Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio di Dante Alighieri: differenze tra le versioni

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Carissimo Bonghi,
 
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Bolliva allora l’altra questione tra i romantici e i classicisti, che rammento qui di passaggio, e solamente per la somiglianza del caso. Una parte principale di quella questione era intorno alla poesia drammatica; e su questo punto il libro allegato da molti come autorità irrefragabile, era la Poetica d’Aristotele, piccola cosa anch’essa in quanto alla mole, e che non era letta anch’essa, oserei quasi dire, da nessuno, se non forse da quelli, contro i quali s’allegava.
 
Ora, per tornar subito al proposito, chi non dovrebbe credere che il libro del Perticari, il quale produsse un effetto che dura ancora, avesse eccitata nel pubblico una vivissima curiosità per quello di Dante, del quale era dato come l’interprete? Chi, essendo ignaro del fatto, non dovrebbe immaginarsi che un qualche editore, gente di buon naso, avesse profittato dell’occasione per ristampare a migliaia di copie il libro del
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Volgare Eloquio, di cui non esistevano che scarse e poco trovabili edizioni: la prima, tanto del testo, quanto della traduzione, rarissime, e non più ristampate, nè l’una, nè l’altra, fuorchè insieme con l’altre opere, sia del grande autore, sia del povero traduttore? Ma un’edizioncina da sè, sciolta e leggiera, da correre per le mani di molti, e che sarebbe venuta tanto a proposito, non ci fu chi pensasse, nè a darla, nè a richiederla; forse perchè i miei contemporanei di mezzo secolo fa non s’immaginavano che, per appoggiarsi all’autorità d’un libro, ci fosse bisogno di conoscerlo.
 
Al giorno d’oggi una tale avvertenza sarebbe superflua, e fuor di luogo. È bensì vero, che il libro De Vulgari Eloquio è citato ora, non meno d’allora, a ogni opportunità; e si può aggiungere (giacchè l’edizioncina non è ancora comparsa) che non è letto di più. Ma sarà probabilmente perchè le persone del giorno d’oggi suppongono che i loro padri e i loro nonni, da cui hanno la cosa per tradizione, l’abbiano letto loro. A ogni modo, l’opinione che Dante, nel libro De Vulgari Eloquio, abbia inteso di definire, e abbia definito quale sia la lingua italiana, è talmente radicata, che non si suppone generalmente che possa neppure esser messa in dubbio.
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Apriti cielo! pare una bestemmia contro Dante e contro l’Italia. Ma parola detta e sasso tirato non fu più suo. Onde, non volendo affrontare un lungo e aspro conflitto, non trovo altro ripiego se non di pregarli che mi permettano di far loro una sola e breve domanda. E con questa spererei di potere far dire la cosa da loro medesimi.
 
Dicano dunque se, per lingua, intendono una cosa che non deve servire
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che a trattare d’alcune materie determinate, e ad essere adoperata in un solo genere di componimenti.
 
Rispondono naturalmente di no, ma aggiungendo che non vedono cos’abbia a fare con la questione una tale domanda.
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E l’indizio è tutt’altro che vano, poichè immediatamente dopo, viene il terzo capitolo, in cui « si distinguono i modi del poetare in volgare, » e sono « canzoni, ballate, sonetti e diversi altri modi legittimi e irregolari, come si mostrerà in appresso. »
 
Si passa poi a dichiarare che, essendo la canzone l’eccellentissimo di que’ modi, si deve in essa usare l’eccellentissimo volgare. E di quella preminenza si assegnano più ragioni; perchè, quantunque ogni cosa scritta in versi
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sia canzone, pure a quella sola si dà per eccellenza un tal nome; perchè non ha bisogno d’aiuti estrinsechi, a differenza della ballata, che è bensì più nobile del sonetto, ma richiede l’accompagnamento della musica; perché apporta più onore a’ suoi autori, che la ballata; perchè è conservata più caramente che gli altri componimenti in versi, come consta a quelli che visitano i libri; perchè, finalmente, nelle sole canzoni si comprende l’arte intera. Ma, per non dilungarmi in altri particolari che non importano al mio argomento, mi restringo a dire che, in tutto il rimanente di quel libro secondo e ultimo di quelli che abbiamo, non si tratta d’altro che della canzone, fino e incluso l’ultimo capitolo, intitolato: « Della varietà de’ ritmi, e come devono essere disposti nella canzone. »
 
Ma se quel libro è l’ultimo per noi, non era tale per Dante, il quale si proponeva in vece di aggiungerne due altri a compimento dell’opera. Però, riguardo alla nostra questione, è come se ci fossero anche questi. E n’abbiamo il miglior mallevadore che si possa desiderare: Dante medesimo. « Omettiamo, » scrive egli nel quarto capitolo del libro secondo, « di parlare ora del modo delle ballate e de’ sonetti, perchè intendiamo dichiararlo nel quarto libro di quest’opera, dove tratteremo del Volgare Mediocre. » Più sotto poi, divide in tre i generi delle cose che possono esser cantate, canenda videntur; e sono Tragedia, Commedia, Elegia. Per la Tragedia, dice doversi prendere il Volgare Illustre, quello della canzone; per la Commedia, ora il mediocre, ora l’umile; e della distinzione di questi si riserva di parlare nel quarto libro; per l’Elegia l’umile.
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Il {{Ac|Gian Giorgio Trissino|Trissino}} messe questo squarcio nel frontispizio della sua traduzione, come un argomento in favore della autenticità del libro; ma volendo mettere in mostra solamente ciò che faceva per lui, usò la magra furberia di lasciare indietro le parole « dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse, di dire in rima, » che avrebbero disturbato il suo disegno di tirare il libro di Dante alla questione della lingua, come fece nel suo dialogo « Il Castellano. » Ma, o Messer Gian Giorgio, se vedevate che quelle parole avrebbero potuto dar da pensare agli altri, perché non principiare dal pensarci voi? Quella era la vera furberia.
 
Se poi, tra gli oppositori, ce ne fossero alcuni (che non vorrei credere) ancora restii ad accettare le conseguenze del loro concedo maiorem, rivolgo a questi una seconda e ultima domanda. Credono che, tra le condizioni d’una lingua, ci sia quella, che i suoi vocaboli abbiano a esser composti d’un numero di sillabe, piuttosto che d’un altro? E, sentito rispondermi un no ancor più risoluto e più stupefatto del primo, cavo fuori, da quei capitoli del secondo libro, che avevo messi da parte, il settimo, dove Dante specifica i vocaboli convenienti al Volgare illustre. Principia
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dal distinguere i vocaboli in puerili, muliebri e virili (puerilia, muliebria, virilia); e questi in silvestri e in cittadini (silvestria et urbana); e de’ cittadini, altri pettinati e scorrenti , altri irsuti e ruvidi (quaedam hirsuta et reburra). Scartate quindi le specie di vocaboli che non convengono al Volgare Illustre, « rimangono solamente » dice « i pettinati e i cittadini irsuti, che sono nobilissimi e membri del Volgare Illustre. » Sola etenim pexa, hirsutaque urbana tibi restare videbis, quae nobilissima sunt, et membra Vulgaris Illustris. Pettinati poi chiama i trisillabi, o vicinissimi alla trisibilità, con altre condizioni che non occorre di riferire. Pexa vocamus illa quae trisyllaba, vel vicinissima trisyllabitati. Gl’irsuti li divide in necessari e ornativi: necessari, e da non potersi scansare, certi monosillabi, come si, vo, me, te, se, a, e, i, o, u; ornativi quelli che, misti ai pettinati, formano un costrutto di bella armonia.
 
Non vi par egli che ce ne sia più che abbastanza per far confessare anche ai più recalcitranti, che nel libro De Vulgari Eloquio non si tratta d’una lingua, nè italiana, nè altra qualunque? Vi dirò, ma questo, proprio in confidenza, che, maravigliato io medesimo d’un così pronto e intero successo, ebbi, un momento, il prurito di finire con un grido di trionfo. Ma riflettendo che tutto il talento e lo studio che c’è voluto, consiste nell’aver letto un libriccino di sessantuna pagina in piccol sesto, chè tante ne occupa il Trattato nell’edizione del Corbinelli, ho tirata indietro la mia spacconata.