Il Circolo Pickwick/Capitolo 36

Del quale son caratteri principali una versione autentica della leggenda del principe Bladud ed una straordinaria calamità che capitò al signor Winkle

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Del quale son caratteri principali una versione autentica della leggenda del principe Bladud ed una straordinaria calamità che capitò al signor Winkle
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Pensando il signor Pickwick di trattenersi un par di mesi a Bath, credette bene di prendere per sè e per gli amici suoi un alloggio privato; e siccome una favorevole occasione offriva loro a discretissima ragione un ultimo piano nel Royal Crescent, più grande del bisognevole, la coppia Dowler propose di prender per sè un salottino e una camera da letto. La proposta fu subito accolta, e in tre soli giorni si trovavano tutti nel nuovo alloggio, quando il signor Pickwick incominciò con la massima assiduità e col più rigoroso sistema a bere le acque. Ne beveva un quarto di pinta prima di colazione, e poi montava su per una collina; un altro quarto di pinta dopo colazione e poi scendeva giù per una collina; e dopo ogni nuovo quarto di pinta, il signor Pickwick dichiarava di sentirsi assai meglio, del che gli amici si rallegravano molto, benchè non si fossero mica accorti ch’egli soffrisse di qualche cosa.

La gran sala dei bagni è un vasto salone ornato di colonne corintie, di una tribuna per l’orchestra, di un orologio Tompion, di una statua di Nash e di una iscrizione dorata, alla quale tutti i bevitori d’acqua dovrebbero attendere, dacchè essa si volge ai loro sentimenti di carità. C’è una lunga ringhiera con dietro una vasca di marmo, dalla quale l’uomo addetto alla pompa prende l’acqua, e un certo numero di bicchieri ingialliti, dai quali la prende la compagnia dei bagnanti; ed è veramente uno spettacolo grato ed edificante vedere la perseveranza e la gravità con cui se la ingollano. Vi son dei bagni lì accanto, dove una parte della compagnia si va a bagnare, ed una banda intuona quindi scelte armonie per congratularsi con gli altri di essersi già bagnati. C’è poi un’altra sala, dove gl’infermi dell’uno e dell’altro sesso si fanno trascinare o spingere in una varietà così maravigliosa di seggiole e biroccini, che chiunque si avventura a penetrarvi con le abituali dieci dita dei piedi trovasi nel rischio imminente di uscirne senza; e ce n’è una terza, frequentata dalle persone pacifiche, come quella che è meno rumorosa delle altre. E finalmente si fa un gran passeggiare con e senza gruccie, con e senza bastoni; e si sta allegri e si conversa e si ammazza il tempo.

Tutte le mattine, i soliti bevitori di acqua, fra i quali il signor Pickwick, s’incontravano nella sala grande, prendevano il loro quarto di pinta e costituzionalmente passeggiavano. Nella passeggiata del dopopranzo lord Mutanhed e l’on. Crushton, la vedova lady Stuphanuph, la colonnella Wugsby, e tutta la gente di qualità e tutti i bevitori della mattina s’incontravano. In seguito, uscivano a piedi o in carrozza o in seggiole a ruote, e s’incontravano di nuovo. Dopo di ciò gli uomini si recavano nelle sale di lettura, dove s’incontravano in altri drappelletti di bagnanti. Poi si ritiravano a casa. Se era serata di teatro, s’incontravano forse a teatro; se era serata di conversazione, s’incontravano nelle sale; e se non era nè questa nè quella, s’incontravano il giorno appresso: — piacevolissimo sistema, con una tinta forse leggerissima di monotonia.

Il signor Pickwick, dopo una giornata passata a questo modo, era ancora in piedi e pigliava appunti nel suo giornale di viaggio, mentre i suoi amici erano andati a letto, quando una leggiera bussatina all’uscio lo fece voltare.

— Perdono, signore, — disse la signora Craddock, la padrona di casa, spingendo dentro il capo, — avete bisogno di altro?

— Niente altro, signora, — rispose il signor Pickwick.

— La mia bambina è andata a letto, signore, — disse la signora Craddock, — e il signor Dowler è tanto buono che aspetterà da sè la sua signora, visto che torneranno di fuori molto tardi; sicchè pensavo appunto, signor Pickwick, che se non vi bisognasse altro, sarei andata a letto anch’io.

— Andate pure, Signora, — rispose il signor Pickwick.

— Vi auguro la buona notte, disse la signora Craddock.

— Buona notte,— rispose affabilmente il signor Pickwick.

La signora Craddock si ritirò dietro l’uscio e il signor Pickwick si rimise a scrivere.

In mezz’ora tutti gli appunti erano presi. Il signor Pickwick asciugò accuratamente l’ultima pagina sulla carta sugante, chiuse il libro, pulì la penna sul basso della fodera del soprabito, e tirò il cassettino del calamaio per riporvela. C’erano lì dentro un paio di foglietti di carta da lettere, coperti di una scrittura finissima e piegati in maniera che il titolo, scritto in bel carattere tondo, gli saltò subito agli occhi.

Vedendo da esso che non trattavasi di alcun documento privato, e giudicando che si dovesse riferire a Bath e che fosse, molto breve, il signor Pickwick lo spiegò, accese la sua candela, e tirando la seggiola accanto al fuoco, lesse quel che segue:

La vera leggenda del principe Bladud.

Meno di duecento anni fa, sopra uno dei pubblici stabilimenti balneari di questa città leggevasi un’iscrizione in onore del suo potente fondatore, il famoso principe Bladud. L’iscrizione è oggi cancellata.

Per molti secoli avanti, era stata tramandata da una generazione all’altra un’antica leggenda che essendo l’illustre principe affetto da lebbra, al suo ritorno dalla vecchia Atene dove avea raccolto larga messe di scienze, fuggì la corte del suo regal genitore, e tristamente cercò la compagnia di bifolchi e di porci. In mezzo al gregge (così dice la leggenda) trovavasi un porco dall’aspetto grave e solenne, al quale il principe si sentiva legato da un sentimento affettuoso come di camerata poichè anch’esso, il porco, era un saggio — un porco dal contegno riservato e meditabondo, un animale superiore ai suoi compagni, dal grugnito terribile e dal morso acuto. Il giovane principe sospirava profondamente quando si faceva a contemplare il porco nobile e maestoso; si ricordava del suo regal genitore e gli si empivano gli occhi di lagrime.

Questo porco sagace soleva fare i suoi bagni in una fanghiglia densa e verdastra. Non già in estate, come fanno adesso, per rinfrescarsi, i porci volgari, e come anche allora facevano (prova evidente che la luce della civiltà avea già, benchè debolmente, incominciato a rischiarare l’orizzonte) — ma nelle rigide giornate d’inverno. Ed aveva sempre il pelo così liscio e così sincera la carnagione, che il principe deliberò di sperimentare le qualità purificanti di quella medesima acqua cui l’amico suo aveva ricorso. Fece la prova. Di sotto a quella sudicia fanghiglia bollivano le calde sorgenti di Bath. Ei si bagnò e guarì. Correndo allora più che di fretta alla Corte paterna, complì umilmente il genitore, e tornato alla sua campagna, fondò questa città e i suoi bagni famosi.

Cercò il porco con tutto l’ardore della loro amicizia di un tempo; ma ahimè! le acque erano state la sua morte. Un bagno imprudente fatto ad una temperatura troppo alta aveva ucciso il filosofo naturale! Gli successe poi Plinio, caduto anch’egli vittima del suo amore per la scienza.

Questa era la leggenda. Udite ora la leggenda vera.

Molti e molti secoli addietro, fioriva l’alto e rinomato Lud Hudibras, re della Brettagna. Era un potente monarca. La terra tremava sotto i suoi piedi, tanto egli era gravante e robusto. I suoi sudditi erano obbligati dalla luce della sua faccia regale, tanto egli era fulgido e rubicondo. Era veramente un re nato da capo a piedi; e lo spazio non era piccolo, poichè quantunque di mezzana statura non era comune la sua corpulenza, la quale compensava in circonferenza quel che gli mancava in altezza. Se alcuno dei degenerati monarchi dei tempi nostri può in alcun modo esser a lui paragonato, io sarei di parere che questo illustre potentato potrebbe essere il venerabile re Cola.

Questo buon re aveva una regina, la quale diciotto anni innanzi aveva avuto un figlio cui fu imposto il nome di Bladud. Fu mandato a fare i suoi primi studi in un seminario del regno; e quando ebbe toccato il suo decimo anno venne spedito, sotto la custodia di un fedel messaggiero, ad una scuola di perfezionamento in Atene. Siccome non c’era da pagare un di più per rimanervi nel tempo delle vacanze nè da mandare un avviso preventivo per ritirare uno scolare, otto anni vi stette, spirati i quali, il re suo padre mandò il Gran Ciambellano a saldare il conto e a riportarlo a casa, il che avendo il Gran Ciambellano compiuto appuntino, fu al suo ritorno ricevuto con acclamazioni e pensionato immediatamente.

Quando il re Lud vide il principe suo figlio, e trovò ch’era venuto su così bel giovane, capì subito che gran fatto sarebbe stato il dargli moglie senza indugio di sorta, in modo che i figliuoli di lui potessero perpetuare la gloriosa razza di Lud fino ai più remoti secoli del mondo. A questo fine spedì un’apposita ambasceria, composta di nobili che non aveano nulla di preciso da fare ed aveano bisogno di una occupazione lucrosa, ad un re suo vicino, domandando la mano della sua bella figliuola pel principe Bladud, e dichiarando nel tempo stesso ch’egli desiderava vivamente trovarsi nei termini più affettuosi col suo fratello ed amico, ma che se questi per avventura non fosse disposto a conchiudere il matrimonio, ei si troverebbe nella ingrata necessità d’invadergli il regno e di cavargli l’uno o l’altro occhio. A questo, l’altro re (che dei due era il più debole) rispose ch’egli era riconoscentissimo al suo amico e fratello per tutta la bontà e la magnanimità che gli dimostrava, e che la figliuola era pronta a farsi sposare, quando al principe Bladud piacesse di venirsela a pigliare.

Non appena questa risposta fu pervenuta in Brettagna, tutta la nazione da un capo all’altro fu compresa di allegrezza. Non altro udivasi da tutte le parti che suono di feste e di sollazzi, — eccetto il rumor delle monete che il popolo fedele versava al Real Tesoriere per pagar le spese della felice cerimonia. Fu appunto in questa occasione che il re Lud, seduto in pieno consiglio sull’alto del suo trono, si levò nella esuberanza dei suoi sentimenti, e ordinò al Capo Giustiziere di far venire i vini più generosi e i menestrelli di Corte: atto di sovrana graziosità che, per ignoranza di storici troppo ligi alla tradizione, è stato attribuito al re Cola in quei versi famosi nei quali la Maestà Sua vien rappresentata come

Ordinando la pipa e l’ampia brocca

E facendo venire i tre giullari,

Per deliziare insieme orecchi e bocca.

La quale è una patente ingiustizia alla memoria del re Lud, ed una disonesta esaltazione delle virtù del re Cola.

Ma in mezzo alla gioia e alle feste universali, un individuo era presente il quale non assaggiava i vini generosi quando si mesceva intorno e non danzava quando i menestrelli davano negli strumenti. Questi non era altri che lo stesso principe Bladud, in onore della cui felicità una intiera popolazione in quel preciso momento allargava le gole e le scarselle. Il fatto era questo, che il principe, dimenticando il diritto riconosciuto del ministro per gli affari esteri d’innamorarsi per conto di lui, si era già, contrariamente ad ogni precedente di politica e di diplomazia, innamorato per conto proprio, e segretamente avea dato fede di sposo alla bella figliuola di un nobile Ateniese.

Abbiamo qui un notevole esempio di uno dei tanti vantaggi della civiltà e del progresso. Se il principe avesse vissuto in età più vicina a noi, avrebbe potuto senz’altro sposar l’oggetto scelto da suo padre e mettersi quindi a tutt’uomo per sollevarsi dal fardello grave che gli pesava addosso. Avrebbe potuto studiarsi in tutti i modi di spezzarle il cuore con un metodo rigoroso di abbandono e di oltraggi; o anche, se mai lo spirito naturale alla donna ed una orgogliosa coscienza dei torti patiti l’avessero sostenuta contro i mali trattamenti, avrebbe potuto cercare di sbarazzarsene togliendole alla miglior maniera la vita. Ma nè l’un mezzo nè l’altro balenò alla mente del principe Bladud, il quale perciò, chiesta al regal genitore una udienza privata, gli disse ogni cosa.

È antico privilegio dei re di governare ogni cosa meno che le proprie passioni. Il re Lud si accese di terribile sdegno, scaraventò la corona al soffitto e la ripigliò (perchè a quei tempi i re tenevano sempre in capo la corona e non la Torre), sbattè dei piedi in terra, si diè un pugno sulla fronte, domandò perchè mai la carne e il sangue suo gli si ribellassero contro, e finalmente, chiamando le sue guardie, ordinò che all’istante si portassero via il principe e lo serrassero in un’alta torre del palazzo: sorta di trattamento che i re di una volta solevano applicare ai loro figliuoli, quando per avventura riscontravano una qualunque divergenza tra le loro inclinazioni matrimoniali e le proprie.

Quando il principe Bladud ebbe passato nell’oscurità della sua prigione la maggior parte di un anno, con nessun’altra prospettiva davanti agli occhi del corpo che un gran muro di pietra e davanti agli occhi della mente che una interminabile prigionia, incominciò naturalmente a ruminare un piano di evasione, il quale dopo mesi e mesi di preparazione riuscì una bella notte a tradurre in effetto, lasciando prudentemente il suo coltello da tavola nel cuore del suo carceriere; per tema che il pover’uomo, che aveva famiglia, non venisse sospettato di complicità nella fuga e punito per conseguenza dall’infuriato monarca.

Re Lud fu preso dal delirio alla perdita dell’amato figliuolo. Non sapeva su chi rovesciare lo sdegno e la rabbia, fino a che ricordandosi per buona sorte del Gran Ciambellano, che lo aveva rimenato a casa, gli mozzò in un colpo la pensione ed il capo.

In questo mentre, il giovane principe travestito andava errando a piedi pei dominii paterni, confortato e sostenuto in tutte le sue dure prove dal pensiero soavissimo della vergine ateniese, che di quelle prove era la causa innocente. Si fermò un giorno a prender riposo in un villaggio; e vedendo allegre danze intrecciarsi sull’erba del prato e visi giocondi passargli davanti, si fece a domandare ad uno dei festaioli che gli stava accanto la ragione di tutta quell’allegria.

— E non sapete, o straniero, — rispose quegli, — del proclama recente del nostro grazioso sovrano?

— Proclama? no; che proclama? — domandò ancora il principe, avendo egli viaggiato per sentieri traversi e poco frequentati, nè sapendo di quanto avea potuto accadere sulle vie maestre.

— Come! — ripigliò l’altro — la fanciulla straniera che il nostro principe amava e voleva menare in moglie, si è maritata con un nobile del suo proprio paese; e il re Lud proclama il gran fatto e nel tempo stesso bandisce pubbliche feste; perchè ora, naturalmente, il principe Bladud se ne tornerà a casa e sposerà la donna destinatagli dal padre, la quale, a quanto si dice, è bella come un occhio di sole. Alla vostra salute, signore. Evviva il re!

Non stette il principe ad ascoltar più oltre. S’involò da quel posto e si sprofondò nei più folti recessi di una selva vicina. Camminò camminò sempre, notte e giorno, sotto il sole ardente e sotto la fredda e pallida luna, alla luce grigia dell’alba e al rosseggiare del tramonto. E così poca coscienza aveva egli del tempo e del cammino, che essendosi diretto ad Atene, si trovò portato mal suo grado sui territorio di Bath.

Non sorgeva allora alcuna città in quel posto. Non eravi vestigio di nessuna abitazione, nè segno alcuno della presenza o del lavoro dell’uomo; ma vi era la stessa splendida campagna, la vasta distesa di valli e colline, lo stesso bel canale corrente, le stesse alte montagne le quali, come le cure acerbe della vita, viste in distanza e in parte velate dalla nebbia trasparente del mattino, perdono ogni loro asprezza e paiono dolci ed agevoli. Mosso alla bellezza gentile della scena, il principe cadde a sedere sull’erba e si bagnò di lagrime i piedi affaticati.

— Oh! — esclamò lo sciagurato Bladud stringendo insieme le mani e in atto di dolore alzando gli occhi al firmamento, — che almeno avesse qui termine il mio cammino; che almeno queste lagrime spremutemi dal disinganno e da un amore spregiato possano scorrere in pace per sempre!

Il voto fu ascoltato. Era quello il tempo delle deità pagane, le quali solevano a volte pigliar la gente in parola con una sollecitudine in certi casi molto inopportuna. S’aprì la terra sotto i piedi del principe, lo inghiottì, gli si richiuse sul capo; meno in un punto donde le calde lagrime di lui sgorgavano abbondanti e dove da quel giorno hanno seguitato sempre a sgorgare.

È notevole questo fatto, che, anche oggi, un gran numero di signore e di signori di mezza età cui non è riuscito trovare un compagno o una compagna, e un numero non minore di giovani che sono ansiosi di trovarne, accorrono annualmente a Bath per bere le acque, dalle quali traggono molta forza e conforto. Il che mentre è molto lusinghiero per la virtù delle lagrime del principe Bladud, prova con palmare evidenza la verità di questa leggenda. —

Il signor Pickwick sbadigliò più volte quando fu giunto al termine di questo breve manoscritto, lo ripiegò accuratamente, lo ripose nel cassetto del calamaio, e quindi, con un viso che esprimeva la massima stanchezza, accese la candela e si avviò verso la sua camera da letto.

Si fermò, come soleva, alla porta del signor Dowler, e bussò per dargli la buona notte.

— Ah! — fece Dowler, — ve n’andate a letto. Ci vorrei essere anch’io. Che brutta nottata. Tira un gran vento, non è così?

— Fortissimo, — rispose il signor Pickwick. — Buona notte.

— Buona notte.

Il signor Pickwick si ritirò in camera sua, e il signor Dowler si rimise a sedere davanti al fuoco per compiere il suo fiero proposito di aspettare che la moglie tornasse a casa.

Poche cose vi sono più noiose e irritanti dello stare ad aspettare qualcheduno che torni di fuori, specialmente se questo qualcheduno si trovi in una festa. Voi non potete fare a meno di pensare come passi sollecito il tempo per loro, che per voi si trascina così lento; e più pensate a questo, più debole si fa la speranza di vederli tornar presto. Di più, quando vi trovate solo a stare in piedi, gli orologi battono più forte, e vi pare — almeno così pare sempre a noi — di aver sulla pelle un vestito di ragnateli. Incomincia qualche cosa a titillarvi il ginocchio destro, e quindi la medesima sensazione viene ad irritare il ginocchio sinistro. Non avete appena mutato di posizione, che ve la sentite salir nelle braccia; e quando vi siete voltato e rivoltato e contorto in ogni sorta di strane positure, un attacco improvviso vi piglia al naso, che voi fregate furiosamente come se voleste strapparlo dalle radici. Anche gli occhi per conto loro vi sono di sommo fastidio, e il lucignolo di una candela si allunga di un pollice e mezzo, mentre voi smoccolate l’altra. Questi, ed altri piccoli incomodi nervosi di varia natura, rendono tutt’altro che divertente questa faccenda dello stare ad aspettar qualcuno quando tutti gli altri sono andati a letto

Tale appunto era l’opinione del signor Bowler, sedendo davanti al fuoco e sdegnandosi nell’onestà dell’anima sua contro quella gente inumana che lo costringevano a star levato. Non valse nemmeno a metterlo di buon umore la riflessione di essersi fitto in mente a prima sera di avere mal di capo e per questo di essersi fermato a casa. Alla fine, dopo aver pigliato sonno varie volte, ed esser caduto col capo verso il camminetto e rovesciatosi indietro di botto per non rompersi la faccia, il signor Dowler si decise a gettarsi un po’ sul letto nella camera appresso, per pensare, non mica per dormire, naturalmente.

— Io ho il sonno pesante, — disse stendendosi sulla coperta.— Debbo tenermi desto; suppongo che di qua sentirò bussare. Sicuro. Io già lo dicevo. Ecco la ronda notturna. Adesso passa. Un po’ più debole. Ancora un po’ più debole. Si allontana. Svolta la cantonata. Ah!

E quando il signor Dowler fu arrivato a questo punto, svoltò la cantonata dove era stato tanto tempo esitante e si addormentò profondamente.

Nel momento preciso che l’orologio batteva le tre, il vento che soffiava furioso spinse nel Crescent una bussola con dentro la signora Dowler portata da un portantino grasso e corto e da un altro secco e lungo, i quali aveano per tutta la via durata una fatica diabolica per tenersi ritti e per reggere alla meglio la bussola; ma ora sopra un terreno più elevato, dove il vento turbinava e tempestava come se volesse scastrare e portar via le lastre della via, quella furia era davvero tremenda. Sicchè furono lieti di posare la portantina e di dare due brave martellate alla porta di strada.

Aspettarono un certo tempo, ma nessuno venne ad aprire.

— Dormono della grossa i servitori, — disse il portantino grasso, scaldandosi le mani alla torcia del ragazzo che faceva da guida.

— Non farebbero mica male se cascassero dal letto, — osservò il compagno.

— Bussate di nuovo, fatemi il piacere, — gridò di dentro la bussola la signora Dowler.— Bussate due o tre volte se non vi dispiace.

Il portantino corto, che non vedeva l’ora di sbrigarsela, si rizzò sul gradino del portone e dette quattro o cinque doppie martellate, che valevano ciascuna otto o dieci, mentre il compagno lungo il mezzo della via guardava in su alle finestre caso mai si vedesse un lume.

Nessuno intanto veniva. Sempre lo stesso silenzio e la stessa oscurità.

— Povera me! — esclamò la signora Dowler. — Dovete bussare un’altra volta, abbiate pazienza.

— Non ci sarebbe per caso un campanello, signora? — domandò il portantino corto.

— Sì che c’è,— venne su il ragazzo;— sto tirando ch’è un piacere!

— Non c’è che il manico, — disse la signora Dowler, — il filo è rotto.

— Vorrei che fosse rotta la testa di cotesti dormiglioni, vorrei,— grugnì l’uomo lungo.

— Avete da bussare un’altra volta, scusate, — disse la signora Dowler con la massima affabilità.

Il portantino corto tornò più e più volte a martellare, senza cavarne nulla. Il lungo poi, scappatagli la pazienza, lo rilevò e si mise furiosamente a martellare come un postino pigliato dal delirio.

Finalmente il signor Winkle incominciò a sognare ch’ei si trovava ad un Circolo, e che per la soverchia turbolenza dei membri presenti, il presidente fosse obbligato a batter forte sulla tavola per mantener l’ordine; ebbe poi una confusa idea di un ufficio di asta pubblica, dove non c’erano offerenti e il banditore, battendo il suo martello, chiudesse la gara al prezzo d’incanto; e finalmente incominciò a pensare non essere fuori di ogni probabilità che qualcuno bussasse alla porta di strada. Per assicurarsene bene però stette fermo a letto una diecina di minuti e prestò ascolto; e quando ebbe contato trentadue o trentatrè colpi, si sentì pienamente soddisfatto, e si compiacque seco stesso di essere così vigile.

— Ta ta — ta ta — ta ta — ta, ta, ta, ta, ta, tatatà, — suonava da basso.

Il signor Winkle balzò fuori del letto, domandandosi con molta curiosità che mai potesse essere; quindi messosi in gran fretta calze e pantoffole ed avvoltosi nella sua veste da camera, accese una candela al lumino da notte e discese precipitosamente le scale.

— Ecco qualcuno che viene, signora,— disse il portantino corto.

— Vorrei stargli dietro con un pungiglione, — borbottò l’altro.

— Chi è?— domandò il signor Winkle, tirando la catena

— Non ci perdiamo in domande ora, testa di rapa, — rispose l’uomo lungo con sdegno, credendo di certo di aver da fare con un lacchè.

— Sbrighiamoci, dormiglione, — aggiunse l’altro.

Il signor Winkle, ancora mezzo addormentato, obbedì macchinalmente al comando, aprì un poco la porta e spinse fuori il capo. La prima cosa che vide fu la torcia a vento. Preso dalla subita paura che la casa fosse in fiamme, spalancò con violenza la porta e tenendo alta la candela guardò davanti a sè non ancora ben sicuro se quel che vedeva era una bussola o una macchina infernale. A questo punto un impetuoso sbuffo di vento spense la torcia; il signor Winkle si sentì prepotentemente spinto di dietro e la porta si richiuse sbatacchiando con fracasso.

— Bravo, giovinotto, l’avete fatta grossa! — esclamò il portantino corto.

Il signor Winkle, scorgendo un viso di signora al finestrino della bussola, si voltò subito indietro, e si diè a martellare furiosamente al portone gridando al portantino con quanto ne aveva in gola che si portasse via la bussola.

— Via di qua, via di qua,— gridava.— Ecco della gente che vien fuori da un’altra casa; mettetemi nella bussola. Nascondetemi; fate qualche cosa per me!

E così dicendo tremava tutto dal freddo, e tutte le volte che alzava la mano al martello, il vento s’impigliava molto fastidiosamente e con molta sconvenienza nella sua veste da camera.

— Adesso vengono da questa parte. Ci sono delle signore; copritemi con qualche cosa. Mettetevi davanti, — ruggiva il signor Winkle. Ma i portantini non gli potevano dar retta, esausti com’erano dal gran ridere, e le signore si andavano sempre più avvicinando.

Il signor Winkle diè un’ultima e disperata martellata. Le signore non erano lontane che di pochi passi. Scagliò a terra la candela spenta che avea sempre tenuta levata in aria, e balzò bravamente nella bussola che conteneva la signora Dowler.

Ora, la signora Craddock aveva finalmente udito le bussate e le voci; e, trattenutasi appena per mettersi in capo qualche cosa di più aggraziato che la sua cuffia da notte, discese correndo nel salotto per assicurarsi che si trattava appunto delle persone aspettate, ed aprì la vetrata proprio nel punto che il signor Winkle balzava nella bussola. E non sì tosto ebbe intraveduto quel che accadeva, mise uno strido alto ed acuto, e chiamò il signor Dowler che si levasse all’istante perchè sua moglie se ne scappava con un giovinotto.

A questo, il signor Dowler saltò dal letto come una palla, di gomma, e precipitandosi nel salotto arrivò ad una finestra nel momento preciso che il signor Pickwick apriva l’altra, quando il primo oggetto che colpì gli occhi di entrambi fu il signor Winkle che si chiudeva con la signora Dowler nella bussola.

— Guardia, guardia! — gridò Dowler furiosamente, — fermatelo, arrestatelo, tenetelo fermo, chiudetelo dentro, fino a che vengo io da basso. Gli taglierò la gola— datemi un coltello — da un orecchio all’altro, signora Craddock. Sì che gliela taglierò!

E divincolandosi dalla padrona che strillava come un’aquila e dal signor Pickwick, l’infuriato marito diè di piglio a un piccolo coltello da tavola e si precipitò giù per le scale.

Ma non istette mica ad aspettarlo il signor Winkle. Non appena ebbe udito l’orribile minaccia del valoroso Dowler, ei balzò fuori della bussola con la medesima fretta con cui era balzato dentro, e gettando lontano le sue pantoffole, se la diè a gambe giù per la via, vivamente inseguito da Dowler e dalla guardia. Correva come un cervo e manteneva la distanza; la porta era aperta quando tornò indietro; vi si ficcò dentro, la sbatacchiò sulla faccia di Dowler, salì in camera da letto, serrò la porta, vi ammonticchiò contro un lavamani, un cassettone ed una tavola, e in fretta e in furia apparecchiò pochi articoli indispensabili per la fuga alla prima luce del giorno.

Dowler, rimontate le scale, si fermò davanti a quella porta, e gridò attraverso il buco della chiave di essere più che mai determinato a tagliar la gola del signor Winkle il giorno appresso; e dopo una gran confusione di voci nel salotto, fra le quali udivasi distintamente quella del signor Pickwick che si sforzava di metter pace, i vari inquilini si dispersero per le loro camere da letto e tutto fu da capo tranquillità e silenzio.

Non è improbabile che si possa da qualcuno domandare dove fosse il signor Weller tutto questo tempo. Diremo questo, se è lecito, nel capitolo appresso.