Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso terzo: differenze tra le versioni

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m Linneo
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Così, e quando Dante cominciò a meditare su l’indole e i caratteri della lingua italiana, e mentre si accinse a trovarne le teorie più efficaci a stabilirla ne’ suoi primordj e regolarla ne’ suoi progressi, egli aveva dinanzi a sè molti saggi sì in poesia che in prosa, da’ quali egli poteva desumere molte osservazioni e ridurle a principj sicuri. Infatti il suo primo libro su la lingua chiamato Convito, e nel quale tratta di molte altre questioni d’ogni maniera, cominciò a comporlo dopo ch’ebbe passato l’anno quarantacinque dell’età sua<ref>Dante, Opere, vol. V, pag. 67; edizione Zatta.</ref>; e l’altro intitolato dell’Eloquio Volgare, e nel quale tratta il soggetto di pieno proposito, lo intraprese poco innanzi di morire. Non ne lasciò scritta che una piccola parte, ma, per quanto la crescente civiltà dell’età sua l’abilitasse a trovare alcune delle regole necessarie alla lingua, pur nondimeno i fondamenti inconcussi su’ quali la stabilì non poterono uscire che da una mente straordinaria come la sua.
 
Il maggiore e miglior numero delle osservazioni gli furono senza dubbio somministrate dalla lingua poetica, e dall’intentissimo studio a comporre il suo grande poema. Tuttavia, ad eccezione d’Omero, niuno stile poetico, e molto meno l’italiano, e quello del poema di Dante meno d’ogni altro, può servire di guida ragionata e fedele a ridurre gl’innumerabili accidenti e bizzarrie di una lingua sotto regole evidenti, ordinate e perpetue. I Greci, per quanto sappiamo, non ebbero libro di prosa se non tre secoli e più dopo l’Iliade. I poemi d’Omero furono i primi, e, per lunghissimo tempo, i soli fonti della lingua letteraria de’ Greci; e da que’ due modelli poscia i poeti e gli storici e gli oratori, di generazione in generazione e di città in città, desumevano ricchezze, dignità ed eleganza di stile a nobilitare i dialetti diversi della Grecia. Tutti que’ dialetti sono oggi classificati quasi col metodo di {{Ac|Linneo}}, e distribuiti con tutti i loro caratteristici da’ professori delle Università; ma non li conoscono che ne’ libri, e non gli udirono mai parlare. Or se, invece di leggerli, gli avessero uditi, non gli avrebbero classificati, nè ammirati, e i nostri profondi ellenisti si sarebbero accorti che anche i greci erano dialetti nè più nè meno come tutti gli altri; e che nella bocca del popolo erano rozzi, incostanti, ritrosi ad ogni guida e ad ogni regola, e alterati sensibilmente e capricciosamente quasi d’anno in anno, e trasformati di provincia in provincia dal tempo, e innestati uno nell’altro dalle conquiste, dal commercio e da’ nuovi usi, come gli altri dialetti d’ogni terra ed età. Bensì, per essere scritti, dovevano conformarsi alla lingua generale e letteraria della nazione; e benchè serbassero alcune forme provinciali e suoni peculiari alla provincia, pur nondimeno nel resto erano tutti più o meno somiglianti alla lingua Omerica. Questa lingua, tuttochè applicata da principio alla poesia dell’Iliade e dell’Odissea, riesciva in seguito attissima a lasciarsi imitare da tutti in ogni altro genere di composizione; e quindi a contribuire materiali infiniti alle osservazioni pratiche, e a’ precetti e a’ principj perpetui dello stile de’ poeti, degli storici e degli oratori di tutta la Grecia. La poesia d’Omero infatti è narrativa insieme e drammatica, e senza raffinamento veruno di lingua o di stile. È grande nelle invenzioni, originale e ricca ne’ caratteri, fiera nelle passioni, caldissima ed evidente nelle sue scene diverse; ma nelle parole procede costantemente semplice, e naturalmente grammaticale. Le sue frasi non sono mai troppo pregne di metafore, e non mai applicate a idee metafisiche, nè a pensieri o sentimenti che non siano, per così dire, tangibili. Cosicchè, se vi si togliesse il metro de’ versi, e l’Iliade e l’Odissea si riducessero in prosa, parrebbero storie romanzesche e meravigliose come mille altre che a’ dì nostri si scrivono in lingue e stili mille volte peggiori, e che trovano infinitamente maggior numero di lettori che non i poemi d’Omero.
 
La lingua poetica di Dante, al contrario, è talvolta sublime, talvolta strana, e spesso ineguale; ma non mai facile ad essere nè imitata dagli scrittori, nè osservata con frutto da’ legislatori di lingua. Quindi non ha potuto, nè potrà mai servire di modello a composizioni in prosa. Nel tempo stesso fu lingua soggetta anch’essa a leggi rigorosissime; ma furono inventate da chi la creò, e per non essere applicate fuorchè da lui solo, e in quel suo genere di poesia. Molte forse delle sue frasi e modi di dire si potrebbero usare, e si sono usati dagli scrittori; ma risaltano ad un tratto agli occhi quasi ornamenti tolti ad imprestito, ed eccezioni felici a liberare d’ora in ora lo stile dalla monotonia dell’ordinaria andatura grammaticale. I dialoghi nel poema di Dante sono convenientissimi a ciascuno de’ tanti interlocutori d’ogni età, d’ogni costume e d’ogni carattere. Ad ogni modo parlano tutti con tanta profondità di pensiero, e forza di concezione e ardore di passione, e soprattutto con tanta brevità, da costringere la lingua a forme ed espedienti e metafore maravigliose in que’ luoghi, ma incapaci ad accomodarsi al processo più logico della prosa. I romanzi della Tavola Rotonda raccontano che il re Arturo uccise di un colpo di lancia il suo figliuolo Mordrec, perchè lo colse in adulterio con la sua matrigna. Dante o lesse o immaginò che il fatto avvenisse a giorno chiaro, e in luogo dove splendevano i raggi del sole; e che il colpo di Arturo fece in un subito una ferita larga e profonda in guisa da dare adito al sole di trapassare per mezzo della piaga dal petto alle spalle, cosicchè, mentre il corpo di Mordrec era diviso dal colpo, l’ombra sua sul piano era divisa dal raggio solare. Certo qualunque altro scrittore antico o moderno, e in qualunque lingua, esporrebbe lo stesso fatto più o men brevemente per via di narrazione o di descrizione o d’immagini; ma nessuno, fuorchè Dante, e niuna lingua, fuorchè la sua, avrebbero ristretto il fatto in quei due soli versi: