Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso primo: differenze tra le versioni

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Ma la lingua italiana non rimase in questo stato di prosperità più d’un secolo; poichè poco più di trenta anni dopo la morte del Boccaccio, non vi fu, per così dire, più nè scrittore, nè lingua. Tutti gli uomini si vergognavano di scrivere in altra lingua fuorchè in latino; e fra l’anno 1400 e l’anno 1480, in cui comincia l’epoca celebre di Lorenzo de’ Medici, appena troviamo tre o quattro scrittori che meritino d’essere studiati per la correzione. Fra l’altre ragioni che si paleseranno da sè, allorchè il corso di queste letture ci condurrà a quell’epoca, ve n’è una non osservata, ch’io mi sappia, da quanti trattarono la storia della letteratura italiana; ed è, che i padri e i maestri, per favorire lo studio del greco e del latino, proibivano non solo lo scrivere in italiano, ma lo studiare gli autori più celebri della loro patria. Il Varchi, che era giovinetto verso la fine dell’epoca di Lorenzo de’ Medici, scrive ciò ingenuamente di sè e del suo maestro nell’Ercolano; ed io citerò le sue parole: «Quando il Magnifico Giuliano fratello di papa Leone era vivo, che sono più di quaranta anni passati, [...] la lingua fiorentina, come che altrove non si stimasse molto, era in Firenze per la maggior parte in dispregio; e mi ricordo io, quando era giovanetto, che il primo e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a’ figliuoli, e i maestri a’ discepoli, era che eglino nè per bene, nè per male non leggesseno cose volgare (per dirlo barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore, uomo di duri e rozzi ma di santissimi e buoni costumi, avendo una volta inteso, in non so che modo, che Schiatta di Bernardo Bagnesi e io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse della scuola.»
 
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