogli incurvar le corna, e ’l nerbo
À l’arco, e gir con tanta audacia ignudo,
Si tenne à grande ingiuria, à grande incarco,
Che sì fiero, et altier portasse l’arco.

Et à lui disse. Lascivo fanciullo,
Che vuoi tu fare ò di saette, ò d’archi?
Che sei nel mondo un gioco, et un trastullo,
À quei, che di pensier son voti, e scarchi.
Io quello hor son, ch’ogni valore annullo
À ciascun, che quest’arme adopri, e carchi,
Ch’ in altro spender sò le mie saette,
Ch’ in ferir garzoncelli, ò giovinette.

À me sta ben usar l’arco, e lo strale,
Che so con esso far più certa guerra,
Far piaga più secura, e più mortale,
E cacciar l’aversario mio sotterra.
Trovai pur dianzi il più fero animale,
Che si vedesse mai sopra la terra.
E fu quest’arco poderoso, e forte,
Ch’à Febo diede fama, al mostro morte.

Leggier fanciul con la tua face attendi
Ad infiammare i più lascivi cori,
Con quella ne i tuoi servi imprimi, e accendi
Non so che vani tuoi scherzi, et amori;
De l’arco nulla, over poco t’ intendi,
Tutti i pregi son miei, tutti gli honori.
Lo Dio d’Amor così punto, e schernito,
Disse à lui, più che mai fiero et ardito.

Vaglia con fere pur l’arco, che mostri,
Che ’l mio val contra te, contra ogni Dio,
E quanto à gli alti Dei cedono i mostri,
Tanto è minore il tuo valor, che ’l mio.
Quest’arco, acciò che meglio io te ’l dimostri
Farà di tanto ardir pagarti il fio.
E spiegò ratto le veloci penne,
E nel monte Parnaso il vol ritenne.

De la risposta sua maggior faretra
Due strali sceglie di contrario effetto,
Questo sprona ad amare, e quello arretra,
Infiamma l’uno, e l’altro agghiaccia il petto.
Questo fa l’huom di foco, e quel di pietra,
Perc’hanno questo, e quel contrario obietto.
È d’or quel, ch’ad amare inchina, e sforza;
Di piombo quel, ch’ogni gran foco ammorza.

Torna con le nove armi à la vendetta,
E trova il biondo Dio non meno altero.
Tosto l’aurato stral tira, e saetta
Il core al forte et oltraggioso arciero.
Poi gli mostra una vaga giovinetta,
Che gl’imprime nel cor novo pensiero:
Lo stral di piombo allhor da l’arco scaccia,
E ’l cor di quella ninfa indura, e agghiaccia.

Dafne, figlia à Peneo, fu l’alma, e bella
Ninfa, che allhor solinga se ne giva,
E cercando imitar Diana, anch’ella
Fu de l’huom sempre mai nemica, e schiva.
Molti, e molti cercar per moglie havella
Per l’immensa beltà, che’n lei fioriva:
Gli amori ella, e i connubij dispregiando,
Sen’ giva à caccia per le selve errando.

Contenta hor questa, hor quella fera piglia
Ne i boschi più selvaggi, e più remoti.
Spesso il padre le disse, ò cara figlia
Gia da te spero e genero, e nepoti.
Proterva ella al contrario si consiglia
Servare i casti suoi pensieri, e voti;
Come fosse il connubio un grave eccesso,
Conoscer non volea l’ignoto sesso.

Sparsa le guancie di color di rose,
Il collo al padre dolcemente abbraccia,
E con parole sante, e vergognose
Disse. Deh padre mio dolce vi piaccia
Che casta io possa per le selve ombrose
De la triforme Dea seguir la traccia;
E non vi paia tal richiesta strana,
Che già il concesse il suo padre à Diana.

Vivi pur figlia mia vergine, e casta,
Le disse il padre; ma veggio in effetto,
Che al desiderio, c’hai troppo contrasta
Cotesto vago tuo leggiadro aspetto.
Febo l’ama, e la mira, e non gli basta,
Vorria sposarla, e far comune il letto,
La spera, e ne compiace à i desir sui,
Ma gli oracoli suoi mentono à lui.

Come l’arida stoppia accende il foco,
Ó secca siepe, e manda in aria il vampo,
Comincia in una parte, e à poco à poco
Rinforza intorno, e rende maggior lampo;
Si sparge al fin l’incendio in ogni loco,
E tien tutta la siepe, e tutto ’l campo:
Così il foco di Apollo al cor ridutto,
Al fin si sparse, e l’infiammò, per tutto.

Vede à la Ninfa inculti i suoi crin d’oro,
E che sarian (disse egli) essendo ornati,
Raccolti in qualche vago, e bel lavoro,
Fra gemme, et oro, in piu fogge intrecciati?
Loda la maestà, loda il decoro,
De’ santi modi suoi leggiadri, e grati,
Ma più quel vago lume il tira, e alletta,
Onde il folgora amor sempre, e saetta.

D’ogni parte del viso adorna, e piena
Di gratia, e di beltà, diletto prende.
Di speme il pasce l’aria sua serena,
E la benignità, ch’ivi risplende.
Loda la dolce bocca, e duolsi, e pena,
Che i frutti suoi non prova, e non intende.
Le braccia mezze ignude ammira, e quelle
Parti, che ascose son, crede più belle.

Vede l’accorta Ninfa il bello Dio,
Che così intento, e fiso la riguarda,
E perche ha ’l cor contrario al suo desio,
Prende una fuga subita, e gagliarda:
Ma non sì tosto il corso i piedi aprio,
Che la mossa di lui non fu men tarda.
Fugge ella, ei segue, e ’n queste dolci note
Le parla, nè perciò fermar la puote.

Deh non fuggir, vaga fanciulla, e bella
Dal gaudio d’ambedue, dal piacer nostro,
Come fugge colomba, ò tortorella
De l’Aquila crudel, l’artiglio, e ’l rostro,
Come dal lupo la timida agnella,
Come si fugge un spaventoso mostro:
Ben’ e’l dover, se’l nemico si fugge,
Ma non chi per amor segue e si strugge.

Guarda quei pruni, oime, ferma i tuoi passi,
Che non t’ involin l’aureo sparso crine.
Oime s’in qualche tronco t’ intoppassi
Fra sì precipitose, alte ruine,
Et io fossi cagion, che dirupassi,
Per aspri scogli, e fra pungenti spine,
Qual mal potrei trovar sì duro, e forte,
Che potesse ad un Dio porger la morte ?

Deh non gir sì veloce, et habbi mente
Se qualche acuta spina in terra siede,
Che con la punta sua dura, e pungente,
Non fesse oltraggio al tuo tenero piede,
Ó serpe, ò d’altro, insidioso dente,
Che s’asconde fra l’herba, e non si vede.
Và Ninfa và, con passo men gagliardo,
Et anchor’io ti seguirò più tardo.

Cerca, e discorri, à cui non porti amore,
Chi fuggi, e chi sia quel, di cui paventi.
Io non son montanar, non son pastore,
Non guardo rozzo qui gregge, od armenti:
Deh volgi un poco à me la fronte, e ’l core,
Tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti,
Non sai stolta, non sai chi fuggi; e credi
Forse molto veder, ma nulla vedi.

Huom terrestre io non son, ma dio del cielo,
Ben che’n terra ho domino illustre, e raro;
Che son signor di Tenedo, e di Delo,
E di Delfo, e di Patara, e di Claro:
Toglio à la notte il tenebroso velo,
E rendo al mondo il dì splendido, e chiaro.
Quel ch’è, ciò che già fu, quanto poi fia,
Si può saper per la scientia mia.

Io son figliuol del sommo Giove, e sono
Quel, che incordando i nervi al cavo legno,
Rendo col canto mio sì dolce tuono,
Che rompo, e placo ogni rancore, e sdegno.
E s’hora havessi il plettro, e al suo bel suono,
Potessi ’l canto unir, forse che degno
Faresti me, ch’ io ti mirassi alquanto,
Vinto dal vario suon, dal dolce canto.

Non si trova ferir più fermo, e vero
De l’arco mio, ne più certa saetta.
Anzi m’ ha vinto un più sicuro arciero,
Che da’ begli occhi tuoi fere, e saetta;
Ho ne la medicina il sommo impero,
La gran virtù de l’herbe è à me soggetta;
Oime non vaglion’ herbe à l’amor mio,
Nè quel, che giova altrui, giova al suo Dio.

Che cosa più crudel, giovar mi puote
Se ’l giusto priego mio non può fermarti?
Non l’amor mio, non le dolenti note,
Non mille, e mille mie lodate parti;
Ma quanto più il mio duol l’aria percote,
Tanto più fuggi, e men posso arrestarti.
Nè giovar ponno à le mie piaghe acerbe
Regni, fati, beltà, canto, arco, et herbe.

Al fin l’innamorato Dio s’accorge,
Ch’ella non vuol, che ’l suo parlar conchiuda:
Tace, e la mira, e più bella la scorge,
Che ’l corso fa, ch’ella arrossisce, e suda:
Gonfia il vento le vesti, e manca, e sorge,
E mostra hor questa, hor quella parte ignuda.
L’aura, che al corso suo contraria spira,
La chioma alzata in aria apre, e raggira.

Visto che hor più vago il divo aspetto
Cresce à la Ninfa, e ch’ascoltar non vuole,
Non può soffrir l’acceso giovinetto
Di gittar più lusinghe, e più parole:
Il cuoce in modo il foco, c’ ha nel petto,
Che non par piu che corra, ma che vole;
E per l’ultimo suo maggior soccorso,
Come gli mostra Amor, ricorre al corso.

Tal, se tal’hor la lepre al veltro innanzi
Si stende al corso in ben’ aperto campo,
Ch’ei corre ove correva ella pur dianzi,
Co’ piè l’un cerca preda, l’altra scampo:
E, perche l’aversario non l’avanzi,
Questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo,
Già il can la piglia, e par che l’habbia in bocca
Ella è in dubbio s’ è presa, ei non la tocca.

Così Febo, e la vergine fugace,
Fan, questo sprona amor, quella timore.
Al fin chi segue tiranno, e rapace,
Forse aiutato da l’ali d’Amore,
Nel corso è più veloce, e pertinace.
Gia il rispirar, che dal corso è maggiore,
Soffia nel crin de la Ninfa già stanca,
À cui la forza, e la prestezza manca.

Mirando sbigottita il patrio fiume
Disse piangendo. Ó mio benigno padre,
S’è ver, che i fiumi habbian potere, e nume,
Toglimi tosto a le mani empie, e ladre.
Terra, che tutto produci, e consume,
Terra, ch’ à tutti sei benigna madre,
Questa, onde offesa son, bramata forma
Inghiotti, ò in altro corpo la trasforma.

Volea più dir; ma di tacer la sforza
Novo stupor, che tutto il corpo prende,
E fallo un corpo immobil senza forza,
Che non ode, non vede, e non intende.
La cinge intorno una novella scorza,
Che dal capo à le piante si distende.
Crescon le braccia in rami, e’n verdi fronde
Si spargon l’agitate chiome bionde.

Il piè veloce s’appiglia al terreno,
E con radice immobil vi si caccia:
La sommità del novo arbore ameno
Tenne la grata sua leggiadra faccia.
Servò sol lo splendore almo, e sereno,
Che vuol, ch’à Febo anchor quest’arbor piaccia:
Dubbioso il tocca, e trova con effetto,
Tremar sott’altra scorza il vivo petto.

E ’ncontrando le mani intorno al legno
L’abbraccia come fosse un corpo humano,
Il bacia, ma del bacio fugge il segno
L’arbore, che ’l risolve, e ’l rende vano.
Gli parla, e dice; Arbore eccelso, e degno
Dapoi, che sposa io t’ho bramata in vano,
Tu sarai l’arbor mio, tu la mia cetra,
Tu la chioma ornerai, tu la faretra.

Tu cingerai l’invitto capo intorno
A i sommi trionfanti Imperatori
In quel festivo, e glorioso giorno,
Che i merti mostrerà de i vincitori;
E ’l Tarpeio vedrà superbo, e adorno
Le ricche pompe, e trionfali honori.
Le porte auguste ornerai di ghirlande
Havendo incontro l’honorate ghiande.

Le bionde giovinil mie lunghe chiome
Non mai da ferro, ò man tronche, ò scorciate,
De le tue frondi, e del tuo laureo nome
Andran mai sempre alteramente ornate.
I sommi rami suoi fer cenno, come
De l’arbor capo esser’ accette, e grate
Le sue larghe promesse più, che prima,
Chinando spesso la cortese cima.

Ha l’Emonia una valle ampia, et amena,
Cinta intorno di selve alte, et ombrose,
Che è detta Tempe, dove in giro mena
Il Peneo l’onde sue torte, e spumose;
E di tal nebbia tien l’aria ripiena,
Ch’avanza l’alte selve, e tienle ascose;
E ’l suo gran mormorar tanto si stende,
Ch’ intorno più, che i suoi vicini offende.

Qui di spugnosi sassi è l’alta sede,
E l’antro opaco del potente fiume:
Dove à dar leggi à l’onde altier risiede,
Et à le Ninfe, c’ han l’onde per nume.
Ogni fiume che à lui propinquo siede,
Venne à servar l’antico suo costume,
Dubbij tra lor di quel, c’haveano à farsi,
O da dolersi seco, ò d’allegrarsi.

Fra l’adorne di pioppi ombrose sponde
Vi vien lo Sperchio, e l’Enipeo inquieto,
L’Apidan’ vecchio con le sue fredde onde,
E l’Anfriso piacevole, e quieto;
Et altri, et altri ne vennero altronde
Per far quell’atto fra doglioso, e lieto.
E fer con dignitade, e con decoro
Quel, che s’apparteneva al caso, e loro.

Inaco sol restò, ch’ivi non venne,
E mancò sol di quel, che far dovea:
Onde imputato da qualch’un ne venne,
Che ’l suo grande infortunio non sapea.
Di far sì degno ufficio lui ritenne
Una sua figlia che perduta havea,
Per cui ne l’antro suo chiuso si giacque,
Forze acquistando col suo pianto à l’acque.

Tien per trovarla ogni modo, ogni via,
E più, che n’ investiga, men ne sente;
Ne può pensar, ch’ in alcun luogo sia,
Ne che dimori fra l’humana gente,
Poi che luogo non trova dove stia,
In qual si voglia Occaso, et Oriente.
Io, nome havea la fanciulla, e per frodo,
Fu trafugata al padre à questo modo.

La vide un dì partir dal patrio speco
Giove, e disse ver lei con caldo affetto;
O ben degna di me, chi fia, che teco,
Vorrai bear nel tuo felice letto?
Deh vienni ò Ninfa fra quest’ombre meco,
Che fian hoggi per noi dolce ricetto,
Mentre alto è ’l Sol, che ’l suo torrido raggio
Non fesse à tal beltà noia, et oltraggio.

E se qualche animal nocivo, e strano
Temi, che non t’offenda, ò ti spaventa,
Non temer, che quel Dio vero, e soprano,
C’ha lo scettro del Ciel, mai gliel consenta,
Quel Dio, che con la sua sicura mano
Il tremendo dal Ciel folgore aventa,
Non fuggir Ninfa me, che son quell’io,
Del Ciel signore, e folgorante Dio.

Fugge la bella Ninfa, e non ascolta:
Ma Giove, che d’haverla era disposto,
Fe nascer una nebbia oscura, e folta,
Che con la Ninfa il tenesse nascosto.
Quì lei fermata, et à suoi prieghi volta,
Non pensa di partirsi così tosto,
Ma seco quel piacer sì grato prende,
Che quel, ch’ama, e l’ottien, beato rende.

Gli occhi in tanto Giunon chinando à terra
Vide la spessa nebbia in quel contorno,
E che poco terren ricopre, e serra,
E ch’in ogn’altra parte è chiaro il giorno.
Vedendo, che ne i fiumi, ne la terra
L’han generata, riguardando intorno,
Del marito ha timor, che’n ciel non vede,
E conosce i suoi furti, e la sua fede.

Nol ritrovando in cielo è più che certa,
Che sian contra di se fraudi, et offese.
Discende in terra, e quella nube aperta
Non se le fe quel, che credea, palese.
Giove, che tal venuta havea scoperta,
Fe, che la donna un’altra forma prese;
E fe la violata Ninfa bella
Una matura, e candida Vitella.

Poi finse per diporto, e per ristoro
Andar godendo il bel luogo, ove egli era.
Giunon con gelosia, con gran martoro
La giuvenca mirò sdegnata, e altera,
Pur finge, e dice, ò ben felice Toro,
Che goderà così leggiadra fera.
Cerca saper qual sia, donde, e di cui,
E di che armento, e chi l’ha data à lui.

Per troncar Giove ogni sospetto, e guerra,
Che la gelosa già nel suo cor sente:
Perche non ne cerchi altro, che la terra
L’ha da se parturita, afferma, e mente.
Ella, c’haver non vuol quel dubbio in terra,
Cerca, che voglia à lei farne un presente.
Che farai, Giove? a che risolvi il core?
Quinci il dover ti sprona, e quindi amore.

Troppo è contra il suo fin, ch’egli si spoglie
D’una vita sì dolce, e sì gioiosa;
Ma se nega à la sua sorella, e moglie,
Che sospetto darà, sì lieve cosa?
Amor vuol, ch’ei compiaccia à le sue voglie,
Ma non vuol già la sua moglie ritrosa,
Al fin per torle allhor quel gran sospetto,
Tolse à se stesso il suo maggior diletto.

Così la Dea ben curiosa ottiene
Quel don, che tanto travagliata l’have,
Ne però tolto quel timor le viene,
Che l’imprime nel cor cura sì grave,
Anzi tal gelosia nel cor ritiene,
Che novi inganni, et novi furti pave,
Onde diè il don, che sì l’accora, e ’nfesta,
In guardia ad un, che havea cent’occhi in testa.

Argo havea nome il lucido pastore,
Che le cose vedea per cento porte.
Gli occhi in giro dormian le debite hore,
E due per volta havean le luci morte.
Gli altri spargendo il lor chiaro splendore
Tra lor divisi fean diverse scorte.
Altri havean l’occhio à la giuvenca bella,
Altri intorno facean la sentinella.

Ovunque il bel pastor la faccia gira,
C’ha di sì ricche gemme il capo adorno,
À la giuvenca sua per forza mira,
Perche egli scuopre anchor di dietro il giorno.
Ne gliè d’huopo, s’altrove ella s’aggira,
Voltar per ben vederla il capo attorno,
Che se ben dietro à lui si parte, ò riede,
Dinanzi à gli occhi suoi sempre la vede.

Lascia, che pasca il dì l’herbose sponde,
Che sparte son nel suo bel patrio regno.
Acque fangose, et herbe amare, e fronde,
Le sue vivande sono, e ’l suo sostegno.
Ma, come il Sol ne l’Ocean s’asconde,
Argo le getta al collo il laccio indegno,
E le sue piume son, dove la serra,
La non ben sempre strameggiata terra.

Tal volta l’infelice apre le braccia
Per abbracciar il suo novo custode,
Ma col piede bovin da se lo scaccia,
Ne man può ritrovar’ onde l’annode.
Pregar il vuol, che d’ascoltar li piaccia,
Ma come il suo muggire horribil’ode,
Scorre di quà, di là tutto quel sito,
Fuggendo se medesmo e ’l suo muggito.

Dove la guida il suo pastor, soggiorna,
Pascendo l’herbe fresche, e tenerelle.
À le paterne rive un dì ritorna
Dove giucar solea con le sorelle,
Ma come le sue nove altere corna
Mira ne l’acque cristalline, e belle,
S’adombra tutta, e si ritira, e mugge,
E mille volte vi si specchia, e fugge.

Le Naiade non san, che la vitella,
Che vuol giucar con loro, e le scompiglia,
Sia la perduta lor cara sorella.
Et Inaco non sa, che sia la figlia.
Tutto quel, ch’esse fan, vuol fare anch’ella,
Dando à tutti di se gran maraviglia.
Toccar si lascia, e fugge, e torna à prova,
Come fa il can, che ’l suo padron ritrova.

Mentre scherzando ella s’aggira, et erra,
Il mesto padre suo grato, et humano,
Svelle di propria man l’herba di terra,
À lei la porge, e mostra di lontano.
Ella s’accosta, e leggiermente afferra
L’herba, e poi bacia la paterna mano.
Dentro à se piange, e direbbe anche forte,
(Se potesse parlar) l’empia sua sorte.

Pur fa, che ’l padre (tanto, e tanto accenna)
Seguendo lei nel nudo lito scende,
Dove l’unghia sua fessa usa per penna
Per far noto quel mal, che sì l’offende.
Rompe col piede al lito la cotenna,
Per dritto, per traverso, e ’n giro il fende,
E tanto, e tanto fa, che mostra scritto
Il suo caso infelice al padre afflitto.

Quando il misero padre in terra legge,
Che la figlia da lui cercata tanto,
È quella, che credeva esser del gregge
Nascosta sotto à quel bovino manto,
À pena in piè per lo dolor si regge,
Raddopia il duol, la pena, il grido, e ’l pianto.
Le nove corna à la sua figlia abbraccia,
Baciando spesso la cangiata faccia.

Ó dolce figlia mia, che in ogni parte
Da dove nasce il Sol fin à l’Occaso,
Già ti cercai, ne mai potei trovarte,
E finalmente hor t’ ho trovato à caso.
Figlia onde il cor per gran duol mi si parte,
Mentre ch’ io penso al tuo nefando caso,
O dolce figlia mia, deh chi t’ ha tolto
Il tuo leggiadro, e delicato volto?

Deh perche col parlar non mi rispondi,
Ma sol col tuo muggir ti duoli, e lagni?
E ’l mio parlar col tuo muggir confondi?
E col muggito il mio pianto accompagni?
Tu sai dal mio parlar, che duol m’abondi;
Veggo io dal tuo muggir, come tu piagni.
Io parlo, e fo quel, che si dè fra noi,
Ma tu sol muggi, e fai quel, che far puoi.

Oime che le tue nozze io preparava
Far con pompa, con gaudio, e con decoro,
Onde nepoti, e genero aspettava
Per la mia vecchia età dolce ristoro.
È questo dunque il ben, ch’io ne sperava?
Dunque ho da darti hor per marito un toro?
Dunque i vitelli al nostro ceppo ignoti
I tuoi figli saranno, e i miei nepoti?

Potessi almen finir con la mia morte
L’intenso, e dispietato dolor mio,
Che à fin verrei di sì perversa sorte.
Veggo hor quanto mi noccia essere Dio.
Poi ch’al morir mi son chiuse le porte,
Che posso altro per te, che dolermi io,
E mentre rotan le celesti tempre,
Il tristo caso tuo pianger mai sempre.

Mentre il misero vecchio anchor si duole,
E tutte le sue pene in un raccoglie,
Lo stellato pastor, che la rivuole,
Presente il padre la rilega, e toglie,
E per diversi pascoli, ove suole
Condurla spesso, la rimena, e scioglie.
Egli in cima d’un colle fa soggiorno,
Che scopre la foresta intorno intorno.

Giove non vuol, come ben grato amante,
Ch’in sì gran mal l’amata sua s’ invecchi,
Onde al suo figlio, e nipote d’Atlante
Commette, che contra Argo ir s’apparecchi,
E, perche non sia più sì vigilante,
Vegga di tor la luce à tanti specchi.
Tosto ei la verga, e l’ali, e ’l pileo appresta
A le mani, et à piedi, et à la testa.

Lasciata l’alta region celeste
Ne la parte più bassa se ne venne,
Dove giunto mutò sembiante, e veste,
E lasciò il suo cappel, lasciò le penne;
Per far dormir le tante luci deste,
Sol la potente sua verga ritenne,
E, dove è quel pastore, il camin prese,
Che ’n capo tien tante facelle accese.

Come rozzo pastor gli erra da canto,
Che à le fresche herbe il suo gregge ristora,
E con le canne sue sì dolce canto
Rende, che n’addolcisce il cielo, e l’ora.
Hor l’occhiuto pastor, che l’ode intanto,
Di sì soavi accenti s’ innamora,
E dice à lui, qui meco venir puoi,
C’havrem grata herba, et ombra, il gregge, e noi.

Il cauto Dio fa tutto quel, che vuole
L’aveduto custode, e circospetto,
E col suon dolce, e le saggie parole
Cerca addolcirgli il senso, e l’intelletto.
D’Argo molti occhi han già perduto il Sole,
E forza è, che stian chiusi à lor dispetto;
Ma molti ei ne tien desti, e gli ritarda,
E con quei vegghia, e la giuvenca guarda.

Mentre in parte discorre, in parte sogna,
E non dà noia al discorso il sognare,
Col pensier desto di sapere agogna,
E ’l pastor prega, che voglia contare,
Come fu ritrovata la sampogna,
Che sì soavemente ei sa sonare.
Disse quel Dio, cantando in dolce tuono,
Facendo pausa al suo cantar col suono.

Ne i gelati d’Arcadia ombrosi monti
Fra l’Amadriadi Nonacrine piacque
Una, che Naiade era, che in quei fonti,
Che surgon quivi, fe sua vita e nacque.
Satiri e Fauni, e Dei più vaghi, e conti,
Sempre scherniti havea; tanto le spiacque
Il commercio d’Amor, quasi empio, e stolto,
Per havere à Diana il suo cor volto.

Siringa nome havea la Ninfa bella,
Che studiò d’ imitar l’Ortigia Dea
Con la virginità, con la gonnella,
Con ogni cosa, ch’essa usar solea.
Non si riconoscea questa da quella,
Ch’ in ambe ugual beltà si discernea.
Nel l’arco sol disconvenner tra loro,
Questa l’usò di corno, e quella d’oro.

Mentre ella un dì dal bel Liceo ritorna
Casta nel cor, nel volto allegra, e vana,
La vede un Dio, c’ha due caprigne corna,
Co i piè di capra, e con sembianza humana:
Com’ei la vede sì vaga, e sì adorna,
Ne sa, che ’l cor sacrato habbia à Diana,
Le dice, ò Ninfa, à i dolci voti attendi,
E quel Dio, che ti vuol, marito prendi.

Havea molto che dir Mercurio intorno
A quel, che à Pane in questo amore occorse,
Il qual di Pino, e di corona adorno,
In van pregolla, in van dietro le corse,
E come corso havrian tutto quel giorno,
Se non, che un fiume à lor venne ad opporse,
Che ’l Ladon fiume il correre impedio
A la gelata Ninfa, al caldo Dio.

Là dove giunta pregò le sorelle,
Che volesser salvarla in alcun modo,
E s’appreser le piante tenerelle
Al terren paduloso, e poco sodo,
Che tutte l’ossa sue si fer cannelle,
Ch’ogni giuntura sua si fece un nodo,
Che gran foglie si fer le vesti tosto,
E tutto ’l corpo suo tenner nascosto.

E che correndo Pane in abbandono
Pensò tenerla, e sfogar la sua voglia,
E che prese una canna, donde un tuono
Flebile uscia, come d’huom, che si doglia,
Che mentre ella spirò, rendè quel suono
Il vento mosso in quella cava spoglia,
E come Pan da tal dolceza preso;
Disse; In van non havrò tal suono inteso.

E di non pari calami compose
Con cera aggiunti il flebile istrumento.
A cui poscia Siringa nome pose
Dal nome suo, da quel dolce lamento.
Dovea dir queste con molte altre cose
Mercurio intorno à questo scambiamento,
Ma perche gia tutte le luci chiuse
In Argo scorse, il suo parlar conchiuse.

Da la sampogna il suono, e la favella
Da la sua lingua subito disgiunge.
Con maggior sonno poi gli occhi suggella,
Che con la verga sua toccando aggiunge.
Sfodra la spada sua lucida, e bella,
E dove il capo al collo si congiunge,
Fere, e tronca la spada empia, e superba,
E macchia del suo sangue i fiori, e l’herba.

Argo tu giaci, e ’l gran lume, che havevi
In tanti lumi, un sol colpo ti fura.
Tanti occhi, onde vegghiar sempre solevi,
Perpetuo sonno hor t’addormenta e tura.
E ’l dì, che più d’ogn’un chiaro vedevi,
Una infelice, e trista notte oscura.
Solo una man con tuo gran danno, e scorno
T’ha tolto i lumi, la vigilia, e ’l giorno.

Ma la gelosa Dea, che gli occhi à terra
Chinava spesso al suo fido pastore,
Quando il vide giacer disteso in terra,
E ’l capo tronco senza il suo splendore,
E ch’empia morte quei bei lumi serra,
I quai soleano assicurarle il core,
Dal morto capo quei cent’occhi svelle,
E fa le penne al suo pavon più belle.

Empie di gioie la superba coda
Del suo pavone, e gli occhi, che distacca
Dal capo tronco, ivi gl’imprime, e ’nchioda,
E con mirabil’arte ve gli attacca.
Tutta arrabbiata poi la lingua snoda;
Dunque, disse, debb’ io per questa vacca
Sempre star’ in sospetto, in pene, e ’n guai,
E non mi debbo risentir già mai?

Non pon già tempo in mezzo à la vendetta,
Ma fa venire una furia infernale
Contra la figlia d’Inaco, ristretta
Dentro à la scorza d’un brutto animale.
Là dove giunta il corpo, e l’alma infetta
Di quella afflitta, e giunge male à male:
E tal furor’ à lei ne l’alma porse,
Che tutto ’l mondo profuga trascorse.

La spiritata bestia scorre, e passa
Dove il rabbioso suo furor la mena:
E s’alcun le s’oppon, le corna abbassa,
E ’l fa cader da l’aria in sù l’arena.
Gli huomini, e gli animali urta, e fracassa,
Che à tempo à lei non san voltar la schena.
Tu solo altero Nil restavi in terra
A veder la sua rabbia. e la sua guerra.

Là dove giunta prostrata su ’l lito
Sol col volto, e con gli occhi al ciel s’eresse.
E con un sospirar, con un muggito,
Che veramente parea, che piangesse,
Parea, che con Giunone, e col marito,
De’ suoi strani accidenti si dolesse,
E che chiedesse il fin come innocente
Del suo doppio martir, che prova, e sente.

Giove con grato modo, e caldo affetto
Per ammorzare ogni rancore, e sdegno,
Che rode à la gelosa moglie il petto,
Per l’acque giura del Tartareo regno,
Che mai più non havrà di lei sospetto,
E tenga il giuramento Stigio in pegno:
E prega, che placare homai si voglia,
E torle quella rabbia, e quella spoglia.

Udito il giuramento allegra torna
Giunon, et Io racquista il primo stato.
Si fan due bionde treccie ambe le corna,
Ogni altro pel da lei toglie commiato.
L’occhio suo come pria picciol ritorna,
Il volto è più che mai giocondo, e grato.
E tornata che fu l’humana faccia,
I piè dinanzi suoi si fer due braccia.

L’unghia sua fessa di novo si fende
D’altri tre fessi, che fan cinque dita.
La man già si disnoda, e già s’arrende,
E torna più, che mai sciolta, e spedita.
Tosto si leva, e in alto si distende,
E ferma sù due piè tutta la vita.
Mutata tutta in un punto si vede:
E quanto più le par, men’ ella il crede.

Volea parlar per veder s’era quella,
Ch’esser solea, ma temea non muggire.
Apre la bocca al dir, poi la suggella
Per non udir quel, che fuggia d’udire.
S’arrischia al fin, ma con rotta favella
Tutta dubbiosa sotto voce a dire.
E poi, che ’l caso suo conobbe espresso,
Il Ciel ringratiò del buon successo.

À cui dapoi più d’un tempio s’eresse,
E venerata fu fra gli altri Dei.
Onde si tien, che di Giove nascesse
E Pafo, un bel figliuol, ch’uscì di lei.
Et in segno di ciò, par, ch’egli havesse
Nel mondo tempij assai giunti à costei,
D’animo, e d’anni uguale hebbe in quel tempo
Un figliuol di colui, che tempra il tempo.

Fer sì la nobiltà, gli anni, e ’l valore,
C’hebber contesa de la precedenza,
Ch’esser questo di quel volea maggiore,
Ciascun per la celeste discendenza.
E stavan sì ne i punti de l’honore,
Che ne fu gran querela, e differenza.
Perche Fetonte il bel figliuol del Sole
Disse un dì molto altier queste parole.

Qual più chiara progenie può trovarsi
Di quella, che dal Sol chiaro discende?
E se qualch’una illustre osa chiamarsi,
Tanto illustre più fia, quanto più splende:
Non so chi possa al mio padre aguagliarsi,
Che vien da Giove; e sì gran lume rende,
Che s’e’ ponesse à la sua luce il velo,
Faria steril la terra, oscuro il cielo.

Non potè più patir quell’altro altiero
Figliuol di Giove, e d’Inaco nepote,
E disse à lui tutto alterato, e fiero
Con queste acerbe, et orgogliose note.
Come sai tu di questa historia il vero?
Chi far del tuo parlar fede ci puote?
Qual ragion, qual certezza à dir ti move,
Che tu sia figlio al Sol, nepote à Giove?

Io ben con gran ragion posso vantarmi
D’esser nato di quel, che regge il tutto.
E di questo fan fede i tempij, e i marmi,
Che à la mia madre son sacri per tutto.
Ma tu per qual segnal puoi dimostrarmi,
Che tanto illustre Dio t’habbia produtto?
E quando anchor di ciò dessi alcun segno,
Ti terrei forse ugual, ma non più degno.

Tu mostri ben poco sano discorso,
Poi che ogni cosa à la tua madre credi:
Pon per l’innanzi à la tua lingua il morso,
Fin che maggior chiarezza non ne vedi.
Fetonte allhor così sbattuto, e morso
Subito mosse i suoi veloci piedi,
E ver la madre Climene andò ratto,
Per ritrovar il ver di questo fatto.

Tosto la madre sua trova Fetonte
Spinto da quel pensier, ch’entro il consuma,
E prima, che ’l suo obbrobrio le racconte,
Più volte fra se stesso il volve, e rmua:
Madre mia, disse poi, non ho più fronte
Farmi figliuol di quel, che ’l mondo alluma,
Poi che non posso indubitata fede
Farne à ciascun, che ’l nega, e non me’l crede.

E quì le raccontò tutto l’oltraggio,
Ch’intorno à questo gli era stato opposto,
E che per non poter del suo lignaggio
Dar segno alcun, non havea mai risposto.
E s’ella à lui non ne dava alcun saggio,
Saria sempre à tal biasimo sottoposto;
E saria sempre astretto di star cheto,
Per non poterlo ributtare indrieto.

Hor se gliè ver, che di stirpe celeste
Dal gran pianeta, che distingue l’hore,
Io tragga questa mia corporea veste,
A cui l’alma dà legge in mezzo al core,
Se felice Himeneo le nozze appreste
De le sorelle tue con ogni honore,
Dammi quei segni, che figliuol mi fanno
Di chi col suo camin pon meta à l’anno.

Non sò chi ne la donna habbia più forza,
O ’l priego di Fetonte, ò la grand’ira:
Che l’un, e l’altro à risponder la sforza
Quel, che ’l temprato suo furor l’inspira.
O figliuol, disse, ogni sospetto ammorza,
Che sopra ciò t’affligge, e ti martira;
Ch’ à l’esser tuo vital diede la luce
Il gran rettor de la superna luce.

E distendendo al cielo ambe le braccia
Per fuggir tanta infamia, e tanto scorno,
Disse; Sei figlio à quella allegra faccia,
Che con bel variar dà luce al giorno,
À quel splendor, che le tenebre scaccia
Per tutto, ove apparisce intorno intorno,
À quel, ch’apporta à questa nostra sfera
Estate, Autunno, Verno, e Primavera.

Ti cinse l’alma di corporee fasce
Quel, c’hor le luci abbaglia ad ambedue,
Quel Dio, che sempre muore, e sempre nasce,
Quel, che surgendo à noi, tramonta altrui,
Quel, che convien, che trasportar si lasce
Contra il suo fin da chi può più di lui.
E se di quel bel Sol figliuol non sei,
S’oscuri hoggi per sempre à gli occhi miei.

Ma, perche meglio in questo ti contenti,
È ben, che da lui proprio te ne vadi,
E che ’l tuo desiderio gli appresenti
Di quel segnal, che par, che sì t’aggradi,
Pur, che ’l lungo camin non ti spaventi,
Che si scosta da noi novanta gradi.
Fetonte à ciò s’attien con buon coraggio,
E stima poco un sì lungo viaggio.

Ver l’orto Hiberno si drizza Fetonte,
E va sì ratto, che par, c’habbia l’ale.
L’Orsa, quanto ei più va, più par, che smonte,
E le restin da scender manco scale.
Vide ambi i Poli star ne l’Orizonte,
Quand’egli entrò ne l’Equinottiale:
E quindi andò contra la Zona ardente
A la corte del padre in Oriente.