Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/27: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
ThomasBot (discussione | contributi)
m Alex_brollo: match
ThomasBot (discussione | contributi)
m Alex_brollo: split
Riga 3:
 
 
==[[Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/69]]==
{{Anno di|CRISTO XXVII. Indizione XV.|TIBERIO imperadore 14.}}
 
<pages index==[[Pagina:"Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/" from=69]]= to=70 />
Consoli
----
 
<references/>
Marco Licinio Crasso e Lucio Calpurnio Pisone.
 
Il primo di questi consoli in due iscrizioni riferite dal Reinesio<ref>140 Reinesius, Inscription. Class. vii, n. 10, 18.</ref>, vien chiamato MARCVS CRASSVS FRVGI. Queste iscrizioni, senz’avvedermi ch’erano già pubblicate, le ho inserite ancor io nella mia raccolta; e sono ben più da attendere, che la rapportata dallo Sponio, per conoscere il vero cognome d’esso console. Andò in quest’anno Tiberio Augusto a fissar la sua abitazione nell’amena isola di Capri, otto miglia distante da Surrento, tre dalla terra ferma, sprovveduta di porto, e solo accessibile a piccole barche, dove ritirato, con suo comodo continuò a sfogare la infame sua lussuria. Non si sa quante guardie egli menasse seco. Molto strano era nondimeno, che un imperadore soggiornasse in sì piccolo sito per dieci anni senza aver paura de’ corsari, o di chi gli volesse male. Fors’egli si assicurò sulla difficoltà di approdare colà per cagion degli scogli. Pochi giorni dopo il suo arrivo un pescatore per mezzo di essi scogli penetrò nell’isola<ref>141 Sueton in Tiber., cap. 60.</ref>, e gli presentò un bel mullo o triglia, pesce allora stimatissimo. Perchè s’ebbe non poco a male Tiberio, che costui per quella difficile via fosse entrato, fece fregargli e lacerargli il volto col medesimo pesce; e buon per lui che non gli accadde di peggio. Sejano intanto non tralasciava diligenza alcuna per accendere sempre più la diffidenza e l’odio di Tiberio contro di Agrippina, vedova di Germanico, e contro di Nerone primogenito d’essa, non quello che fu poi imperadore. Secondo le apparenze dovea questo giovane principe, siccome nipote per adozione di Tiberio, succedere a lui nell’imperio. Sejano, che v’aspirava anch’egli il tenea forte di vista; segretamente ancora inviava persone, che sotto specie d’amicizia il gonfiavano, esortandolo a mostrar più spirito; tale esser il desiderio del popolo romano; tale quel degli eserciti. All’incauto giovane scappavano talvolta parole, che meglio sarebbe stato il tenerle fra i denti. Tutto era riferito a Sejano, e tutto passava, forse anche con delle giunte, alle orecchie di Tiberio, con aggiungere sospetti a sospetti. Però nell’anno presente furono messi soldati alla guardia del palazzo d’Agrippina, affin di risapere chi v’andava e che vi si parlava: tutti segni funesti di maggiore strepito e della futura ruina. Accadde in quest’anno un caso quasi incredibile e sommamente lamentevole, che ha pochi pari nella storia<ref>142 Tacitus, lib. 2 Annal., c. 62. Sueton. in Tiber., c. 40.</ref>. In Fidene, città lontana da Roma cinque sole miglia, cadde in pensiero ad un uomo di bassa sfera, e neppur ricchissimo, per nome Atilio, di schiatta libertina, di fabbricare un anfiteatro di legno di gran mole, per dar al popolo lo spettacolo de’ gladiatori. Siccome non v’era divertimento, di cui fossero sì ghiotti i Romani, come di questo; venuto quel dì, a folla vi corse da Roma la gente, uomini e donne d’ogni età. Ma quella macchina era mancante di buoni fondamenti, e peggio legata; però ecco sul più bello dell’azione precipitar tutto l’anfiteatro. Vi restarono soffocate o per la caduta sfracellate ventimila persone e trenta altre mila ferite in varie guise, con braccia e gambe rotte e simili altri mali, con urli e grida che andavano<ref>143 Nell’originale "andavavano"</ref> al cielo. Fu almeno considerabile la carità de’ cittadini romani, che nelle loro case accolsero tutti que’ miseri, somministrando loro vitto, medici e medicamenti, con isvegliarsi l’antico lodevol costume degli antichi, i quali così trattavano dopo le battaglie i soldati feriti. La pena data ad Atilio per la somma sua balordaggine, fu l’esilio; ed uscì un editto, che da lì innanzi non potesse
==[[Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/70]]==
dare il giuoco de’ gladiatori, se non chi possedeva quattrocentomila sesterzi di valsente, e che fosse approvato l’anfiteatro da intendenti architetti. A questa disavventura tenne dietro in Roma un grave incendio, che consumò tutte le case poste nel monte Celio. Tiberio all’avviso di un tal danno spontaneamente si mosse alla liberalità, inviando gran soccorso di danaro a chi avea patito: il che gli fece assai onore, e ne fu anche ringraziato dal senato.