Brani di vita/Libro primo/Piccolo Comento al Canto V del Purgatorio: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Snark (discussione | contributi)
Nuova pagina: {{opera |NomeCognome=Olindo Guerrini |TitoloOpera=Brani di vita |NomePaginaOpera=Brani di vita |AnnoPubblicazione=1908 |TitoloSezione=Piccolo Comento al Canto V del Purgatorio }} {{cap...
 
Nessun oggetto della modifica
Riga 174:
e se è controverso che fosse a Campaldino, come afferma Leonardo Aretino, vide certo, e lo dice lui, quelle scorribande e quelle ''gualdane'', che erano vere e proprie ''razzie'', come ora si fanno dagli eserciti della ''Kultur''.
E poi la controversia della presenza di Dante a Campaldino non può essere risoluta se non si trovano documenti nuovi, il che è difficile. Il compianto Bartoli negava, perchè Dante non dice nulla di un fatto che pure doveva avere per lui così grande importanza; e l'illustre del Lungo rispondeva "a quante ''altre cose fu che non disse''!" Infatti l'argomento ''ex silentio'' è fallace. Vedete: il Bassermann, non minimo dantista, nega che Dante abbia mai salito la Falterona, od almeno ne dubita, perchè nella Comedia non è detto. Sicuro! Nella Comedia non è detto, ma è detto nel Convivio. ''"Veramente io vidi lo luogo nelle coste di un monte in Toscana, che si chiama Falterona, dove il più vile villano di tutta la contrada, zappando, più di uno staio di santelene d'argento finissimo vi trovò"'': e la ''cava degli idoli'', come la chiamano, è ancora presso la vetta della Falterona e Dante ci fu. ''Io vidi'', ci ha detto e l'argomentazione per preterizione è spesso falsa o negligente.
Il Poeta però non riconobbe nessuna delle ombre accorse:
:::Non riconosco alcun, ma s'a voi piace
:::Cosa ch'io possa, spiriti ben nati,
::Voi dite ed io il farò per quella pace
:::Che dietro a' passi di siffatta guida
:::Di mondo in mondo cercar mi si face.
E cosi finisce, come chi dicesse il prologo di questo maraviglioso canto che prosegue con una chiarezza, una plasticità di rappresentazione che non abbisogna di comento, o quasi.
::Ed uno incominciò: ciascun si fida
:::Del beneficio tuo senza giurarlo
 
cioè senza che tu lo giuri
 
:::Purchè il voler nonpossa non ricida
 
purchè il non potere non si opponga al tuo buon volere; e questo ''nonpossa'' sostantivato sta a riscontro del ''cosa ch'io possa'' di poco fa.
 
::Ond'io che solo innanzi agli altri parlo
:::Ti prego, se mai vedi quel paese
:::Che siede tra Romagna e quel di Carlo
 
(cioè la Marca, che sta appunto tra la Romagna e la Puglia, signoreggiata da Carlo d'Angiò)
 
::Che tu mi sie de' tuoi prieghi cortese
:::In Fano sì, che ben per me s'adori,
:::Perch'io possa purgar le gravi offese.
Notisi ''offese gravi''; e nel concetto del Poeta non è che queste ombre purganti siano punite per peccati veniali o da poco, ma per ''gravi offese'' e Manfredi aveva già detto "''orribil furon li peccati miei''".
Ma non è più da interrompere Jacopo del Cassero da Fano che seguita:
Ma non è più da interrompere Jacopo del Cassero da Fano che seguita:
Quindi fui io (cioè di Fano) ma gli profondi fori
Ond'uscì 'l sangue sul quale io sedea
Fatti mi furo in grembo agli Antenori,
Là dov'io più sicuro esser credea.
Quel da Esti il fe' far che m'avea in ira
Assai più là che il dritto non volea.
Ma s'io fossi fuggito in vêr la Mira,
Quand'io fui sovraggiunto ad Oriamo,
Ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al padule e le cannucce e 'l braco
M'impigliar sì, ch'io caddi; e lì vid'io
Delle mie vene farsi in terra laco.
::Quindi fui io (cioè di Fano) ma gli profondi fori
La migliore, od almeno la più particolareggiata illustrazione a questo passo, ci è data dal comentatore Cassinese, il quale pare che di questi fatti fosse minutamente informato. Traduco il suo barbaro latino:
:::Ond'uscì 'l sangue sul quale io sedea
"È da sapere che il Marchese Azzo da Este, signore di Ferrara, tentava con ogni suo potere di insignorirsi di Bologna ed aveva in quella città molti trattati. Il popolo bolognese, considerato ciò elesse per suo Podestà Jacopo del Cassero da Fano il quale, entrato in ufficio, fece prendere molti amici del detto Marchese, cittadini bolognesi che erano entrati in questi trattati e alcuni ne bandì, altri ne fece decapitare, usando sempre parole ingiuriose e grosse contro il detto Azzo: e diceva specialmente che aveva commercio colla matrigna, che era figlio di una lavandaia ed altre cose di obbrobrio. Perciò sempre di poi, il detto Marchese, cercò di farlo assassinare. Finalmente essendo Jacopo eletto da Maffeo Visconti signor di Milano come Podestà della città stessa ed avendo egli accettato, per andare al detto ufficio, partì da Fano e andò per mare sino a Venezia. Di là, volendo andare a Padova, fu ucciso dagli assassini presso una certa villa che si chiama Oriaco, nel distretto di Padova, e il testo dice come fu morto, poichè Marcone da Mestre, del contado di Treviso, lo assassinò e con un roncone gli tagliò la coscia coll'anguinaglia, così che vide il sangue sul quale sedeva, cioè il sangue della coscia e dell'anguinaglia, oppure sul quale sedeva, perchè si dice che l'anima risieda nel sangue. O dirai, e forse con maggior verità, che mentre i bolognesi erano in guerra col Marchese Azzo, Jacopo si trovò ad essere Podestà di Bologna, nel quale ufficio gli fu necessario fare e dire molte cose che il predetto signore ritenne ingiuriose".
:::Fatti mi furo in grembo agli Antenori,
Resta dunque che Jacopo, durante il suo ufficio di Bologna aveva offeso il Marchese, e che questo l'aveva in ira, assai più là che il dritto non volea, e che quando, per andare a Milano, il disgraziato aveva scelto la via di Venezia per evitare il territorio di Ferrara, per opera del Marchese su quella via là dove più sicuro esser credea, fu assassinato.
::Là dov'io più sicuro esser credea.
A quei tempi il canal di Brenta, che era allora un ramo principale del fiume e sboccava a Fusina, impaludava a sinistra; e l'infelice, invece di correr diritto alla Mira, sperando di salvarsi, deviò verso al padule dove fu raggiunto e finito, non senza però aver visto il sangue scorrere dai profondi fori in quel tragitto in cui ebbe tempo di pentirsi e perdonare. Oggi quelle paludi sono bonificate e fertili, ma sopra un muro, credo del Municipio, di Oriago, le terzine di Dante sono incise e quei terrazzani se ne onorano, come fanno quasi da per tutto gli abitanti dei luoghi ricordati dal Poeta. Omaggio e vanto gentile, tanto sacre sono le parole di chi raccolse nel Poema divino le lacrime d'Italia!
:::Quel da Esti il fe' far che m'avea in ira
Segue un'altra ombra le cui parole sono così evidenti che non abbisognano quasi di chiose. Basta leggerle:
:::Assai più là che il dritto non volea.
::Ma s'io fossi fuggito in vêr la Mira,
:::Quand'io fui sovraggiunto ad Oriamo,
:::Ancor sarei di là dove si spira.
::Corsi al padule e le cannucce e 'l braco
:::M'impigliar sì, ch'io caddi; e lì vid'io
:::Delle mie vene farsi in terra laco.
La migliore, od almeno la più particolareggiata illustrazione a questo passo, ci è data dal comentatore Cassinese, il quale pare che di questi fatti fosse minutamente informato. Traduco il suo barbaro latino:
"È da sapere che il Marchese Azzo da Este, signore di Ferrara, tentava con ogni suo potere di insignorirsi di Bologna ed aveva in quella città molti trattati. Il popolo bolognese, considerato ciò elesse per suo Podestà Jacopo del Cassero da Fano il quale, entrato in ufficio, fece prendere molti amici del detto Marchese, cittadini bolognesi che erano entrati in questi trattati e alcuni ne bandì, altri ne fece decapitare, usando sempre parole ingiuriose e grosse contro il detto Azzo: e diceva specialmente che aveva commercio colla matrigna, che era figlio di una lavandaia ed altre cose di obbrobrio. Perciò sempre di poi, il detto Marchese, cercò di farlo assassinare. Finalmente essendo Jacopo eletto da Maffeo Visconti signor di Milano come Podestà della città stessa ed avendo egli accettato, per andare al detto ufficio, partì da Fano e andò per mare sino a Venezia. Di là, volendo andare a Padova, fu ucciso dagli assassini presso una certa villa che si chiama Oriaco, nel distretto di Padova, e il testo dice come fu morto, poichè Marcone da Mestre, del contado di Treviso, lo assassinò e con un roncone gli tagliò la coscia coll'anguinaglia, così che vide il sangue sul quale sedeva, cioè il sangue della coscia e dell'anguinaglia, oppure sul quale sedeva, perchè si dice che l'anima risieda nel sangue. O dirai, e forse con maggior verità, che mentre i bolognesi erano in guerra col Marchese Azzo, Jacopo si trovò ad essere Podestà di Bologna, nel quale ufficio gli fu necessario fare e dire molte cose che il predetto signore ritenne ingiuriose".
Resta dunque che Jacopo, durante il suo ufficio di Bologna aveva offeso il Marchese, e che questo ''l'aveva in ira, assai più là che il dritto non volea'', e che quando, per andare a Milano, il disgraziato aveva scelto la via di Venezia per evitare il territorio di Ferrara, per opera del Marchese su quella via ''là dove più sicuro esser credea'', fu assassinato.
A quei tempi il canal di Brenta, che era allora un ramo principale del fiume e sboccava a Fusina, impaludava a sinistra; e l'infelice, invece di correr diritto alla Mira, sperando di salvarsi, deviò verso al padule dove fu raggiunto e finito, non senza però aver visto il sangue scorrere dai profondi fori in quel tragitto in cui ebbe tempo di pentirsi e perdonare. Oggi quelle paludi sono bonificate e fertili, ma sopra un muro, credo del Municipio, di Oriago, le terzine di Dante sono incise e quei terrazzani se ne onorano, come fanno quasi da per tutto gli abitanti dei luoghi ricordati dal Poeta. Omaggio e vanto gentile, tanto sacre sono le parole di chi raccolse nel Poema divino le lacrime d'Italia!
Segue un'altra ombra le cui parole sono così evidenti che non abbisognano quasi di chiose. Basta leggerle:
 
::Poi disse un altro: Deh, se quel disìo
:::Si compia che ti tragge all'alto monte
:::Con buona pïetade aiuta il mio.
::Io fui di Montefeltro: io son Buonconte.
:::Giovanna e gli altri non han di me cura,
:::Perch'io vo tra costor con bassa fronte.
 
Prima una osservazione di prosodia. Qui Dante fa ''pietade'' di quattro sillabe. Altrove, come nel V dell'Inferno, di sole tre
:::L'altro piangeva sì che di pietade:
ricordo a quelli che cercano troppo minutamente nel Poema la impeccabilità fino nei minimi particolari e a quelli che nei versi danno la caccia alle dieresi senza badare al contenuto. Dante, e colla saldezza delle ombre e coll'uso delle dieresi fece il suo comodo.
Giovanna fu la moglie di Buonconte e pare che dimenticasse troppo presto il marito, tanto che questi versi suonano per lei come duro rimprovero.
Ma è da seguitare.
Ma è da seguitare.
 
::Ed io a lui: qual forza o qual ventura
:::Ti traviò si fuor di Campaldino
:::Che non si seppe mai tua sepoltura?
::Oh, rispos'egli, a piè del Casentino
:::Traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano
:::Che sopra l'Ermo nasce in Apennino.
::Là dove il nome suo diventa vano
:::Arriva' io, forato nella gola,
:::Fuggendo a piede e insanguinando il piano.
::Quivi perdei la vista e la parola
:::Nel nome di Maria finii e quivi
:::Caddi e rimase la mia carne sola.
 
La rotta dei Ghibellini a Certomondo fu sanguinosa, e di Buonconte, uno dei capi, non si trovò nemmeno il cadavere.
Se, come par vero, dopo la battaglia si scatenò un temporale e l'acquazzone di giugno fece correr pieni i torrenti e il fiume, l'ipotesi colla quale il poeta spiega lo smarrimento del cadavere si doveva affacciare ovvia alla sua mente. Ed è anche da notare che dal piano di Campaldino alla foce dell'Archiano intercorrono sei o sette chilometri che Buonconte, scavalcato e ferito nella battaglia, percorse a piedi, sì che ebbe assai tempo da pentirsi e perdonare veggendo scorrere il sangue suo.
E segue:
E segue:
 
::Io dirò il vero e tu il ridì tra i vivi.
:::L'angiol di Dio mi prese e quel d'Inferno
:::Gridava: o tu, dal ciel, perchè mi privi
::Tu te ne porti di costui l'eterno
:::Per una lagrimetta che 'l mi toglie,
:::Ma io farò dell'altro altro governo
::Ben sai come nell'aere si raccoglie
:::Quell'umido vapor che in acqua riede
:::Tosto che sale dove il freddo il coglie.
::Giunto quel mal voler, che pur mal chiede,
:::Con lo intelletto, ei mosse il fumo e il vento
:::Per la virtù che sua natura diede.
::Indi la valle, come il dì fu spento.
:::Da Pratomagno al gran giogo coperse
:::Di nebbia e il ciel disopra fece intento,
::Sì che il pregno aere in acqua si converse:
:::La pioggia cadde ed ai fossati venne
:::Di lei ciò che la terra non sofferse.
::E come a' rivi grandi si convenne,
:::Vêr lo fiume real tanto veloce
:::Si ruinò, che nulla la ritenne.
::Lo corpo mio gelato in su la foce
:::Trovo l'Archian rubesto, e quel sospinse
:::Nell'Arno, e sciolse al mio petto la croce
::Ch'io fei di me quando il dolor mi vinse:
:::Voltommi per le ripe e per lo fondo
:::Poi di sua preda mi coverse e cinse.
Versi troppo chiari e di evidenza tale che non abbisognerebbero di chiose. Per chi scende dalla Falterona e segue l'Arno che stroscia ancora stretto nella valle, il Pratomagno, catena di monti brulli nella faccia casentinese, è a destra, e il ''gran giogo'', cioè la catena vera e boscosa dell'Apennino, è a sinistra. Le nubi, suscitate dal demonio, coprirono come un tetto la valle del Casentino e gonfiarono gli affluenti dell'Arno, specie quelli che scendevano dal ''gran giogo'' come l'Archiano, che trascinò poi il cadavere. Tutto è evidente, tutto è preciso, sino al vocabolo proprio, ''traversa'', perchè l'Archiano e il Corsalone traversano appunto l'alto Casentino nei pressi di Bibbiena. E si noti anche come ci sia una rispondenza notevole tra questo contrasto del demonio coll'Angelo al capezzale dei morti (così comune nella letteratura del medio evo e rimasto fino a noi nelle stampe popolari) e quello di San Francesco col diavolo nel vigesimo settimo dell'Inferno, dove Guido da Montefeltro e Francesco sono vinti dal diavolo ''loico'' che se ne porta l'anima del padre appunto di Buonconte. Il dramma è lo stesso, ma l'epilogo è diverso. Là vince il diavolo che guadagna l'anima ingannata ''dal principe de' nuovi farisei'', qui vince l'Angelo perchè Buonconte muore pentito e perdonando. Ma ripeto, l'ossatura del dramma è la stessa pel padre e pel figlio e, dal tutto insieme, si ha l'impressione di una tal qual simpatia del Poeta per i ghibellini feltreschi. Non già che il ghibellinismo fosse la causa delle sue simpatie. Gli Estensi, ghibellini, gli sono antipatici e li tratta male. Da altre ragioni movevano i giudizi di Dante che non fu nè guelfo nè ghibellino, ed è strano che si sia voluto cercare e ragionar tanto per sapere di che parte fosse, quando lo disse lui, proprio lui, per bocca di Cacciaguida:
:::....................a te fia bello
:::L'averti fatta parte per te stesso.
E consentitemi la gioia di un ricordo. Il ricordo di un sereno meriggio, saettato dal sole, goduto appunto sulla foce dell'Archiano, col Pratomagno severo in faccia, gli alti pioppi dell'Arno, i tremuli salici del torrente, il silenzio appena interrotto dal fruscìo dell'acqua chiara sui sassi e dal canto degli uccelli, mentre una voce, a me cara, ripeteva questi versi immortali. Dolce ora vissuta bene, nella quale i pioppi e i salici e gli uccelli mi dissero che la parola di Dante aveva consacrato la foce deserta alla eternità e che il genio della razza latina era passato di là, ed aveva lasciato il suo segno, con pochi versi più saldi e duraturi che un monumento di bronzo.
Ed eccoci alla Pia, a questa figura velata da un mistero ancora impenetrato, che canta in tono minore quel lamento che nessun'anima pietosa ignora, tanto che sarebbe quasi inutile ripetere quei versi che tutti sanno:
Ed eccoci alla Pia, a questa figura velata da un mistero ancora impenetrato, che canta in tono minore quel lamento che nessun'anima pietosa ignora, tanto che sarebbe quasi inutile ripetere quei versi che tutti sanno:
 
::Deh, quando tu sarai tornato al mondo
:::E riposato della lunga via,
:::Seguitò il terzo spirito al secondo
::Ricorditi di me che san la Pia.
:::Siena mi fe, disfecemi Maremma:
:::Salsi colui che inanellata pria
::Disposando m'avea con la sua gemma.
 
Versi di una musicalità commossa che ci mostrano come il poeta sapesse adattare l'armonia delle parole, la melodia della frase, ai sentimenti che voleva cantare. Altrove le rime aspre e chioccie, qui invece delicatamente modulate in una tonalità malinconica, quasi colla sordina. E il fantasma ci parla basso; nascondendo il volto enigmatico, non che a noi, forse allo stesso Poeta.
Infatti quel che Dante ne dice è ben lungi dal soddisfare la nostra curiosità. Non ne dice il cognome, tace il nome del marito. Il salsi colui, sembra notare che solo il marito seppe il modo e il perchè della morte e che nemmeno il Poeta lo conobbe bene.
Resta solo che nacque a Siena e morì in Maremma, nient'altro. Le ricerche degli eruditi, le carte degli archivi esumate, non fecero che arruffar di più la matassa e i comentatori si contraddicono. Chi, e sono i più, la volle dei Tolomei, chi dei Salimbeni, chi dei Guastelloni, ma le carte mostrano che, di quei tempi, nessuna Pia nacque o fu nella famiglia dei Tolomei. Nello della Pietra, che ne sarebbe stato il marito assassino, risulta per l'atto pubblico del suo testamento che ebbe due mogli, donna Nera e donna Bartala, ricorda le figlie, persino una bastarda, ma di una terza moglie che sarebbe stata la Pia, nessun accenno anche là dove, acconciandosi l'anima, provvede ai piccoli torti che fece, e condona i debiti. I notai che erano rogati dell'atto, conoscevano bene questo Nello dei Pannocchieschi, un po' guerriero, un po' magistrato e un po' ladrone; ma delle conseguenze di un suo preteso matrimonio con una Pia, non si ha parola, nè per l'anima, nè pel corpo, mentre appunto il testatore provvedeva all'anima ed agli interessi mondani. Nello, dunque, non sposò alcuna Pia nè vedova nè ragazza, e morì dopo l'Alighieri. Una Pia Guastelloni entrò in casa de' Tolomei, ma come i documenti provano, viveva ancora nel 1318, quando, certo, il V del Purgatorio era già fatto e non poteva essere l'assassinata. Viluppo inestricabile se documenti nuovi non soccorrono, tanto più che un erudito ricercatore ha trovato ora un altro Nello, cugino e contemporaneo dell'accusato, il quale però, che si sappia, non sposò alcuna Pia. Tutto adunque è buio pesto, tutto si riduce ad ipotesi più o meno verosimili.
E come morì questa Pia? Il Poeta non dice altro che morì in Maremma. La tradizione nei comentatori è anche qui discorde. Chi la volle gettata da un balcone, chi disse semplicemente uccisa. Che, reclusa in un castello in Maremma, vi fosse lasciata morire di febbri, è ipotesi non sostenibile. Sarebbero morti anche i guardiani e poi la morte non sarebbe stata così violenta come è suggerito dalla economia di questo canto. Gettata dal balcone, nello spazio di un secondo o due, avrebbe potuto pentirsi e perdonare? Non sembra. La ipotesi più verosimile è che nel concetto dantesco la morte fosse cruenta, che ella potesse vedere scorrere il suo sangue come gli altri due di sopra, ed avesse perciò avuto il tempo di ravvedersi e riconciliarsi con Dio.
E perchè fu uccisa? Per gelosia, dicono alcuni; perchè Nello voleva sbarazzarsene per sposare una contessa Margherita. Chi sa il vero?
Il fatto è che i più vecchi comentatori ammettendo la ragione della gelosia, dicono, come l'Ottimo, che Nello la fece uccidere, "per alcuni falli che trovò in lei". Benvenuto dice "a causa di qualche sospetto che ebbe di essa". Un altro narra che "avendo costei fama e nome di esser donna vana ed essendone molto geloso, deliberò di ucciderla di nascosto, e così fece. Perchè avendo lo stesso Messer Nello ricevuto una volta un ufficio della città di Siena in Maremma, egli stesso fece andare a lui la Pia così di nascosto che nessuno n'ebbe sentore e, a mezzo il cammino la trucidò così segretamente che nessuno lo seppe, se non egli stesso".
Frate Giovanni da Serravalle che, come frate e come vescovo, poteva avere buoni informatori, anche sulle leggende, dice che il marito la fece uccidere per gelosia, avendo visto un servo usare con lei un atto sconcio, e un altro frate e vescovo anche lui, il Randello, ne trasse una sconcia novella.
Risulta da questo che, per analogia, nella mente di Dante doveva essere che la Pia fosse stata uccisa per ferro, come gli altri, che nell'agonia avesse avuto tempo a pentirsi come gli altri, ma che la morte sua fosse stata così segreta che, come dicono i comentatori, nessun la seppe se non il marito — "Salsi colui...".
Ma risulta anche che nella mente di Dante la Pia aveva peccato, e donna e moglie, non è difficile indovinare di che fosse stimata rea. Aveva peccato perchè, sebbene pentita, la mette in Purgatorio tra i peccatori che si accusano di gravi colpe e non in Paradiso dove, se l'avesse creduta innocente, le avrebbe pur trovato un posticino accanto a Cunizza da Romano, donna di fama non schietta.
Il mistero che copre la Pia — la storia della quale dovette esser pur celebre allora, se Dante le trovò luogo nel poema sacro — fece persino sospettare che essa non fosse che un simbolo, come Matelda o Lia, ma è troppo evidente che il poeta fa parlare qui una peccatrice che fu viva e vera e non simbolo; ma questo mistero attrasse il sensibilismo romantico e ne vennero il poema del Sestini, la tragedia del Marenco seniore, e quadri, e statue, e romanzi, e novelle, ed operette popolari, le quali la celebrano come sposa purissima e di beltà maravigliosa, e del marito fanno un mostro orribile e feroce. Ahi, no! Dante la stimò peccatrice e di lei non si sa nulla di sicuro. Conclusione non pessimista, ma interpretativa dei versi squisitamente dolenti che la riguardano. Con che accenti di pietà non fa il Poeta parlare Francesca? Ma tuttavia la condanna pel suo peccato, come condanna qui questa enigmatica Pia, perchè sembra che quasi lo faccia compiangendo e a malincuore.
Questo Canto insanguinato, questo Canto degli ammazzati, che comincia colla strage di Jacopo del Cassero, scannato come una fiera inseguita dai cani e dai cacciatori fino tra le cannucce e il braco; che seguita con Buonconte, morto invocando Maria e facendo croce delle braccia, strappato al demonio per generosa pietà del Poeta che lo ebbe avversario; finisce poi col fioco lamento della peccatrice pentita e riconciliata con Dio. C'è un degradare voluto dall'orrido al pietoso. Dopo una introduzione narrativa e piana, si ha un episodio a colori violenti, cui segue un altro dove la ferocità ha minor risalto, finchè si giunge alle sfumature indecise che velano la Pia, questa Sfinge che ci guarda cogli occhi che domandano pietà e nascondono un segreto. Artificio, se si vuole, di ingegno costruttore e calcolatore, ma arte altresì eccelsa, afflato del genio, testimonianza ed affermazione, onore e gloria dell'italianità nel mondo. Da per tutto dove la dolce favella toscana è capìta, da per tutto dove il sì suona, oltre
Infatti quel che Dante ne dice è ben lungi dal soddisfare la nostra curiosità. Non ne dice il cognome, tace il nome del marito. Il ''salsi colui'', sembra notare che solo il marito seppe il modo e il perchè della morte e che nemmeno il Poeta lo conobbe bene.
La ruina che nel fianco
Di qua da Trento l'Adice percosse
Resta solo che nacque a Siena e morì in Maremma, nient'altro. Le ricerche degli eruditi, le carte degli archivi esumate, non fecero che arruffar di più la matassa e i comentatori si contraddicono. Chi, e sono i più, la volle dei Tolomei, chi dei Salimbeni, chi dei Guastelloni, ma le carte mostrano che, di quei tempi, nessuna Pia nacque o fu nella famiglia dei Tolomei. Nello della Pietra, che ne sarebbe stato il marito assassino, risulta per l'atto pubblico del suo testamento che ebbe due mogli, donna Nera e donna Bartala, ricorda le figlie, persino una bastarda, ma di una terza moglie che sarebbe stata la Pia, nessun accenno anche là dove, acconciandosi l'anima, provvede ai piccoli torti che fece, e condona i debiti. I notai che erano rogati dell'atto, conoscevano bene questo Nello dei Pannocchieschi, un po' guerriero, un po' magistrato e un po' ladrone; ma delle conseguenze di un suo preteso matrimonio con una Pia, non si ha parola, nè per l'anima, nè pel corpo, mentre appunto il testatore provvedeva all'anima ed agli interessi mondani. Nello, dunque, non sposò alcuna Pia nè vedova nè ragazza, e morì dopo l'Alighieri. Una Pia Guastelloni entrò in casa de' Tolomei, ma come i documenti provano, viveva ancora nel 1318, quando, certo, il V del Purgatorio era già fatto e non poteva essere l'assassinata. Viluppo inestricabile se documenti nuovi non soccorrono, tanto più che un erudito ricercatore ha trovato ora un altro Nello, cugino e contemporaneo dell'accusato, il quale però, che si sappia, non sposò alcuna Pia. Tutto adunque è buio pesto, tutto si riduce ad ipotesi più o meno verosimili.
E come morì questa Pia? Il Poeta non dice altro che morì in Maremma. La tradizione nei comentatori è anche qui discorde. Chi la volle gettata da un balcone, chi disse semplicemente uccisa. Che, reclusa in un castello in Maremma, vi fosse lasciata morire di febbri, è ipotesi non sostenibile. Sarebbero morti anche i guardiani e poi la morte non sarebbe stata così violenta come è suggerito dalla economia di questo canto. Gettata dal balcone, nello spazio di un secondo o due, avrebbe potuto pentirsi e perdonare? Non sembra. La ipotesi più verosimile è che nel concetto dantesco la morte fosse cruenta, che ella potesse vedere scorrere il suo sangue come gli altri due di sopra, ed avesse perciò avuto il tempo di ravvedersi e riconciliarsi con Dio.
E perchè fu uccisa? Per gelosia, dicono alcuni; perchè Nello voleva sbarazzarsene per sposare una contessa Margherita. Chi sa il vero?
Il fatto è che i più vecchi comentatori ammettendo la ragione della gelosia, dicono, come l'''Ottimo'', che Nello la fece uccidere, "''per alcuni falli che trovò in lei''". Benvenuto dice "''a causa di qualche sospetto che ebbe di essa''". Un altro narra che "''avendo costei fama e nome di esser donna vana ed essendone molto geloso, deliberò di ucciderla di nascosto, e così fece. Perchè avendo lo stesso Messer Nello ricevuto una volta un ufficio della città di Siena in Maremma, egli stesso fece andare a lui la Pia così di nascosto che nessuno n'ebbe sentore e, a mezzo il cammino la trucidò così segretamente che nessuno lo seppe, se non egli stesso''".
Frate Giovanni da Serravalle che, come frate e come vescovo, poteva avere buoni informatori, anche sulle leggende, dice che il marito la fece uccidere per gelosia, avendo visto un servo usare con lei un atto sconcio, e un altro frate e vescovo anche lui, il Randello, ne trasse una sconcia novella.
Risulta da questo che, per analogia, nella mente di Dante doveva essere che la Pia fosse stata uccisa per ferro, come gli altri, che nell'agonia avesse avuto tempo a pentirsi come gli altri, ma che la morte sua fosse stata così segreta che, come dicono i comentatori, nessun la seppe se non il marito — "''Salsi colui...''".
Ma risulta anche che nella mente di Dante la Pia aveva peccato, e donna e moglie, non è difficile indovinare di che fosse stimata rea. Aveva peccato perchè, sebbene pentita, la mette in Purgatorio tra i peccatori che si accusano di ''gravi colpe'' e non in Paradiso dove, se l'avesse creduta innocente, le avrebbe pur trovato un posticino accanto a Cunizza da Romano, donna di fama non schietta.
Il mistero che copre la Pia — la storia della quale dovette esser pur celebre allora, se Dante le trovò luogo nel poema sacro — fece persino sospettare che essa non fosse che un simbolo, come Matelda o Lia, ma è troppo evidente che il poeta fa parlare qui una peccatrice che fu viva e vera e non simbolo; ma questo mistero attrasse il sensibilismo romantico e ne vennero il poema del Sestini, la tragedia del Marenco seniore, e quadri, e statue, e romanzi, e novelle, ed operette popolari, le quali la celebrano come sposa purissima e di beltà maravigliosa, e del marito fanno un mostro orribile e feroce. Ahi, no! Dante la stimò peccatrice e di lei non si sa nulla di sicuro. Conclusione non pessimista, ma interpretativa dei versi squisitamente dolenti che la riguardano. Con che accenti di pietà non fa il Poeta parlare Francesca? Ma tuttavia la condanna pel suo peccato, come condanna qui questa enigmatica Pia, perchè sembra che quasi lo faccia compiangendo e a malincuore.
Questo Canto insanguinato, questo Canto degli ammazzati, che comincia colla strage di Jacopo del Cassero, scannato come una fiera inseguita dai cani e dai cacciatori fino tra ''le cannucce e il braco''; che seguita con Buonconte, morto invocando Maria e facendo croce delle braccia, strappato al demonio per generosa pietà del Poeta che lo ebbe avversario; finisce poi col fioco lamento della peccatrice pentita e riconciliata con Dio. C'è un degradare voluto dall'orrido al pietoso. Dopo una introduzione narrativa e piana, si ha un episodio a colori violenti, cui segue un altro dove la ferocità ha minor risalto, finchè si giunge alle sfumature indecise che velano la Pia, questa Sfinge che ci guarda cogli occhi che domandano pietà e nascondono un segreto. Artificio, se si vuole, di ingegno costruttore e calcolatore, ma arte altresì eccelsa, afflato del genio, testimonianza ed affermazione, onore e gloria dell'italianità nel mondo. Da per tutto dove la dolce favella toscana è capìta, da per tutto dove il sì suona, oltre
:::''La ruina che nel fianco''
:::''Di qua da Trento l'Adice percosse''
oltre l'amarissimo mare, guardato
 
:::''Si com'a Pola presso del Quarnaro''
da per tutto dove la libertà non è delitto, e il culto della lingua materna non apre le porte del carcere o non caccia per le vie dell'esilio, il canto del Poeta d'Italia suona e suonerà come ammonimento, come augurio, come speranza.
 
 
====Voci correlate====