Brani di vita/Libro primo/Per una guida: differenze tra le versioni

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::Così ecc.
 
e forse fu quando si recò a San Godenzo con altri illustri fuorusciti per indurre gli Ubaldini a quei tentativi su Ganghereto e Gaville che, come gli altri, riuscirono vani. Il Del Lungo fa risalire al 1302 il documento ''actum in choro Sancti Gaudentii de pede Alpium'' che Dante firmò; ed erano quindi passati 578 anni allorchè noi seguivamo la stessa via.
L'ultima delle casupole che stanno sul valico è l'osteria della Mea, dove giungemmo sull'imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c'era stata in quel giorno una fiera celebre nei dintorni, e la strada, davanti all'osteria, era affollata. Eravamo appena giunti, che tutti quei montanari, come presi da una convulsione fulminea, cominciarono a gridare ed a regalarsi reciprocamente certi pugni che parevano catapulte. La nipote della Mea con un coraggio da amazzone si ficcò a testa bassa nella mischia per difendere il fratello Marco che stava facendo una splendida collezione di quei pugni montanari, e noi dietro per strapparla dalla mischia, prendendola a traverso, tirandola e brancicandola senza riguardo. Se non fossero stati quei benedetti pugni che grandinavano fitti e saporiti, la nostra missione di difensori delle dame sarebbe stata invidiabile, perchè l'Agatina era una bella ragazza in parola d'onore; ma avevamo troppe distrazioni per pensarci bene in quel momento.
Il nostro intervento calmò un poco la burrasca, ed era tempo, perchè de' miei buoni compatrioti che abitano il versante adriatico c'è poco da fidarsi in quelle bufere. Allora volemmo saperne la cagione per toglierla di mezzo ed impedire che si rinnovasse; ma fu inutile. Nessuno, nemmeno i più accaniti combattenti, seppe mai dire il perchè della faccenda; tutti, nessuno eccettuato, protestarono di aver cominciato a picchiare perchè avevano visto gli altri fare lo stesso e non rimase che dar la colpa al vino. Allora, per curare i mali secondo il metodo omeopatico, ''similia similibus'', consigliammo di far portare nuovi fiaschi, ed a maggior gloria del dottor Hahnemann la ricetta operò bene. Non tardò molto che Marco, il più pericoloso dei pugilatori, ruzzolò in un fosso e cominciò a russare come una locomotiva.
Ma per rendere più solida la riconciliazione, pensammo di ricorrere alle delizie della coreografia. C'era un suonatore d'organetto che, per salvare il suo istrumento dalla battaglia, aveva preso tanti pugni quanti ne poteva portare. Lo consolammo a contanti e la Mea portò via la tavola dalla camera più grande, accese quattro candele di sego e diede all'Agatina il grazioso permesso d'aprire il ballo coi pacieri. E si ballò.
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Non ci fu verso di chiuder occhio. Prima cominciammo a prendere la disgrazia con rassegnazione e, distesi sui pagliericci, raccontammo le storielle più allegre, le avventure più galanti del nostro repertorio: poi ci seccammo, ci impazientimmo, ci tornammo a seccare, finchè verso al tocco impresi l'autentica narrazione del mio primo amore ed i miei compagni si addormentarono.
Ma avevamo appena mal chiusi gli occhi, che la guida venne a bussare disperatamente all'uscio urlando che era tempo di partire e, a malincuore, lasciammo i pagliericci inospitali. Nell'oscurità, nell'aria viva della notte che ci intirizziva la midolla delle ossa, era un silenzio perfetto, quasi di aspettazione o di agguato, allorchè la guida, brontolando ancora per la nostra flemma nell'alzarci, cominciò ad inerpicarsi per le coste sassose del monte dei Tramiti ed a raggiungere in fretta la schiena dell'Alpe di San Benedetto. Mal desti, ci pareva di sentire ancora la frenetica ridda dei ballerini sulla nostra testa, ed i riflessi rossi delle carbonaie accese che rompevano qua e là il buio con un bagliore fantastico e misterioso, avevano molto dei sogni cupi che si fanno spesso quando lo stomaco pesa troppo. Queste sono le miglia più antipatiche in una escursione, quando le membra intorpidite chieggono ancora ristoro di sonno e servono per forza. Vengono allora delle vigliacche tentazioni di tornare indietro, che sono ribellioni della pigrizia contro la volontà; vengono certe irritazioni nervose che paiono figlie dell'energia e sono invece dello scoraggiamento, e non c'è che un rimedio: il ''cognac'' generoso a dose alta.
Camminare la notte nei monti deserti per sentieri da capre e non conosciuti, fa sempre una profonda impressione. Si cammina nell'oscurità e nell'ignoto. Qualche volta la guida vi fa fare un salto nel buio, ma non metaforicamente; fisicamente e sul serio. Si va senza sapere quel che ci sia a destra ed a sinistra, o tutt'al più sapendo che sotto quei monti c'è il borro del Forcone, il fosso del Giorgio, o il fosso di San Godenzo, nei quali si può precipitare dall'altezza di qualche diecina di metri; e qualche volta si ha una improvvisa sensazione del vuoto che vi fa allargare le braccia o mettere le mani avanti come se in verità cadeste. Le scarpe ferrate risuonano sulle roccie nude e nel silenzio; poi si cammina sull'erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun rumore. V'accorgete di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta sentite di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo. Il mistero non vi abbandona mai, vi sforza all'attenzione, vi pesa addosso come quando si aspetta qualche cosa e non si sa che.
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Tutto l'Appennino centrale dal Sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e più lontano, sfumate nell'azzurro, facevano capolino vette più alte. L'Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde, ridente quasi ci tendesse le braccia, si apriva il bel Casentino fino ad Arezzo. Si può campare mille anni, ma quell'istante non si può più dimenticare. Viene un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime vi sgomenta e vi sentite costretti a chiuder gli occhi per la vertigine dell'immenso. La vita ha poche ore così piene, così grandi. Scendere è un dolore.
Eppure, ahimè! ci toccò discendere. Sedemmo intorno alla sorgente dell'Arno bevendo l'acqua limpida e gelata del ''fiumicel che nasce in Falterona'', e rovinammo giù a valle, per le chine sassose, tra le ginestre dai fiori gialli, sui sentieri arsi e bianchi che menano a Stia.
Entrati nella patria del Tanucci, la gente ci guardava con molta curiosità, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino.
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— Indegnamente, — rispondemmo.
Era socio anch'egli e ci fece un mondo di utili gentilezze. Volle che io dormissi a casa sua, ed il mattino ci accompagnò per un buon tratto di via nella nostra salita per Segaticci verso Camaldoli all'Eremo. Andavamo alle sorgenti del Tevere. Un anno dopo, l'avv. Carlo Beni, il mio gentile ospite di Stia, mi scrisse per annunciarmi che aveva scritto la ''Guida'' del suo Casentino e desiderava una mia prefazione. La lettera mi giunse mentre ero afflitto da domestiche disgrazie, e, lo confesso, alle sue cortesie risposi con una villania: non risposi.
Ora la ''Guida'' è stampata a Firenze dal Niccolai ed è certo una delle migliori e più pratiche ''Guide'' che siano uscite in questi anni ad illustrare una regione bella, industriosa, invidiabile. Colgo dunque questa occasione per fare ammenda onorevole della involontaria scortesia, e per chiedere perdono ai lettori della seccatura.
Ma se capitano in Casentino mi perdoneranno di certo.