Il Santo: differenze tra le versioni

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«Io ti sonderò l’anima con una sonda che porterà su perle tanto grandi, tanto belle e anche forse qualche alga, qualche poco di fango del fondo e forse una piccolissima ''piœuvre''.»
 
 
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«Non mi conosci» replicò Jeanne. «Sei la sola persona, fra i miei amici, che non mi conosce.»
 
«Già, solamente quelli che ti adorano ti conoscono, penso io, eh? Oh sì, questa è una mania che hai, di credere che tutta la gente ti adora.»
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sposato, dopo un idillio singolare e poetico, il vecchio pensatore italiano Giovanni Selva, che sarebbe popolare in Italia se gl’italiani avessero maggiore interesse per gli studi religiosi; poiché il Selva è forse il più legittimo rappresentante italiano del cattolicesimo progressista. Maria si era fatta cattolica prima del matrimonio. I Selva passavano l’inverno a Roma, il resto dell’anno a Subiaco. Noemi, serbatasi fedele alla religione de’ suoi padri, alternava Bruxelles con l’Italia. Ora la vecchia istitutrice, colla quale viveva, era morta a Bruxelles da un mese, alla fine di marzo. Né Giovanni Selva né sua moglie avevano potuto, per una indisposizione del primo, venire ad assistere Noemi in quei frangenti. Jeanne Dessalle, che si era legata particolarmente a Noemi, aveva persuaso il fratello a un viaggio nel Belgio, da lui non conosciuto, e quindi offerto ai Selva di recarsi a Bruxelles in loro vece. Così era avvenuto che Noemi si trovasse con i Dessalle a Bruges verso la fine di aprile. Vi abitavano una villetta in riva al breve specchio d’acqua che chiamano ''Lac d’amour''. Carlino si era innamorato di Bruges e particolarmente del ''Lac d’amour''come titolo di un romanzo che andava sognando di scrivere, senza tenerne ancora in mente molto più che la compiacenza profetica di aver mostrato al mondo uno squisito e originale magistero di arte.
 
 
«''
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«''En tout cas''» replicò Noemi «di tutto cuore, no!»
 
«Perché?»
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Ella non raccontò a Noemi quei particolari della morte di don Giuseppe, ma li ripensava con l’oscuro senso, mortalmente amaro, di una ben altra sorte che le sarebbe toccata s’ella pure avesse potuto credere così; perché in fondo all’anima di Piero Maironi vi era sempre stata una religiosità atavica e oggi ella era convinta che confessandogli, la sera dell’eclissi, di non credere, aveva scritto la propria sventura nel libro del destino. E pensava un’altra taciuta parte angosciosa della lettera venuta dall’Italia. Si vedeva il suo soffrire benché non lo dicesse. Noemi le posò, le fermò silenziosamente le labbra in fronte, vi sentì l’occulto dolore che accettava la sua pietà, si sciolse infine dal bacio lenta lenta, quasi temendo guastar qualche delicato filo tra le congiunte anime, mormorò:
 
 
«
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«Forse questo vecchio buono sapeva dove…. Credi che fosse in relazione…?»
 
Jeanne accennò di no. Nel settembre successivo al luglio doloroso il suo disgraziato marito era morto a Venezia, di ''delirium tremens''. Ella era andata a villa Flores nell’ottobre e là nello stesso giardino dove anche la marchesa Scremin era venuta aprendo a Don Giuseppe il suo povero vecchio cuore tribolato, gli aveva espresso il desiderio che Piero sapesse di questa morte, sapesse di poter pensare a lei, se ciò gli avvenisse mai, senza ombra di colpa. Don Giuseppe l’aveva prima dolcemente sconsigliata dal perdersi dietro a quel sogno, e poi le aveva detto, con sincerità intera, che nessuna notizia gli era pervenuta mai di Piero dal giorno della sua scomparsa.
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«Tu o lei non importa» rispose, quando Noemi, fermatagli la sciarpa con uno spillo, licenziò il romanziere in fasce. «E andate dove volete! Purché adesso si vada verso il centro e si ritorni per l’altro lato del ''Lac d’amour''. E parlate di qualche cosa che v’interessi molto.»
 
 
«
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«Presente Lei?» fece Noemi. «Com’è possibile?»
 
Carlino le spiegò che non si sarebbe accompagnato a loro, che le avrebbe seguite col taccuino e la matita alla mano. Bisognava però che sostassero di tratto in tratto a piacer suo, e che, s’egli significasse loro qualche altra sua volontà, obbedissero.
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«Parlami del tuo frate.»
 
 
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«Ah, il frate, sì!» rispose Noemi e gridò a Carlino che l’avrebbero accontentato ma che stesse più lontano. Dal ''quai’'''du’'''Rosaire''non si vedevano più i cigni che Noemi aveva scôrti la mattina pavoneggiarsi nel canale, turbandovi con le scie lente i languidi spettri di quell’accozzaglia di case e casucce che levano dall’acqua, come bestie satolle, le lunghe facce orecchiute, e guardano stupide, quale a un verso, quale a un altro, nella custodia dell’imminente torrione delle ''Halles''. Ora la luna batteva di sghembo alle case, stampava sulle une l’ombra delle altre, e glorificava comignoli e pinnacoli, l’aguzzo cappello da mago caldeo di una vecchia torricciula, e sopra la intera scena il sublime diadema ottagonale della torre possente; ma non toccava l’acqua nera. Tuttavia Jeanne e Noemi, chine sulla sbarra del parapetto, guardarono a lungo, Noemi parlando sempre, nell’acqua nera; tanto a lungo che Carlino ebbe tempo di riempire tre o quattro pagine del suo taccuino e anche di disegnare i fregi onde un ambizioso mercante brugitano cinse sulla facciata della propria casa cifre dell’anno memorabile 1716, in cui fu veduta per la prima volta dal sole, dalla luna e dagli astri.
 
Il frate era un benedettino del monastero di Santa Scolastica in Subiaco. Si chiamava don Clemente.
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Ella strinse convulsivamente, senza parlare, il braccio di Noemi. Attraversarono la piazza in silenzio. Carlino le mise per una via a sinistra, pure deserta ma tutta chiara della luna imminente ai dentati culmini bruni delle case. Jeanne mormorò alla sua compagna:
 
 
«
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«Affrettiamo, ritorniamo a casa presto».
 
Ma Carlino, udendo un suono di musica da ballo venire dall’''Hôtel de Flandre'', ordinò loro di fermarsi e diede di piglio al taccuino. Noemi stava dicendo qualche cosa sull’''Hôtel de Flandre''dove aveva alloggiato anni prima, quando Jeanne le domandò di scatto:
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«Perdonami!» supplicò Noemi. «È un dubbio, dopo tutto, è una congettura. Sì, lo dice.»
 
 
«
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«No!» fece Jeanne, risoluta, scotendo via il dubbio e la congettura. «Non è lui, non è possibile. Non è mai stato musicista!»
 
«No, no, non sarà lui, non sarà lui» si affrettò a dire a Noemi, sotto voce, perché veniva Carlino. Questi sopraggiunse, lodò, espresse il desiderio che si inoltrassero lentamente fra gli alberi.
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La giovine moglie lo guardò, sorrise alla sua volta.
 
 
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«Anche tu, forse, non mi hai detto proprio tutto tutto di quei momenti.»
 
Giovanni le prese il collo fra le mani, le mormorò all’orecchio:
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Allora egli aveva parlato sommessamente, con parole rotte, della sua ebbrezza, del suo amore, del suo rapimento, e non si era poi accorto di avere oltrepassato l’albergo e per ben due volte né l’una né l’altro avevano udito il portiere chiamarli alle spalle: «''Monsieur''! ''Madame''! ''C’est ici''! ''C’est ici''!» Poi la viaggiatrice era salita nella sua camera, sorridente, ma pallida di stanchezza e di mal di capo. Giovanni aveva ripreso a passeggiare fra gli orti e i frutteti piani di Hergyswyl, a caso, respirando da uomo spossato per l’eccesso del sentire, benedicendo ogni sasso e ogni foglia del verde angolo di terra straniera, il lago che gli dorme in seno, la folla, in faccia, delle grandi religiose montagne, benedicendo Iddio che gli aveva donato, alla sua età, un tale amore. Ed era ritornato presto, troppo presto, all’albergo. I due soli ospiti del piccolo albergo in quel giorno di maggio, un vecchio professore tedesco e sua figlia, erano saliti al Pilato. Nel salottino di lettura non c’era nessuno. In quel salottino Maria e Giovanni avevano passato due ore felici, tenendosi per mano, parlando a bassa voce, palpitando spesso di paura che qualcuno entrasse.
 
 
«
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«Ti ricordi» disse Maria «che nel salottino, di fianco al canapè dove eravamo seduti, ci stava un caminetto?»
 
«Sì, cara.»
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Seguì un silenzio profondo. L’abate Marinier stava per parlare quando si alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno d’intelletto, era atteggiato a gravità solenne.
 
 
«
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«Io credo» diss’egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di vita «che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l’anima nostra in Dio, silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È questo che io faccio e prego fare con me.»
 
Ciò detto, il professore Dane s’incrociò le braccia sul petto, piegò il capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l’abate Marinier, giunsero le mani. L’abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l’aria. Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora.
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Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse ogni persona. Dane disse lentamente: «esercitata con le debite norme.» Quel moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese:
 
 
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«Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto verso nessuno!»
 
Don Paolo scattò da capo. «Odio no ma sdegno sì! ''Circumspiciens eos cum ira!''»
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L’abate tacque e Giovanni prese la parola.
 
 
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«Forse il signor abate» diss’egli «non ha potuto formarsi ancora un giusto concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo unire in Dio Verità col desiderio ch’Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non pensiamo di promuovere un’azione collettiva né pubblica né privata per attuare una riforma o l’altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell’idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor abate Marinier, quell’accordo negativo ch’egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente
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come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell’amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor abate?»
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«Il tempo, signori» esclamò il vecchio frate «domanda un’azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all’azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!»
 
 
«
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«Ma come?» domandò Farè. Minucci brontolò seccato:
 
«Non è questo.»
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Maria trasalì. «Due signore?» diss’ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente.
 
 
«
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«Potrebbero venire anche al secondo» diss’egli. Maria esclamò:
 
«Lei sa qualche cosa!» e gridò abbasso:
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Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando:
 
 
«
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«Dove andate?» e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l’ortolano che lo attendeva nell’angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s’incontra col monte. Chiamò «Benedetto!» e si volse a Selva. «Se Lei volesse mostrargli il campicello?» Giovanni rispose: «A quest’ora?» mentre sua moglie diceva piano a Noemi: «C’è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino.» Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero.
 
«Perché?» disse. «Sono terribili?» E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l’intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: «che fai?» vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall’ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa.
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Nello scendere al cancello della villa don Clemente si domandava con ansia segreta: l’avrà riconosciuta o no? E se l’ha riconosciuta, quale impressione gli avrà fatto? Giunto al cancello, si voltò a colui che aveva chiamato Benedetto, gli scrutò il viso, un viso scarno, pallido, intellettuale. Non vi lesse turbamento. Quegli occhi lo fissavano attoniti, quasi dicendo: perché mi guarda? Il monaco pensò: forse non l’ha riconosciuta o forse non suppone che io sappia del suo arrivo. Passò il braccio sotto quello del compagno, pigliò, tenendoselo stretto senza parlare, a sinistra, verso la fragorosa gola oscura dell’Aniene. Fatti pochi passi sotto gli alberi che fiancheggiano la via, gli disse: «Non mi domandi della riunione?» con maggiore dolcezza che le parole indifferenti non comportassero. Quegli rispose:
 
 
«
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«Sì, mi racconti.»
 
La voce era fioca e vuota di desiderio. Don Clemente si disse: «l’ha riconosciuta» e parlò della riunione come persona preoccupata di altro, senza calore, senza cura di particolari; né fu interrotto mai dal compagno con domande o commenti.
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«Eh, sì!»
 
 
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«Bene bene bene» fece l’Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. «Io non conosco questi signori Selva, ma c’è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l’ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono – un pezzo grosso, capite, – che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c’è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?»
 
Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî;, ma come lo stesso padre Abate avrebbe potuto parlarne.
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Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l’ospitalità concessa dall’Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l’aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch’era suo dovere e suo desiderio d’informarlo.
 
 
«
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«Questo giovine» diss’egli «è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell’avrà udito nominare la famiglia. Suo padre, don Franco Maironi'', ''sposò una donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa.»
 
«Oh!» esclamò l’Abate. «L’ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo!
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Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l’obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell’Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl’indici verso Castel Sant’Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un’ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull’Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: «Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!» E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la vita, la pace ardente dell’anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l’erbe intorno.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/130]]==
«Sei Tu» egli gemette «sei Tu, sei Tu?»
 
Il vento tacque.
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La voce piagnolosa tacque un momento e riprese:
 
 
«
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«Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?»
 
«Dieci volte te l’ho promesso!»
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«Questo lo dici perché te l’ho detto io» ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. «Tu non puoi saperlo!»
 
 
«
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«Bon, ç;a!» brontolò Noemi. «C’est elle qui me l’a dit et je ne dois pas le savoir!»
 
Silenzio.
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Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/143]]==
«Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!»
 
Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s’incontrano.
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Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/144]]==
«Dunque?»
 
«Piove.»
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Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/150]]==
«Voglio esser bella!» esclamò Jeanne. «Ecco!»
 
Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov’era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell’anticamera.
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«Ero per venire da Vostra Paternità.»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/157]]==
«Chi vi ha detto di venire da me?»
 
«Don Clemente.»
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Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all’omaggio di rito quando l’Abate lo trattenne con un gesto.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/162]]==
«Aspettate» diss’egli.
 
Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole.
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«Posso non rispondere? Posso pregare un momento?»
 
 
«
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«Sì, caro, sì.»
 
Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l’inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l’anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: «''omnes superbiae’'''motus ligno crucis affigat''.» Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov’eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell’uomo prosteso e dell’uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell’Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva.
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Jeanne e Noemi arrivarono al monastero alle dieci. A pochi passi dal cancello Jeanne fu presa da una palpitazione violenta. Avrebbe desiderato visitare l’orto prima del Convento, poiché il monello di Subiaco le aveva detto che i frati di Santa Scolastica ci avevano un bell’orto e gente loro che vi lavorava: un vecchio di Subiaco e un giovine forestiere. Non era più da parlarne. Pallida, sfinita, si trascinò male, al braccio di Noemi, fino alla porta dove un accattone aspettava la minestra. Per fortuna fra Antonio aperse prima ancora che Noemi suonasse e Noemi lo pregò di una sedia, di un bicchier d’acqua per la signora che si sentiva male. Sgomentato alla vista di Jeanne, smorta smorta, cadente sul fianco della sua compagna, il vecchio umile fraticello pose in mano a Noemi la scodella di zuppa che aveva portata per l’accattone, corse per la sedia e per l’acqua. Un po’ la comicità di quella scodella fra le mani di Noemi sbalordita, un po’ il riposo, un po’ l’acqua, un po’ la visione del chiostro antico dormiente in pace, un po’ il reagire della volontà ristorarono sufficientemente Jeanne in pochi minuti. Fra Antonio andò in cerca del Padre foresterario che guidasse le visitatrici.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/170]]==
«Gli dica le due signore di casa Selva « fece Noemi.
 
Don Clemente si presentò arrossendo, nel suo verginale candore d’animo, di conoscere i casi di Jeanne all’insaputa di lei, come avrebbe arrossito di un inganno. Scambiò Noemi, che prima gli si fece incontro, per la Dessalle. Alta, snella, elegante, Noemi rappresentava bene una seduttrice; però non mostrava più di venticinque anni, non poteva essere, per questo verso, la donna di cui Benedetto gli aveva raccontate le vicende. Ma il benedettino non seppe fare di questi calcoli. A Noemi premeva di assicurarsi che fra Antonio avesse adempiuto bene il suo incarico.
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Nell’udire la voce strana dell’amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell’ombra della parete.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/188]]==
«Chi?» diss’ella.
 
Il monaco, che intanto aveva aperto, intese «qui?» e riferì la parola a un discorso di prima.
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Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sé stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch’era in lui frutto d’ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch’è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch’è freddo amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al padre. Ma quest’ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel capo la soave indulgenza Divina.
 
 
«
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«Sai» diss’ella «ti offro subito io un’opera di carità che avrà molto merito. C’è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto.»
 
«Chiamala» diss’egli.
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«Oh ma..!» esclamò il padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: «non è detto che tu non lo riprenda, l’abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!» e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il padre si affrettò a parlare d’altro, scusò l’arciprete ch’era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l’Autorità.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/255]]==
«Io gli perdono» disse Benedetto «e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s’intende che operando contro il Bene o astenendosi da operare contro il Male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s’intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il Bene, non astenendosi mai da operare contro il Male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il Bene o a favore del Male, deponendo ai loro piedi la propria vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!»
 
A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un
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Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un’altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/258]]==
«Anch’io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall’anima tua.»
 
Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l’abito deposto dal discepolo. Raccolto che l’ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l’ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell’interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni.
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}}
 
 
e
==[[Pagina:Il Santo.djvu/261]]==
e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza.
 
«No no no» mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose:
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Noemi intese. Qualunque altro l’avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/268]]==
«Ho l’incarico» diss’egli «di domandarle se sa niente di una persona ch’Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores.»
 
Benedetto trasalì. Non si aspettava questo.
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Stava per dire «che gli porta» si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, «… con tutto l’amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d’incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest’abitudine del Bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio.»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/271]]==
«Grazie» disse Noemi. «Grazie per l’amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?»
 
La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell’amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne.
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Benedetto rispose con qualche severità nella voce:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/281]]==
«Perché mi dice questo?»
 
Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata:
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Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/282]]==
«A Dio.»
 
Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell’anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell’Aniene gli rugge in profondo, più e più forte:
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CAPITOLO SESTO.
 
 
'''
==[[Pagina:Il Santo.djvu/283]]==
'''Tre lettere'''.
 
'''Jeanne a Noemi.'''
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La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l’imbarazzo e il dispetto, ch’era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta.
 
 
« Eh!
==[[Pagina:Il Santo.djvu/313]]==
« Eh! Sempre nel giardino di mia cognata» diss’ella.
 
«Sempre nel giardino?» esclamò la marchesa. «È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?»
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«Per conto mio» riprese ad alta voce «capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl’intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l’uomo m’ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo.»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/326]]==
«Io non desidero di vederlo» s’affrettò a dire Jeanne.
 
«Davvero?» esclamò l’amica. «Ma come? Mi spieghi questo enigma.»
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E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/328]]==
«Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!»
 
Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L’idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi.
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Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l’accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/362]]==
«Prega per me, prega che il Signore m’illumini.»
 
Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare.
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Benedetto s’inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell’ombra:
 
 
«''
==[[Pagina:Il Santo.djvu/363]]==
«''Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.''»
 
Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve.
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Benedetto ripose frettolosamente la lettera. Ma poiché nessuno compariva e tutto pareva dormire intorno a lui, la cavò, riprese a leggerla. Seguiva così:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/374]]==
«In Vaticano si è poco contenti, dopo le sue visite, del Santo Padre, il quale, fra l’altre cose, ha richiamato a sé l’affare Selva dalla Congregazione dell’Indice. Ella non può immaginare gl’intrighi che si tramano contro di Lei, le calunnie che si fanno arrivare anche ai Suoi amici, tutto per lo scopo di allontanarla da Roma, di impedire ch’Ella veda più il Pontefice. Si è ottenuto che il Governo aiuti la congiura promettendogli in compenso di non mandare ad effetto certa nomina di persona molto sgradita al Quirinale, per la sede arcivescovile di Torino. Non ceda, non abbandoni il Santo Padre e la Sua missione. La minaccia per l’affare di Jenne non è seria, sarebbe impossibile di procedere contro di Lei e lo sanno. Chi non Le può scrivere ha saputo tutto questo, lo ha fatto scrivere a me, lo farà pervenire a Lei.
 
NOEMI D’ARXEL.
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Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell’altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l’aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/383]]==
«Non creda, sa, caro signor Maironi» diss’egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, «non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos.»
 
Detto così, l’uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto.
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Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/386]]==
«Oh no» esclamò «adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l’ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: – ''Quid est veritas? ''Ora Lei non è disposto a ricevere la verità, come non vi era disposto Pilato.»
 
«Oh!» esclamò il suo interlocutore. «E perché?»
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La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n’andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/413]]==
«Io?» rispose colui. «Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!»
 
«E allora?» fece l’ostessa. «Dove sarà andato?»
Line 4 279 ⟶ 4 278:
Vendicatosi così, l’omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/432]]==
«Parlerò al signor Giovanni» diss’ella. «Credo però» soggiunse esitando «che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare.»
 
Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso.
Line 4 308 ⟶ 4 307:
«Ma Lei» disse Maria «perché crede che ci abbia interesse?»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/435]]==
«Eh» rispose di Leynì «ho un messaggio per lei, che riguarda lui, capirà!»
 
Di Leynì, devoto a Benedetto di una devozione senza confini, non aveva mai creduto alle voci calunniose sparse sul suo conto, le aveva respinte sempre con appassionato sdegno. Non ammetteva del suo maestro né amori colpevoli né amori ideali. Nel fare quella domanda non gli era potuto passare per la mente che fra la Dessalle e Benedetto vi fosse una relazione non confessabile. Giovanni troncò il discorso dicendo che la Dessalle avrebbe anche potuto tardare molto e che intanto di Leynì parlasse.
Line 4 331 ⟶ 4 330:
I Selva avevano spesso interrotto di Leynì con esclamazioni di sorpresa e di sdegno. Finito ch’egli ebbe il suo racconto, tacquero, sbalorditi. Prima a interrompere il silenzio fu la signora Maria.
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/438]]==
«Questa Jeanne che non viene!» diss’ella, piano.
 
Fece un segno impercettibile a suo marito e gli propose di andare insieme a vedere se fosse rientrata e non l’avessero avvertita. Nell’attraversare il ''jardin d’hiver''gli disse che le pareva necessario di far sapere a di Leynì chi fosse veramente la signora Dessalle. Jeanne non era rientrata. Giovanni prese a parte il giovine, gli parlò sotto voce. Maria, che lo guardava, lo vide trasalire, spalancare gli occhi, impallidire; quindi parlare alla sua volta, domandare qualche cosa. Jeanne Dessalle entrò frettolosa, sorridente.
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«No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s’inganni, speriamo che s’inganni!»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/445]]==
«Dio, Selva, ma se il medico scrive ch’è senza febbre!»
 
Selva fece il gesto di chi è costretto ad ammettere una sventura senza comprenderla. La musica taceva, egli parlò sotto voce. Benedetto gli aveva scritto. Il medico lo aveva trovato senza febbre ma egli presentiva un nuovo accesso dopo il quale sarebbe venuta la fine. Iddio gli faceva la grazia di un’attesa quieta e dolce. Aveva una preghiera da fargli. Sapeva che la signora Dessalle, amica della signorina Noemi, era in Roma. Egli aveva promesso a questa signora, davanti a un altare del Sacro Speco, di chiamarla a sé, prima di morire, per un colloquio. Molto probabilmente la signorina Noemi gliene potrebbe dire il perché.
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«Lei sa» rispose Benedetto, non più sorridente, «che prima vi avrà…»
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/459]]==
«So quello che volete dire» interruppe il professore. «Venite in pace, caro. Non sono credente come voi ma lo vorrei essere e aprirò rispettosamente la mia porta a chi vorrete voi. Intanto prenderemo questo, vero?»
 
Staccò dalla parete il Crocifisso che Benedetto aveva portato con sé e prese l’infermo nelle sue braccia potenti.
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perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così obbedita solamente a parole la legge che all’amore di sé stesso antepone l’amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perché gli fosse facile trovare scuse all’errore, imputarlo a maestri, ma perché gli era dolcezza sentire il proprio niente nell’onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato dall’insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua vita, tutta un tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il proprio niente anche nella vita posteriore alla sua conversione, impulso e opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro l’impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel «sé» che lo tardava. Conobbe parte di questo «sé» pesante anche l’affetto alla Visione, aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch’egli esclamò alzando di scatto la testa dal guanciale:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/469]]==
«Ah!»
 
La suora si era appisolata ma il professore no.
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Il giovinetto biondo passò avanti agli altri, s’inginocchiò, rigato il viso di tacite lagrime, al letto del Maestro che gli posò la mano sul capo e riprese:
 
 
«
==[[Pagina:Il Santo.djvu/474]]==
«Restate uniti.»
 
Le dolorose parole taciute accorarono maggiormente; ma ciascuno sentì che quell’anima era per dare l’ultima luce di ammaestramento e di consiglio, ciascuno represse il pianto. La voce di Benedetto suonò nel silenzio più profondo.
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{{Centrato|'''FINE.'''}}
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