Lettera a Ruggero Bonghi intorno al vocabolario: differenze tra le versioni

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Carissimo Bonghi,
 
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Posto ciò, la questione si riduce a cercare se, ad ottenerlo, convenga più che il vocabolario sia formato, o sul parlar di Firenze, o sui parlari della Toscana.
 
Ma per non lavorare in aria, è necessario prima di tutto esaminare se
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e quale di queste due cose, tra le quali s'ha a fare la scelta, somministri il mezzo di formare un vocabolario, non in qualunque maniera, ma logicamente, e con un resultato definitivo. È troppo evidente che, dove mancasse una tal condizione, tutte le ragioni secondarie che si potessero addurre, non riuscirebbero ad altro che a perdita di tempo, e a traviamento di raziocinio.
 
Ed è una tale questione preliminare, che tenterò di sciogliere in questa lettera, mettendo alla prova le due cose l'una dopo l'altra, e principiando da Firenze, che è quella che mi darà meno da fare.
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Ora, l'operazione che ho descritta (grettamente, ma, spero non lungamente) è la medesima che hanno a fare i miei convocati in Firenze, e col medesimo criterio, quello dell'Uso; con la differenza che, nel fatto di chi parla, il criterio è applicato a delle circostanze speciali, e la sua applicabilità ai casi simili c'è solamente sottintesa, ma sottintesa per necessità logica; e dai compositori d'un vocabolario, una tale applicabilità è avvertitamente contemplata, e indicata con apposite definizioni.
 
Questi hanno poi due gran vantaggi, e su chi parla, e su di loro medesimi considerati come parlanti: quello di poter fare la cosa con comodo e fermarsi, dove par loro che ne nasca il bisogno per applicare più ponderatamente il criterio; e quello di poterne consultare tra di loro: due cose che diminuiscono di molto la possibilità d'ingannarsi. Questa possibilità esiste però sempre: chi ne potrebbe dubitare? Ma c'è anche la possibilità del rimedio, cioè quella di ricorrere a quel tale Uso sempre
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vivo, il quale come è stato il loro criterio, è anche il loro giudice naturale.
 
Concludo questa prima parte col dir loro: Risolvetevi dunque a darci il vostro vocabolario, poichè il mezzo ce l'avete, e non vi manca se non la santa e benedetta voglia.
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Quando poi l'hanno, come se ne servono, o, se mi si passa questa espressione famigliare, come la cucinano?
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Prendiamo un esempio. Quello che a Firenze si dice Grappolo d'uva, si dice a Pistoja Ciocca d'uva, a Siena Zocca d'uva, a Pisa e in altre città Pigna d'uva. Cosa si fa in un caso simile?
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Così, per riprendere il discorso interrotto, quelle due strisce di panno o d'altro, con le quali si sorreggono i bambini, per avvezzarli a staccarsi, a Firenze si chiamano Falde, a Siena Dande, a Pistoia Lacci, a Arezzo Caide, a Lucca Cigne, e non so se altrimenti in altre città toscane. Senza addurre altri esempi, domando di novo cosa si fa in simili casi. Metter tutte quelle varietà nel vocabolario? È una proposta assurda. Fare una scelta tra di esse? Con quale criterio, o piuttosto con quali criteri? giacchè un unico e generale criterio, il criterio del fatto, quel Possideo quia possideo, che è il titolo d'un Uso reale, non è applicabile a un Uso che si vuol creare. Ogni locuzione, per essere ammessa in un vocabolario, deve necessariamente, come s'è detto, avere un suo perchè, come l'ha per essere adoprata nel discorrere. Nel caso di cui si tratta, questi perchè, giacché l'unico manca, avrebbero a essere i pregi di diverso genere delle locuzioni toscane. Ora c'è egli un paragone, e dirò così, un saggiatore comune, a cui riferire questi pregi diversi, per decidere quale di essi deva, in un caso o in un altro, avere la preferenza? E non c'essendo questo, che non ci può essere, come potranno que' signori prefiggersi una norma qualunque, per fare la scelta necessaria?
 
Ma supponendo pure (e non è poco) che, senza un tal mezzo, siano riusciti a accordarsi in ciaschedun caso, dove per un motivo, dove per un altro, e che il vocabolario sia fatto; domando se s'ha a intendere che deva rimanere immutabile in perpetuo, o che, con l'andar del tempo, possa nascere il bisogno di farci de' mutamenti, cioè di levarne delle locuzioni e d'aggiungerne dell'altre. La prima supposizione è talmente opposta al concetto d'una lingua e, per conseguenza, d'un vocabolario, che non occorre parlarne. Ora, nel sistema su di cui avrebbe a essere formato il vocabolario supposto ora, come e dove si potrà egli trovare, e l'indizio d'un tal bisogno, e il modo di supplirci? Per un vocabolario formato su di un Uso reale, quest'Uso che fu il criterio e la guida della prima operazione, continua a esserlo delle susseguenti. Col fatto di smettere tali e tali locuzioni, e d'adottarne tali e tali altre, l'Uso dà insieme e l'indizio e il modo di levare e di aggiungere, quando il numero di queste mutazioni (sempre lente a formarsi in una maniera che prometta qualche stabilità) mostri la convenienza di riformare in parte il vocabolario. Ma in quell'altro, congegnato artifizialmente con de' brani di diversi usi, undique collatis membris, con una scelta arbitraria, perchè diretta da ragioni più o meno probabili, ma nessuna necessaria e perentoria, come e dove, ripeto, trovare, nè indizio, nè modo di mutazioni? Il criterio, o piuttosto i critéri della scelta erano i pregi delle diverse locuzioni; e qual motivo di mutazione si può trovare in questi? Abbiamo potuto supporre bell'e fatto quel vocabolario, Perchè alla fin fine un accordo arbitrario tra varie persone è sempre possibile. Ma in quest'altra parte essenzialissima, non
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si vede nemmeno quale appicco possa avere l'arbitrio: e ci troviamo tra un'immutabilità assurda, e una mutabilità inapplicabile.
 
Da tutto ciò credo di poter concludere che i diversi idiomi di Toscana non possono somministrare un mezzo logico e definitivo di formare un vocabolario; e che, per conseguenza, rimangono escluse e prescritte tutte le ragioni che siano state, o che possano essere addotte per dimostrare che ad essi ne competa il privilegio.
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Qui avrei finito, se dipendesse da me il far fare ai personaggi interessati nella questione la parte che conviene a me, e poi mandarli a spasso. Ma non è, nè deve essere così; e ecco che li sento dirmi: Voi avete opposta a vostro agio una unità fiorentina alla moltiplicità toscana; ma codesta unità esiste poi in fatto? Non corre forse alcuna diversità in Firenze, tra il parlare delle diverse condizioni, tra quello delle diverse parti della città? Avete mai sentito dire: la lingua di Mercato vecchio, la lingua di Camaldoli? E non v'è mai occorso di domandare separatamente a due fiorentini della stessa condizione, il nome fiorentino d'un oggetto qualunque, sia materiale, sia morale, e di ricevere due risposte diverse? Si potrà quindi domandare anche a voi: Come si fa in simili casi per compilare il vocabolario?
 
Rispondo che, in tutte le cose umane, ci sono de' difetti inevitabili, inerenti alle cose stesse , e non tali però da distruggerle; e che non c'è nessun paragone da fare tra i difetti di questo genere, e degli altri che ci si volessero aggiungere. Quelli sono da sopportarsi; questi da tener lontani. Par unità di lingua non si può certamente intendere un'unità intera. In altri termini, Uso, in questa materia, non vuol dire, nè può voler dire una totalità di locuzioni posseduta ugualmente da una totalità di persone. Si deve naturalmente intendere l'unità fin dove è possibile, cioè quella in cui le varietà siano nel minor numero possibile, e in cui prevalga una cagione che mantenga necessariamente l'identità in un numero di casi incomparabilmente maggiore della varietà. E questo è per l'appunto l'Uso, dico il vero Uso, quello che vive in una società riunita, dove il bisogno continuo, incessante, d'intendersi sopra qualunque materia
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conserva necessariamente quella maggiore identità. Si ha quindi ragione di chiamarla unità a confronto di una miscellanea artifiziale, d'una rappezzatura arbitraria di brani staccati da diversi Usi.
 
Alla domanda di cosa s'abbia a fare di tali varietà nel compilare il vocabolario, è facile il rispondere. Registrarle, perchè non sono fuori affatto dell'Uso e ci stanno mescolate con esso: ma aggiungere l'indicazione (approssimativa, s'intende) dei gradi e dei modi del loro non esserci interamente. E in questo, come in molti altri particolari, abbiamo un utile esempio nel Vocabolario dell'Accademia Francese, dove a quelle varietà si vedono applicate diverse formule, come: Il vieillit — Il est peu usité — Il se dit quelquefois pour.... — On ne l'emploie que dans cette phrase.... — On dit aussi — Il se dit encore vulgairement — Il est très familier — Il est populaire, — e simili. Così, quando per materia dell'osservazione si prende il fatto, anche i dubbi diventano parte della cognizione. C'è poi l'altro gran vantaggio, che quelle varietà sono naturalmente circoscritte e limitate, e c'è quindi la possibilità di raccoglierle; mentre nel fare una scelta tra delle locuzioni prese da diversi idiomi, si troveranno bensì cento motivi per principiare, ma non una vera e perentoria ragione di finire.
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Riguardo poi alla lingua di Mercato Vecchio e alla lingua di Camaldoli, dico che coi traslati bisogna aprir bene gli occhi, perchè sono traditori. Siccome adoprano un vocabolo che ha un suo significato anteriore e proprio, affine di fare intendere un'altra cosa per mezzo d'una somiglianza qualunque; così c'è sempre pericolo che quel vocabolo, col suono stesso, richiami la mente al concetto proprio che è il più consueto, e che la mente poi ragioni su di quello, come se fosse lui il soggetto del discorso. È un traslato simile a quello che fa dire: la lingua della musica, la lingua della botanica e simili; se non che in questi casi non nasce l'equivoco, perchè le materie di queste sono spiccatamente distinte dalle altre. Le frasi: Lingua di Mercato Vecchio, e Lingua di Camaldoli non vogliono dir altro che una somma, e una piccola somma, di differenze speciali dal parlar comune di Firenze; e tanto sono lontane queste differenze dal costituire una lingua, che, se i mercatini e gli abitanti di Camaldoli non avessero altro che quelle per dire ciò che gli occorre di dire, non avrebbero il mezzo di discorrere, nè con gli altri fiorentini, nè tra di loro. Ciò che li fa essere uomini parlanti, come dice Omero, è il fiorentino di Firenze, è quel sacrosanto Uso, nel quale incastrano poi quelle loro varietà. E se vogliamo vedere che conto s'abbia a fare di quel linguaggio misto, il miglior mezzo d'evitare ogni parzialità, è di rimetterne la decisione a quegli uomini stessi. Si domandi dunque a loro, se credono che il loro linguaggio sia il bono, quello che s'abbia a insegnar nelle scole. Ho paura che rispondano con delle insolenze, perchè credono che si voglia canzonarli. E con ciò riconoscono implicitamente che c'è in Firenze una bona lingua e che questa bona lingua non è la loro. Quando i Francesi dicono Le langage des halles, intendono forse dire che in Parigi ci siano due lingue? Eh via! non badiamo alle parole, o, per dir meglio, badiamoci bene, perchè non ci abbiano a menar fuori di strada.
 
Non posso finire senza levar di mezzo una falsa interpretazione; la quale, senza aver nessuna forza contro le ragioni addotte, può disturbarne l'effetto. « Dunque, secondo questa teoria, mi sento dire, tante locuzioni toscane esprimenti concetti ai quali l'Uso fiorentino non provvede, dovranno, per questo solo, quantunque utili, quantunque analoghe ad esso per la forma, a segno di non esserne distinguibili per chi non conosca il fatto materiale, dovranno, per ciò solo che non fanno parte di quell'Uso così rigorosamente preso, esser bandite, condannate all'obblivione,
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buttate via, come spazzature? . Chi . ha detto questo? rispondo. — Ma se non volete dir questo, dov'è il posto che riservate a quelle locuzioni? Cosa rimane da farne, secondo voi? — Adoprarle a tempo e luogo.
 
E se pare che qui dia in fuori una contradizione, io non ci ho colpa. La colpa sarà di chi rimanga fisso a non vedere altra alternativa per le parole, che, o vocabolario o morte; a non voler osservare la differenza che corre tra il modo di fare un vocabolario, e il modo d'adoprare una lingua. I due modi sono diversi, come sono diversi i due intenti. Quello del vocabolario è di rappresentare, per quanto è possibile, una lingua, cioè un complesso di fatti coesistenti, limitati, numerabili; e il non uscire da questa cerchia è l'unico modo (mi sfogherò a ripeterlo anche una volta), e di principiare e di finire con ragione. L'intento di chi adopra una lingua è d'esprimere tutti i concetti che, in un argomento qualunque, gli paiano venire opportuni. Il primo e più diretto mezzo a ciò è senza dubbio l'attenersi strettamente all'Uso. Ma dove questo manca, e quando, per conseguenza, è cosa ragionevole il cercare un mezzo altrove, chi vorrà negare, nel caso nostro, che tra tutti i luoghi da dove si possa prenderlo, lingue morte, lingue straniere, vocaboli disusati della lingua medesima, vocaboli di qualunque altro idioma della medesima nazione, e anche di Mercato Vecchio e di Camaldoli, chi vorrà, dico, negare che, a capo di lista, in un posto a parte, siano da mettere gl'idiomi toscani, così affini all'Uso fiorentino, anche dove ne differiscono? Qui acquistano un vero valore que' titoli, che ho detto, e non mi ridico, doversi, in virtù del metodo di prescrizione, escludere dalla formazione del vocabolario.