Fosca/Capitolo XVII: differenze tra le versioni

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Versione delle 00:50, 20 feb 2007

Fosca/Capitolo XVII
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Mi ritirai nella mia stanza tristissimo; era assai malcontento di me, e sentiva che aveva il dovere di indagare severamente la mia condotta. Il risultato di quell’esame non poteva che mettermi in maggior ira contro me medesimo; mi era contenuto come un ragazzo, come un collegiale. Fosca aveva avuto ragione ad approfittare della mia semplicità; essa non aveva fatto che cedere alle mie provocazioni. Se il mio contegno era stato tale con lei di cui avrei abborrito l’affetto, quale sarebbe stato con una donna avvenente, il cui amore avrebbe lusingato la mia vanità? Come mi sentiva colpevole verso Clara! Come era umiliato della mia debolezza!

Un altro pensiero metteva a tortura l’anima mia. Quella donna era realmente buona, realmente ingenua? O non era che un essere infinto, astuto, corrotto? Aveva ella voluto abusare della mia semplicità, sorprendermi, condurre all’amore per la via della compassione; o le sue intenzioni erano pure, e questa mia stessa semplicità l’aveva invogliata della mia amicizia, della mia sola amicizia? Infelice lo era, e assai: le miserie sue dovevano essere infinite; né era strano che ella potesse desiderare un’anima in cui versarsi, desiderarla con tale intensità di desiderio, e invocarne la pietà con tale abbandono.

Oltre a ciò Fosca non era una donna comune. Il suo spirito era assai colto, la sua intelligenza assai vasta; e la sua stessa infermità, la sua bruttezza erano tali circostanze che concorrevano a formare un’eccezione. Le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue idee dovevano anche essere eccezionali; ed era forse sotto questo aspetto che bisognava giudicarne. Nondimeno quell’aprirmi subito l’anima sua; quell’abbandonarsi cosí a me nel primo giorno che mi vedeva, quel richiedermi disperatamente della mia amicizia…

Diffidavo dell’amicizia di una donna, e mi doleva non poco di aver accettato quella di lei. Io sapeva che noi non possiamo sottrarci mai agli istinti, e che tra un uomo e una donna giovani, che vogliono violentare la natura amandosi di amicizia, non può esistere che un affetto monco, artificiale, violento, spesso ridicolo, perché non conduce che ad un amore già nudo d’ogni illusione e d’ogni attrattiva. L’amicizia ci ha fatto veder tutta l’indiscretezza della sua intimità, ci ha spogliati di ogni velo; non si può piú essere né amici veri, né amanti veri; ed è cosí che la natura si vendica spesso dell’oltraggio che ha ricevuto.

Avrei dato un anno della mia vita per potermi sottrarre a quella promessa, per poter infrangere quel legame. Se tutto ciò non fosse avvenuto!

Prevedeva che quella donna si sarebbe posta fra me e la mia felicità, avrebbe attraversato il mio avvenire. Non sapeva immaginare le ragioni di questo timore, ma il cuore me lo diceva, né il mio cuore mi aveva mai ingannato.

Cercai in quella notte di prendere una risoluzione pronta ed efficace, di fuggirla, di essere crudele. Ma Dio mio! Come potevo io essere crudele? Io non era mai stato nella mia vita che semplice, che affettuoso, che buono!


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