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Leggo Percy Shelley, un poeta ch’egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. E’ notte. Questa allegoria mi si leva d’innanzi visibile.
Leggo Percy Shelley, un poeta ch’egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. È notte. Questa allegoria mi si leva d’innanzi visibile.


« Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. Intorno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s’affollano nella fenditura d’una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d’innanzi a quel portico, non sapendo che un’ombra segue i vestigi d’ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro
“Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. Intorno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s’affollano nella fenditura d’una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d’innanzi a quel portico, non sapendo che un’ombra segue i vestigi d’ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro