Pensieri e discorsi/Un poeta di lingua morta: differenze tra le versioni

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Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte.
 
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Sì che quando, or sono pochi mesi, mi trovai in quel lembo d’Italia, io ripensai subito al poeta, al Genio del luogo. Egli era bene un poeta, e il poeta, sapete, è quasi un creatore, poichè è colui che con le parole — fiat lux — illumina d’un tratto l’oscurità che ne circonda. Certo la stella e il fiore, la serenità e la tempesta erano anche prima che il poeta ne parlasse, e voi avevate gli occhi per vederle; ma voi non guardavate, e le cose belle erano come se non esistessero: la sua parola fu che per voi le creò. E così io pensava a questo poeta dell’estrema Italia, dove le onde greche si fondono con le latine, come a uno spirito misteriosamente remoto che da un suo speco vegliasse a creare questo mondo fantastico con le Nereidi ululanti dal mare e con le città morte pendenti nel cielo. Mi aveva l’aria, questo poeta segregato dal mondo, se m’è lecito dirlo, d’un Proteo vecchio marino verace, che sapesse i gorghi di tutto il mare.
 
==I.==
 
E vecchio era e solitario, e schivava il consorzio e la vista degli uomini. Raccontano che si facesse portare solo in luoghi solinghi, dove scendeva e passeggiava: per che cosa se non per ascoltare ciò che gli avrebbero sussurrato le creature de’ suoi poemi? per ritrovarsi nel mondo suo, cui discinde dal nostro l’inguadabile oceano della morte? Perchè egli era veramente un antico, un evaso al passato, un superstite alla rovina della poesia pagana; e provava lo spasimo del passato non senza mostrare ai lieti o indifferenti del nostro tempo, nostro e non suo, quel corrugamento della fronte, che pare disprezzo ed è dolore. Diceva sorridendo d’essere già vissuto tra Cicerone e Virgilio, e che si piacque di rivivere ora. Ma io risalirei più lontano. In lui era il Greco; e qualche sua poesia sente la mollezza ardente dell’antichissimo suo concittadino Ibyco. E non importa soggiungere che poetava anche in greco con elegante facilità. Ma, greco o latino, egli sdegnava il presente, nè solo in letteratura e filologia, sì un poco in tutto. Anche scrivendo l’italiano, egli non voleva essere de’ nostri, e usava la lingua del cinquecento. In somma egli viveva di cose svanite, e il suo pensiero aveva continuamente bisogno di risuscitare bellezze morte.
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E se non unica, era tuttavia oro fine un’opera dell’un d’essi. Nessun lavoro di questi pazienti artefici di latinità aveva mai levato tanto grido quant’uno, il primo forse, del poeta Reggino: lo Xiphias, premiato mezzo secolo fa da quella che ora è la R. Accademia Neerlandica e allora era l’Istituto Belgico. E a me fanciullo si diceva che quel poemetto era il più bel ramo fatto germinare, per dirla col Regaldi, da quell’albero morto che è l’antichità classica. L’età non ha modificato quel giudizio. Sì che io vedendo, pochi mesi sono, quel mare e quel lido, che erano così limpidamente descritti nel poemetto, sì, pensavo con venerazione al vecchio mago che con una lingua morta aveva saputo creare cosa tanto viva.
 
==II.==
 
E avrei voluto vederlo. Solo vedendolo e parlando con lui mi pareva che avrei avuto intera la visione che mi incantava.
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Eppure oso, per non so quale comunione che ha la mia mente piccola con la sua grande, oso imaginarla, la sua risposta.
 
==III.==
 
Egli mi avrebbe risposto: — Ospite, io ti parlerò con antica vecchia semplicità. Tu non mostri dubbiezza sull’arte mia, perchè il linguaggio, che ne è lo strumento, non sia inteso dall’universale degli uomini. Tu sai bene che non potrei usare un linguaggio che fosse inteso da tutti; perchè non esiste... ancora. E non dico solo che non c’è linguaggio comune a tutti i popoli, ma nemmeno ce n’ è che sia intelligibile a tutti, anzi alla maggior parte degli uomini, di un singolo popolo. Nè c’è speranza che si formi da sè, questo linguaggio o universale o nazionale, nè c’è timore che si fabbrichi dai meccanici nostri: la natura va dal semplice al composto, dall’omogeneo all’eterogeneo, e non viceversa; e le lingue e i dialetti moltiplicheranno sempre d’anno in anno e di secolo in secolo. Per questa parte, ospite, tant’è che io usi il latino e il greco, quanto qualunque lingua parlata; anzi, se si computa bene, devo credere di esser per avere più intenditori, in tutto il mondo, del mio latino, che nella sola Italia, del mio italiano. Non è qui il tuo dubbio. In fin dei conti, tu non parli della lingua, cioè della veste sensibile, ma dell’idea, cioè dell’anima intelligibile. Tu osservi che anche nella tua lingua io preferisco la parola antiquata e la costruzione fuori d’uso. Tu metti in relazione il gusto cinquecentistico delle mie Veglie Pompeiane e d’ogni mia cosa volgare col mio culto per le lingue latina e greca nello Xiphia, nelle elegie, negli epigrammi, nelle iscrizioni, nelle epistole, nelle orazioni: la parte massima dell’opera mia. E dici che io rinnego il presente per il passato e che non voglio essere dei miei tempi. Oh! bada. La mia idea è questa. L’uomo combatte continuamente contro la morte. Esso alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può. La nostra vita è gelida e noi abbiamo bisogno di calore; la nostra vita è oscura e noi abbiamo bisogno di luce: non si lasci spegner nulla di ciò che può dar luce e calore: una favilla può ridestare la fiamma e la gioia! Non si lasci morir nulla di ciò che fu bello e giocondo. E consoliamo i banchettanti i quali dopo aver profuso sulla mensa il vino che pareva soverchio da prima, si attristano all’ultimo per la sete insoddisfatta: consoliamoli con l’anfora spregiata che già riponemmo tra le loro risa. E se per ciò la nostra fama non va tanto in alto e tanto per largo, e se la nostra voce non esce dall’ombra delle scuole, pazienza! Io sento che poesia e religione sono una cosa, e che come la religione ha bisogno del raccoglimento e del mistero e del silenzio e delle parole che velano e perciò incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso presente, così ne ha bisogno la poesia: la quale, del resto, anche in volgare, non usò mai e non usa ancora nè la lingua nè i modi nè il ritmo abituali.
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Nè credo io che la poesia debba o possa essere l’agitatrice delle turbe, ma la beatrice dei cuori. Ella non gonfia le gote per dar fiato alla tromba; ma attinge brevemente con le dita le corde dell’arpa. Ella non respinge da sè, riempiendo di fracasso e di mania orecchie e cervelli, ma attira a sè con un lontano e fievole tintinno. Ci sono certe musiche che bisogna allontanarsene per gustarle senza esserne intronati: alla poesia bisogna avvicinarsi, per sentirla. Ed ella parla ora a questo ora a quello, qua asciuga una lagrima, là aggiunge un sorriso, con delicata modestia, come una silenziosa benefattrice. Ora gli uomini che attrae la mia lira antica col suo giocondo strepito, e consola e conforta, vengono da tutte le parti del mondo, e verranno finchè si studi la lingua dei Quiriti. Oh! il grande avvenire di quest’arte universale! —
 
==IV.==
 
Questo io penso che mi avrebbe risposto cercando nell’equanimità della sua placida vecchiaia le ragioni della sua poesia. Ma la sua voce io non intesi e non udrò più. Ho riletto, per rifarmene, la sua anima scritta. Ho riletto le elegie Pompeiane, vibranti di passione, gli epigrammi greci e latini dal sorriso amaro, le iscrizioni d’una nobile romanità, le prose, a dir vero, troppo fiorite, l’Asino Pontaniano troppo, a dir vero, acre nella sua comicità pedantesca, lo Xiphia... Rimane questa la migliore opera sua, e gli dispiaceva sentirselo dire e ripetere; ma è così. Il primo fiore che fece la pianta, ricca di tutti i succhi di primavera, fu, come spesso avviene, il più grande e il più bello. Poi era il suo mare che l’ispirava, erano le osservazioni fatte sin da fanciullo che nutrivano la sua ispirazione.