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Versione delle 21:59, 18 mag 2011

CAPITOLO DECIMOQUARTO. 145 Pisana il miracolo ch’e1la avea tentato sul giovine corso , e sollevar l' animo suo a quell’altezza dove l’amore diventa cagione di opere grandi e di nobili imprese. Ma non mi dava ii cuore di pensar solamente ad una separazione ; e quanto al farla compagna della mia vita, del mio esiglio, della mia povertà non credeva averne il diritto. Soprastava dunque ad ogni deliberazione aspettando consiglio dagli avvenimenti , e compensato abbastanza delle mie interne torture dalla felicità che risplendeva bella e raggiante sulle sembianze di lei. A vedere come il suo umore s’era cambiato, e ammorbidito in quei pochi giorni beati, io non potea ristare dalle grandi maraviglie; mai un rimpianto, mai uno sguardo bieco , mai un atto di stizza, un movimento di vanità. Pareva si fosse prefìssa dì ravvedermi dal tristo giudizio altre volte fatto di lei. Una fanciulla uscita allora allora di convento, e affidata alle cure d’una madre amorosa, non sarebbe stata più serena, più allegra ed ingenua. Tutto ciò che era fuori dell’amor nostro, o che in qualche modo non si rappiccava ad esso, non la occupava punto. I racconti che la mi faceva della sua vita passata, ad altro non tendevano che a persuadermi dell’amor suo continuo e fervoroso benché vario e bizzarro per me. Mi narrava degli eccitamenti di sua madre a far bel viso a questo o a quello de’ suoi corteggiatori, per accalappiarne un buon partito. — E cosa vuoi ! — soggiungeva. — Più erano splendidi, belli, graziosi; più mi venivano in uggia; laonde se mai dava segno di qualche gentilezza o di aggradimento, l’era sempre verso i più brutti e sparuti, con gran maraviglia mia e di quelli che mi circondavano ; e credevano quella stranezza un’arte squisita di civetteria. In verità io lusingava quelli che mi parevano troppo sgraziati per lusingarsi alla lor volta; e se quelle mie gentilezze erano insulti, Dio mel perdoni, ma non potea fare altrimenti! — 153,2,Valg