Brani di vita/Libro primo/Piccolo Comento al Canto V del Purgatorio: differenze tra le versioni

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Il Poeta, lasciato il luogo dove purgano le peccata loro i negligenti e i pigri che indugiarono a pentirsi fino all'ultima ora, lasciato l'accidioso Belacqua che oggi si manderebbe al Manicomio e non al Purgatorio, come demente abulico e degenerato, seguita a salire l'antipurgatorio e incontra le ombre di coloro che, sorpresi da morte violenta, poterono, prima di spirare, pentirsi perdonando. Le ombre si maravigliano che il Poeta non sia permeabile ai raggi, rotti, come apparivano, dal corpo suo.
 
 
::Io era già da quell'ombre partito
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:::Pur me, pur me e 'l lume ch'era rotto.
 
Le ombre si maravigliavano dunque solo della saldezza corporea del Poeta. I raggi attraversavano dunque [[Autore:Publio Virgilio Marone|Virgilio]] che non era cosa salda ed altrove Chirone si maraviglia che il Poeta movesse ciò che toccava
 
::così non soglion fare i piè dei morti
 
ma non dice così di Virgilio. Questo dunque era ''ombra vana fuor che nell'aspetto'', ombra non ''uomo certo'', ed altri esempi se ne potrebbero addurre. O come va dunque che nel decimosettimo dell'Inferno, sulla groppa di Gerione, Virgilio sostiene Dante perchè non cada?
 
::Con le braccia mi avvinse e mi sostenne.
 
E ancora, sapete che il Poeta più indietro tentò inutilmente di abbracciare l'ombra di Casella.
 
 
::O ombre vane fuor che nell'aspetto!
:::Tre volte dietro a lei le mani avvinsi
:::E tante mi tornai con esse al petto.
 
 
Virgilio dice più innanzi a Stazio
 
::.... tu se' ombra ed ombra vedi.
 
E Stazio si scusa d'aver scordato
 
:::.... nostra vanitate,
:::Trattando l'ombre come cosa salda.
 
O come dunque nel decimoquinto dell'inferno Brunetto Latini prende il Poeta pel lembo del vestito:
 
:::Fui conosciuto da un che mi prese
:::Per lo lembo...
 
O come mai, nel trentesimosecondo dell'Inferno, Dante afferra Bocca degli Abati
 
:::Allor lo presi per la cuticagna
:::…………………………….
:::Io avea già i capelli in mano avvolti —?
 
Insomma queste ombre che sono ora tangibili ed ora no, che cosa sono veramente?
Una ingegnosa ipotesi vorrebbe che le anime dotate di una tal quale saldezza nell'Inferno, di mano in mano che il Poeta sale, si volatilizzino e diventino progressivamente più diafane ed impalpabili. Ma a ciò contrasta quel che dice lo stesso Poeta, proprio al principio dell'inferno,
 
 
::Noi passavam su per l'ombre che adona
:::La greve pioggia e ponevam le piante
:::sopra lor vanità che par persona:
 
 
e si noti la corrispondenza persino verbale di questa vanità dell'Inferno colle ombre vane del Purgatorio.
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Comunque sia di tutto questo, il Poeta che, viaggiatore curioso ed intelligente, si fermava o rallentava il passo per vedere o per ascoltare, è rimbrottato secondo il solito dal Maestro, il quale voleva far presto a compiere la sua missione:
 
 
::Perchè l'animo tuo tanto s'impiglia,
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:::Sovra pensier, da sè dilunga il segno
:::Perchè la foga l'un dell'altro insolla
 
 
cioè ''debilita.''
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E il poeta, docile all'ammonimento del Maestro segue:
 
 
::Che poteva io più dir se non — I' vegno?
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:::Che fa l'uom di perdon talvolta degno.
 
Ed ecco
 
::Intanto per la costa di traverso
:::Venivan genti innanzi a poco a poco
:::Cantando ''Miserere'' a verso a verso.
 
 
''Miserere!'' Questa parola e questa idea pervadono tutto il Purgatorio. Benchè il concetto di un luogo di attesa dove si scontino le pene dei peccati seguiti da pentimento sia nato tardi nel cattolicismo, poichè S. Agostino e molti dei primi Padri non ne parlano, pure Dante l'accettò dalla comune credenza del suo tempo, secondo la quale, il riscatto delle pene provvisorie poteva ottenersi per preghiere o per offerte e l'abuso di queste condusse in gran parte al grande scisma di Lutero. Così le anime vanno pregando e si raccomandano al vivo viaggiatore perchè rinfreschi nella memoria dei congiunti le preci espiatorie delle quali le donne specialmente pare avessero poca cura, e così Manfredi si raccomanda a Costanza e più avanti Buonconte si duole di Giovanna.
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Ma le ombre
 
 
::Quando s'accorser ch'io non dava loco
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:::Corsero incontra noi a dimandarne:
:::Di vostra condicion fatene saggi.
 
 
E qui Virgilio, dimenticata la severità di prima e il rimprovero: ''Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?'' quasi superbo di esporre un miracolo alle turbe accorrenti, risponde:
 
 
::E 'l mio Maestro: Voi potete andarne
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:::Com'io avviso, assai è lor risposto:
:::Facciangli onore ed esser può lor caro.
 
 
può cioè esser di piacere e di utile a loro, perchè, tornato al mondo, ricorderà ai parenti i suffragi che le anime attendono.
E i messaggeri partono sollecitamente.
 
 
::Vapori accesi non vid'io sì tosto
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:::E giunti là, con gli altri, a noi dier volta
:::Come schiera che corre senza freno.
 
 
Questo terzetto dei ''vapori accesi'', veramente un po' intricato, tormentò molto gli interpreti. Come si interpunge? Deve leggersi: Nè sol — calando nuvole d'agosto... o: Nè — sol calando — nuvole d'agosto? — L'indice della rapidità è dato nell'ultimo verso sempre dai ''vapori accesi'', che sono le stelle cadenti, o dai raggi del tramonto che fendono le nubi? Si volle anche correggere il testo e leggere ''solcar lampo'' o ''solca lampo'' in luogo di ''sol calando'', si volle leggere ''al suol calando'', ma i copisti hanno già troppi peccati da purgare senza gravarli anche di questi.
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Virgilio quindi, rabbonito, concede a Dante di ascoltare le anime, ma senza fermarsi.
 
 
::Questa gente, che preme a noi, è molta
:::E vengonti a pregar, disse il Poeta,
:::Però pur va ed in andando ascolta.
 
 
Parlano le ombre:
 
 
::O anima che vai per esser lieta
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:::Di vita uscimmo a Dio pacificati
:::Che del desio di sè veder, ne accora.
 
 
ci affligge cioè col desiderio vano di poterlo vedere.
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E Dante segue:
 
:::.... Perchè ne' vostri visi guati
:::Non riconosco alcun....
 
Eppure Jacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro avevano avuto parte, di qua e di là, nella guerra aretina cui Dante assistette
 
:::Corridor vidi (notate ''vidi'') per la terra vostra
:::o Aretini....
 
 
e se è controverso che fosse a Campaldino, come afferma Leonardo Aretino, vide certo, e lo dice lui, quelle scorribande e quelle ''gualdane'', che erano vere e proprie ''razzie'', come ora si fanno dagli eserciti della ''Kultur''.
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Il Poeta però non riconobbe nessuna delle ombre accorse:
 
:::Non riconosco alcun, ma s'a voi piace
:::Cosa ch'io possa, spiriti ben nati,
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:::Di mondo in mondo cercar mi si face.
 
E cosi finisce, come chi dicesse il prologo di questo maraviglioso canto che prosegue con una chiarezza, una plasticità di rappresentazione che non abbisogna di comento, o quasi.
 
::Ed uno incominciò: ciascun si fida
:::Del beneficio tuo senza giurarlo
 
 
cioè senza che tu lo giuri
 
 
:::Purchè il voler nonpossa non ricida
 
 
purchè il non potere non si opponga al tuo buon volere; e questo ''nonpossa'' sostantivato sta a riscontro del ''cosa ch'io possa'' di poco fa.
 
 
::Ond'io che solo innanzi agli altri parlo
:::Ti prego, se mai vedi quel paese
:::Che siede tra Romagna e quel di Carlo
 
 
(cioè la Marca, che sta appunto tra la Romagna e la Puglia, signoreggiata da Carlo d'Angiò)
 
 
::Che tu mi sie de' tuoi prieghi cortese
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:::Perch'io possa purgar le gravi offese.
 
Notisi ''offese gravi''; e nel concetto del Poeta non è che queste ombre purganti siano punite per peccati veniali o da poco, ma per ''gravi offese'' e Manfredi aveva già detto "''orribil furon li peccati miei''".
Ma non è più da interrompere Jacopo del Cassero da Fano che seguita:
 
::Quindi fui io (cioè di Fano) ma gli profondi fori
:::Ond'uscì 'l sangue sul quale io sedea
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:::Delle mie vene farsi in terra laco.
 
La migliore, od almeno la più particolareggiata illustrazione a questo passo, ci è data dal comentatore Cassinese, il quale pare che di questi fatti fosse minutamente informato. Traduco il suo barbaro latino:
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Segue un'altra ombra le cui parole sono così evidenti che non abbisognano quasi di chiose. Basta leggerle:
 
 
::Poi disse un altro: Deh, se quel disìo
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:::Giovanna e gli altri non han di me cura,
:::Perch'io vo tra costor con bassa fronte.
 
 
Prima una osservazione di prosodia. Qui Dante fa ''pietade'' di quattro sillabe. Altrove, come nel V dell'Inferno, di sole tre
 
:::L'altro piangeva sì che di pietade:
 
ricordo a quelli che cercano troppo minutamente nel Poema la impeccabilità fino nei minimi particolari e a quelli che nei versi danno la caccia alle dieresi senza badare al contenuto. Dante, e colla saldezza delle ombre e coll'uso delle dieresi fece il suo comodo.
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Ma è da seguitare.
 
 
::Ed io a lui: qual forza o qual ventura
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:::Nel nome di Maria finii e quivi
:::Caddi e rimase la mia carne sola.
 
 
La rotta dei Ghibellini a Certomondo fu sanguinosa, e di Buonconte, uno dei capi, non si trovò nemmeno il cadavere.
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E segue:
 
 
::Io dirò il vero e tu il ridì tra i vivi.
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:::Poi di sua preda mi coverse e cinse.
 
Versi troppo chiari e di evidenza tale che non abbisognerebbero di chiose. Per chi scende dalla Falterona e segue l'Arno che stroscia ancora stretto nella valle, il Pratomagno, catena di monti brulli nella faccia casentinese, è a destra, e il ''gran giogo'', cioè la catena vera e boscosa dell'Apennino, è a sinistra. Le nubi, suscitate dal demonio, coprirono come un tetto la valle del Casentino e gonfiarono gli affluenti dell'Arno, specie quelli che scendevano dal ''gran giogo'' come l'Archiano, che trascinò poi il cadavere. Tutto è evidente, tutto è preciso, sino al vocabolo proprio, ''traversa'', perchè l'Archiano e il Corsalone traversano appunto l'alto Casentino nei pressi di Bibbiena. E si noti anche come ci sia una rispondenza notevole tra questo contrasto del demonio coll'Angelo al capezzale dei morti (così comune nella letteratura del medio evo e rimasto fino a noi nelle stampe popolari) e quello di San Francesco col diavolo nel vigesimo settimo dell'Inferno, dove Guido da Montefeltro e Francesco sono vinti dal diavolo ''loico'' che se ne porta l'anima del padre appunto di Buonconte. Il dramma è lo stesso, ma l'epilogo è diverso. Là vince il diavolo che guadagna l'anima ingannata ''dal principe de' nuovi farisei'', qui vince l'Angelo perchè Buonconte muore pentito e perdonando. Ma ripeto, l'ossatura del dramma è la stessa pel padre e pel figlio e, dal tutto insieme, si ha l'impressione di una tal qual simpatia del Poeta per i ghibellini feltreschi. Non già che il ghibellinismo fosse la causa delle sue simpatie. Gli Estensi, ghibellini, gli sono antipatici e li tratta male. Da altre ragioni movevano i giudizi di Dante che non fu nè guelfo nè ghibellino, ed è strano che si sia voluto cercare e ragionar tanto per sapere di che parte fosse, quando lo disse lui, proprio lui, per bocca di Cacciaguida:
 
:::....................a te fia bello
:::L'averti fatta parte per te stesso.
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Ed eccoci alla Pia, a questa figura velata da un mistero ancora impenetrato, che canta in tono minore quel lamento che nessun'anima pietosa ignora, tanto che sarebbe quasi inutile ripetere quei versi che tutti sanno:
 
 
::Deh, quando tu sarai tornato al mondo
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:::Salsi colui che inanellata pria
::Disposando m'avea con la sua gemma.
 
 
Versi di una musicalità commossa che ci mostrano come il poeta sapesse adattare l'armonia delle parole, la melodia della frase, ai sentimenti che voleva cantare. Altrove le rime aspre e chioccie, qui invece delicatamente modulate in una tonalità malinconica, quasi colla sordina. E il fantasma ci parla basso; nascondendo il volto enigmatico, non che a noi, forse allo stesso Poeta.
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Questo Canto insanguinato, questo Canto degli ammazzati, che comincia colla strage di Jacopo del Cassero, scannato come una fiera inseguita dai cani e dai cacciatori fino tra ''le cannucce e il braco''; che seguita con Buonconte, morto invocando Maria e facendo croce delle braccia, strappato al demonio per generosa pietà del Poeta che lo ebbe avversario; finisce poi col fioco lamento della peccatrice pentita e riconciliata con Dio. C'è un degradare voluto dall'orrido al pietoso. Dopo una introduzione narrativa e piana, si ha un episodio a colori violenti, cui segue un altro dove la ferocità ha minor risalto, finchè si giunge alle sfumature indecise che velano la Pia, questa Sfinge che ci guarda cogli occhi che domandano pietà e nascondono un segreto. Artificio, se si vuole, di ingegno costruttore e calcolatore, ma arte altresì eccelsa, afflato del genio, testimonianza ed affermazione, onore e gloria dell'italianità nel mondo. Da per tutto dove la dolce favella toscana è capìta, da per tutto dove il sì suona, oltre
 
:::''La ruina che nel fianco''
:::''Di qua da Trento l'Adice percosse''
 
oltre l'amarissimo mare, guardato
 
 
:::''Si com'a Pola presso del Quarnaro''
 
da per tutto dove la libertà non è delitto, e il culto della lingua materna non apre le porte del carcere o non caccia per le vie dell'esilio, il canto del Poeta d'Italia suona e suonerà come ammonimento, come augurio, come speranza.