Odissea (Pindemonte)/Libro IX: differenze tra le versioni

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<poem>
"Alcinoo Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è l'udirl’udir", gli replicava Ulisse,
"Cantor, come DemOdoco, di cui
Pari a quella d'und’un dio suona la voce:{{R|5}}
Né spettacol più grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urnel’urne,{{R|10}}
Donde coppier nell'aureenell’auree tazze il versi,
E ai convitati assisi il porga in giro.
Ma tu la storia de'de’ miei guai domandi,
Perch'ioPerch’io rinnovi ed inacerbi il duolo.
Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremonell’estremo{{R|15}}
Racconto serberò delle sventure,
Che gravi e molte m'invïArom’invïAro i numi?
Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,
Mi si concede riposata e ferma,
Dell'ospitalitàDell’ospitalità ci unisca il nodo,{{R|20}}
Benché quinci lontan sorga il mio tetto.
Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,
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Non lontane tra loro isole intorno,
Dulichio, Same, e la di selve bruna
Zacinto. All'ortoAll’orto e al mezzogiorno queste,{{R|30}}
Itaca al polo si rivolge, e meno
Dal continente fugge: aspra di scogli,
Ma di gagliarda gioventù nutrice.
Deh qual giammai l'uoml’uom può della natìa
Sua contrada veder cosa più dolce?{{R|35}}
Calipso, inclita diva, in cave grotte
Mi ritenea, mi ritenea con arte
Nelle sue case la dedalea Circe,
Desïando d'avermid’avermi entrambe a sposo.
Ma né Calipso a me, né Circe il core{{R|40}}
Piegava mai; ché di dolcezza tutto
La patria avanza, e nulla giova un ricco
Splendido albergo a chi, da'da’ suoi disgiunto,
Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi
Quel che da Troia prescriveami Giove{{R|45}}
Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.
 
Ad Ismaro, de'de’ Cìconi alla sede,
Me, che lasciava Troia, il vento spinse.
Saccheggiai la città, strage menai
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Pingui a scannar tortocornuti tori,{{R|55}}
E larghi nappi ad asciugar sul lido.
S'allontanaroS’allontanaro in questo mezzo, e voce
Diero i Cìconi ai Cìconi vicini,
Che più addentro abitavano. Costoro,
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Riversò addosso un gran sinistro Giove.{{R|65}}
Stabile accanto alle veloci navi
Pugna si commettea: d'ambod’ambo le parti
Volavan le pungenti aste omicide.
Finché il mattin durava, e il sacro sole
Acquistava del ciel, benché più scarsi,{{R|70}}
Sostenevam della battaglia il nembo.
Ma come il sol, calandosi all'Occasoall’Occaso,
L'oraL’ora menò, che dal pesante giogo
Si disciolgono i buoi, l'achival’achiva forza
Fu dall'astedall’aste de'de’ Cìconi respinta.{{R|75}}
Sei de'de’ compagni agli schinieri egregi
Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.
 
Lieti nel cor della schivata morte,
E de'de’ compagni nella pugna uccisi
Dolenti in un, ci allargavam dal lido;{{R|80}}
Ma le ondìvaghe navi il lor cammino
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Non si fosse da noi chiamato a nome
Ciascun di quei che giacean freddi addietro.
L'adunatorL’adunator de'de’ nembi olimpio Giove{{R|85}}
Contro ci svegliò intanto una feroce
Tempesta boreal, che d'atred’atre nubi
La terra a un tempo ricoverse e il mare,
E la notte di cielo a piombo scese.
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Posavam lassi, e addolorati e muti.{{R|95}}
 
Ma come l'Albal’Alba dai capelli d'orod’oro
Il dì terzo recò, gli alberi alzati,
E dispiegate le candide vele,
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Al timonier lasciandone ed al vento.{{R|100}}
Tempo era quello da toccar le amate
Sponde natìe: se non che Borea e un'aspraun’aspra
Corrente me, che la Malèa girava,
Respinse indietro ed a Citera volse.
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I venti rei mi trasportâro. Al fine
Nel decimo sbarcammo in su le rive
De'De’ Lotofàgi, un popolo, a cui cibo
È d'unad’una pianta il florido germoglio.
Entrammo nella terra, acqua attignemmo,{{R|110}}
E pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della fame i desiri e della sete,
Io due scelgo de'de’ nostri, a cui per terzo
Giungo un araldo, e a investigar li mando,
Quai mortali il paese alberghi e nutra.{{R|115}}
Partiro e s'affrontaros’affrontaro a quella gente,
Che, lunge dal voler la vita loro,
Il dolce loto a savorar lor porse.
Chïunque l'escal’esca dilettosa e nuova
Gustato avea, con le novelle indietro{{R|120}}
Non bramava tornar: colà bramava
Starsi, e, mangiando del soave loto,
La contrada natìa sbandir dal petto.
È ver ch'ioch’io lagrimosi al mar per forza
Li ricondussi, entro i cavati legni{{R|125}}
Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:
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E la patria cadessegli dal core.{{R|130}}
Quei le navi saliano, e sovra i banchi
Sedean l'unl’un dopo l'altrol’altro, e gìan battendo
Co'Co’ pareggiati remi il mar canuto.
 
Ci portammo oltre, e de'de’ Ciclopi altieri,
Che vivon senza leggi, a vista fummo.{{R|135}}
Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,
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Col vomero spezzar; ma il tutto viene
Non seminato, non piantato o arato:
L'orzoL’orzo, il frumento e la gioconda vite,{{R|140}}
Che si carca di grosse uva, e cui Giove
Con pioggia tempestiva educa e cresce.
Leggi non han, non radunanze, in cui
Si consulti tra lor: de'de’ monti eccelsi
Dimoran per le cime, o in antri cavi;{{R|145}}
Su la moglie ciascun regna e su i figli,
l'unol’uno all'altroall’altro tanto o quanto guarda.
Ai Ciclopi di contra, e né vicino
Troppo, né lunge, un'isolettaun’isoletta siede
Di foreste ombreggiata, ed abitata{{R|150}}
Da un'infinitaun’infinita nazïon di capre
Silvestri, onde la pace alcun non turba;
Che il cacciator, che per burroni e boschi
Si consuma la vita, ivi non entra,
Non aratore o mandrïan v'albergav’alberga.{{R|155}}
Manca d'umanid’umani totalmente, e solo
Le belanti caprette, inculta, pasce.
Però che navi dalle rosse guance
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Su cui passare i golfi, e le straniere
Città trovar, qual delle genti è usanza,
Che spesso van l'unal’una dall'altradall’altra ai lidi,
E all'isolaall’isola deserta addur coloni.
Malvagia non è certo, e in sua stagione{{R|165}}
Tutto darebbe. Molli e irrigui prati
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Riceverìa, che altissima troncarvi{{R|170}}
Potrìasi al tempo la bramata messe.
Che del porto dirò? Non v'hav’ha di fune
Ne d'àncorad’àncora mestieri; e chi già entrovvi,
Tanto vi può indugiar, che de'de’ nocchieri
Le voglie si raccendano, e secondi{{R|175}}
Spirino i venti. Ma del porto in cima
S'apreS’apre una grotta, sotto cui zampilla
L'argentinaL’argentina onda d'unad’una fonte, e a cui
Fan verdissimi pioppi ombra e corona.
Là smontavamo, e per l'oscural’oscura notte,{{R|180}}
Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:
Ché una densa caligine alle navi
Stava d'intornod’intorno, né splendea dal cielo
La luna, che d'und’un nembo era coverta.
Quindi nessun l'isolal’isola vide, e i vasti{{R|185}}
Flutti al lido volventisi, che prima
Approdati non fossimo. Approdati,
Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo
Sul lido, e l'Albal’Alba dalle rosee dita,
Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.{{R|190}}
 
Sorta la figlia del mattino appena,
L'isolettaL’isoletta, che in noi gran maraviglia
Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,
Prole cortese dell'egïocodell’egïoco Giove,
Per fornir di convito i miei compagni,{{R|195}}
Quelle capre levaro. E noi repente,
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E tre schiere di noi fatte, in tal guisa
Il monte fulminammo e il bosco tutto,
Ch'ioCh’io non so, se dai numi in sì brev'orabrev’ora{{R|200}}
Fu concessa giammai caccia sì ricca.
Dodici navi mi seguìano, e nove
Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbin’ebbi.
Tutto quel giorno sedevamo a mensa
Tra carni immense e prezïoso vino:{{R|205}}
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Del licore, onde molte anfore e molte
Rïempiuto avevam, quando la sacra
Dispogliammo de'de’ Cìconi cittade.
E de'de’ Ciclopi nel vicin paese{{R|210}}
Levate intanto tenevam le ciglia,
E salir vedevamo il fumo, e miste
Col belo dell'agnelledell’agnelle e delle capre
Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra{{R|215}}
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Ma come del mattin la figlia sorse,
Tutti chiamati a parlamento: "Amici",
Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'iomentr’io
Della gente a spïar vo'vo’ col mio legno,{{R|220}}
Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,
O di core ospital siasi, ed a cui
Timor de'de’ numi si racchiuda in petto".
Detto, io montai la nave, e ai remiganti
Montarla ingiunsi, e liberar la fune.{{R|225}}
E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi
Sedean l'unl’un dopo l'altrol’altro, e gìan battendo
Co'Co’ pareggiati remi il mar canuto.
 
Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,
Spelonca eccelsa nell'estremonell’estremo fianco{{R|230}}
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro giaceavi innumerabil greggia,
Pecore e capre, e di recise pietre
Composto, e di gran pini e querce ombrose
Alto recinto vi correa d'intornod’intorno.{{R|235}}
Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava le pecore solingo.
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Punto alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D'unaD’una montagna smisurata, dove
Non gli s'alzis’alzi da presso altro cacume.
Lascio i compagni della nave a guardia,{{R|245}}
E con dodici sol, che i più robusti
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Meco in otre caprin recando un negro
Licor nettàreo, che ci diè Marone
D'EvantèoD’Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,{{R|250}}
Cui d'Ismarod’Ismaro le torri erano in cura.
Soggiornava del dio nel verde bosco,
E noi, di santa riverenza tocchi,
Con la moglie il salvammo e con la prole.
Quindi ei mi porse incliti doni: sette{{R|255}}
Talenti d'ord’or ben lavorato, un'urnaun’urna
D'argentoD’argento tutta, e dodici d'und’un vino
Soave, incorruttibile, celeste,
Anfore colme; un vin ch'eglich’egli, la casta
Moglie e la fida dispensiera solo,{{R|260}}
Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.
Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,
Venti metri infondea d'acquad’acqua di fonte,
E tal dall'urnadall’urna scoverchiata odore
Spirava, e sì divin, che somma noia{{R|265}}
Stato sarìa non confortarne il petto.
Io dell'almadell’alma bevanda un otre adunque
Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:
Ché ben diceami il cor, quale di strana
Forza dotato le gran membra, e insieme{{R|270}}
Debil conoscitor di leggi e dritti,
Salvatic'uomSalvatic’uom mi si farebbe incontra.
 
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'ertel’erte cime
Le pecore lanigere aderbava.{{R|275}}
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de'de’ formaggi, e piene
D'agnelliD’agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena,{{R|280}}
Tutti, come l'etadel’etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'eiov’ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte{{R|285}}
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducesseros’adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasses’entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:{{R|290}}
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
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Racceso il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:{{R|295}}
Indi l'attendevaml’attendevam nell'antronell’antro assisi.
 
Venne, pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo non lieve di risecca selva
Che la cena cocessegli, portando.
Davanti all'antroall’antro gittò il carco, e tale{{R|300}}
Levòssene un romor, che sbigottiti
Nel più interno di quel ci ritraemmo.
Ei dentro mise le feconde madri,
E gl'irchigl’irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella corte lasciò. Poscia una vasta{{R|305}}
Sollevò in alto ponderosa pietra,
Che ventidue da quattro ruote e forti
Carri di loco non avrìano smossa,
E l'ingressol’ingresso acciecò della spelonca.
Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti{{R|310}}
Capre mugnea, tutto serbando il rito,
E a questa i parti mettea sotto, e a quella.
Mezzo il candido latte insieme strinse,
E su i canestri d'intrecciatod’intrecciato vinco
Collocollo ammontato; e l'altrol’altro mezzo,{{R|315}}
Che dovea della cena esser bevanda,
Il ricevero i pastorecci vasi.
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Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:
"Forestieri, chi siete? E da quai lidi{{R|320}}
Prendeste a frequentar l'umidel’umide strade?
Siete voi trafficanti? O errando andate,
Come corsari che la vita in forse,
Per danno altrui recar, metton su i flutti?"
Della voce al rimbombo, ed all'orrendaall’orrenda{{R|325}}
Faccia del mostro, ci s'infranses’infranse il core.
Pure io così gli rispondea: Siam Greci
Che di Troia partiti e trabalzati
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(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo
Quell'AtrìdeQuell’Atrìde Agamennone che il mondo
Empièo della sua fama, ei che distrusse{{R|335}}
Città sì grande, e tante genti ancise.
Ed or, prostesi alle ginocchia tue,
Averci ti preghiam d'ospitid’ospiti in grado,
E d'und’un tuo dono rimandarci lieti.
Ah! temi, o potentissimo, gli dèi:{{R|340}}
{{§|Che tuoi supplici|Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove
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A te concederò perdono, e a questi
Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.
Ma dimmi: ove approdasti? All'orloAll’orlo estremo
Di questa terra, o a più propinquo lido?"{{R|355}}
Così egli tastommi; ed io, che molto
D'esperïenzaD’esperïenza ricettai nel petto,
Ravvìstomi del tratto, incontanente
Arte in tal modo gli rendei per arte:
"Nettuno là, 've’ve termina e s'avanzas’avanza{{R|360}}
La vostra terra con gran punta in mare,
Spinse la nave mia contra uno scoglio,
E le spezzate tavole per l'ondal’onda
Sen portò il vento. Dall'estremoDall’estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena".{{R|365}}
Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
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Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano{{R|370}}
Dilacerolli, e s'imbandìs’imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che in monte alberga,
Carni ed interïora, ossa e midolle,
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Con gli occhi nostri, e disperando scampo.
 
Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbes’ebbe,
Pasteggiando dell'uomodell’uomo, e puro latte
Tracannandovi sopra, in fra le agnelle{{R|380}}
Tutto quant'eraquant’era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Fàrmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La coràta dal fegato si cinge,{{R|385}}
Ferirlo. Se non ch'ioch’io vidi che certa
Morte noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non era da noi tôr dall'immensodall’immenso
Vano dell'antrodell’antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v'imposev’impose.{{R|390}}
Però, gemendo, attendevam l'auroral’aurora.
 
Sorta l'auroral’aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto,
E i parti a questa mettea sotto e a quella.{{R|395}}
Né appena fu delle sue cure uscito,
Che altri due mi ghermì de'de’ cari amici,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell'antrodell’antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso,{{R|400}}
Che dell'antrodell’antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su pel monte si mandava il pingue
Line 426 ⟶ 421:
Ed io tutti a raccolta i miei pensieri{{R|405}}
Chiamai, per iscoprir come di lui
Vendicarmi io potessi, e un'immortaleun’immortale
Gloria comprarmi col favor di Palla.
Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d'olivad’oliva, che il Ciclope svelse{{R|410}}
Di terra, onde fermar con quello i passi,
Entro la stalla a inaridir giacea.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l'ondel’onde brune
Con venti remi a valicare usata:{{R|415}}
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io l'affilail’affilai,
L'abbrustolaiL’abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,{{R|420}}
Ch'iviCh’ivi in gran copia s'accoglieas’accogliea, l'ascosil’ascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adustoL’adusto palo conficcar nell'occhionell’occhio,
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.{{R|425}}
Fortuna i quattro, ch'ioch’io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Line 456 ⟶ 451:
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,{{R|435}}
E a questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita ogni opra, m'abbrancòm’abbrancò di nuovo
Due de'de’ compagni, e cenò d'essid’essi il mostro.
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edraD’edra una coppa: "Te'Te’ Ciclope", io dissi:{{R|440}}
"Poiché cibasti umana carne, vino
Bevi ora, e impara, qual su l'ondel’onde salse
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Line 467 ⟶ 462:
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl'infinitigl’infiniti uomini in terra
Fia che s'accostis’accosti a te? Male adoprasti".
 
La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo{{R|450}}
Del soave licor prese diletto,
E un'altraun’altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'ioperch’io ti porga
L'ospitalL’ospital dono che ti metta in festa.{{R|455}}
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
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Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".
 
Un'altraUn’altra volta io gli stendea la coppa.{{R|460}}
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m'accorsim’accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome{{R|465}}
Ciclope, vuoi? L'avraiL’avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei con fiero cor: "L'ultimoL’ultimo ch'ioch’io{{R|470}}
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale".
 
Disse, diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell'antronell’antro con la gran cervice
Ripiegata su l'omerol’omero: e dal sonno,{{R|475}}
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell'ulivodell’ulivo il palo{{R|480}}
Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M'abbandonasseM’abbandonasse nel miglior dell'opradell’opra.
Come, verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi{{R|485}}
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
Con intorno i compagni: un dio per fermo
D'insolitoD’insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l'acutol’acuto palo, e in mezzo
Dell'occhioDell’occhio il conficcaro; ed io di sopra,{{R|490}}
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d'ambod’ambo i lati le corregge, e attorno{{R|495}}
L'instancabileL’instancabile trapano si volve:
nell'ampianell’ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio{{R|500}}
Struggeva, uscìa della pupilla, e l'imel’ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell'ondanell’onda fredda
Attuffò un'asciaun’ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,{{R|505}}
L'occhioL’occhio intorno al troncon cigola e frigge.
 
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l'antrol’antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall'occhiaiadall’occhiaia il trave,{{R|510}}
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de'de’ monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi{{R|515}}
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
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Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v'hav’ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:{{R|530}}
Ed a me il cor ridea, che sol d'und’un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
 
Line 560 ⟶ 555:
Sospirando altamente, e brancolando
Con le mani il pietron di loco tolse.{{R|535}}
Poi, dove l'antrol’antro vaneggiava, assiso
Stavasi con le braccia aperte e stese,
Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,
Line 569 ⟶ 564:
Ché la vita ne andava, e già pendea
Su le teste il disastro. Al fine in questa,
Dopo molto girar, fraude io m'arrestom’arresto.{{R|545}}
Montoni di gran mole e pingui e belli,
Di folta carchi porporina lana,
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta
Prendeane, e in un gli unìa tacitamente
Co'Co’ vinchi attorti, sovra cui solea{{R|550}}
Polifemo dormir: quel ch'erach’era in mezzo,
Portava sotto il ventre un de'de’ compagni,
Cui fean riparo i due ch'ivanch’ivan da lato,
E così un uomo conducean tre bruti.
Indi afferrai pel tergo un arïete{{R|555}}
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Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le mani avolgendo entro ai gran velli,
Con fermo cor mi v'atteneav’attenea sospeso.
Così, gemendo, aspettavam l'auroral’aurora.{{R|560}}
 
Sorta l'auroral’aurora, e tinto in roseo il cielo,
Fuor della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi; e le femmine non munte,
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Rïempìan di belati i lor serragli.{{R|565}}
Il padron, cui ferìan continue doglie,
D'ogniD’ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo, e non s'avvides’avvide il folle
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa{{R|570}}
De'De’ suoi velli bellissimi gravato
L'arïeteL’arïete, e di me, cui molte cose
S'aggiravanS’aggiravan per l'almal’alma. Polifemo
Tai detti, brancicandolo, gli volse:
"Arïete dappoco, e perché fuori{{R|575}}
Così da sezzo per la grotta m'escim’esci?
Già non solevi dell'agnelledell’agnelle addietro
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli
Fiori del prato a lacerar correvi
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Ritornavi da sera al tuo presepe:
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L'occhioL’occhio del tuo signor? L'occhioL’occhio che un tristo
Mortal mi svelse co'co’ suoi rei compagni,{{R|585}}
Poiché doma col vin m'ebbem’ebbe la mente,
Nessuno, ch'ioch’io non credo in salvo ancora.
Oh! se a parte venir de'de’ miei pensieri
Potessi, e, voci articolando, dirmi,
Dove dalla mia forza ei si ricovra,{{R|590}}
Ti giuro che il cervel, dalla percossa
Testa schizzato, scorrerìa per l'antrol’antro,
Ed io qualche riposo avrei da'da’ mali
Che Nessuno recommi, un uom da nulla".
Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.{{R|595}}
 
Tosto che dietro a noi l'infamel’infame speco
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a sciormi io non fui dall'arïetedall’arïete,
E poi gli altri a slegar, che, ragunate
Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,{{R|600}}
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Si fendessero i flutti. E già il naviglio{{R|610}}
Salìan, sedean su i banchi, e percotendo
Gìan co'co’ remi concordi il bianco mare.
Ma come fummo un gridar d'uomd’uom lontani
Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi{{R|615}}
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d'und’un mortal da nulla,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
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A queste voci Polifemo in rabbia
Montò più alta, e con istrana possa
Scagliò d'und’un monte la divelta cima,
Che davanti alla prua càddemi: al tonfo{{R|625}}
L'acquaL’acqua levossi, ed innondò la nave,
Che alla terra crudel, dai rifluenti
Flutti portata, quasi a romper venne.
Ma io, dato di piglio a un lungo palo,
Ne la staccai, pontando; ed i compagni{{R|630}}
D'incurvarsiD’incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,
Più de'de’ cenni pregai che della voce:
E quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo,{{R|635}}
Benché gli amici con parole blande
D'amboD’ambo i lati tenessermi: "Infelice!
Perché la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc'anzipoc’anzi a saettar si mise,
Che tre dita mancò, che risospinto{{R|640}}
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l'aerel’aere un'altraun’altra rupe,
Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia".{{R|645}}
L'altoL’alto mio cor non si piegava. Quindi:
"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,
"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'ItacaD’Itaca abitator, figlio a Laerte,{{R|650}}
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".
 
Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,
Da'Da’ prischi vaticinî eccomi côlto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Tèlemo figliuol d'Eurimod’Eurimo, che avea{{R|655}}
Dell'arteDell’arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell'occhiodell’occhio spegnerìami Ulisse.
Se non ch'ioch’io sempre uom gigantesco e bello{{R|660}}
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m'aspettavam’aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'ioch’io{{R|665}}
Ti porga l'ospitall’ospital dono, e Nettuno
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo
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Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".{{R|670}}
 
"Oh! così potess'iopotess’io", ratto ripresi,
"Te spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar regni di Pluto, come
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Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D'ItacaD’Itaca abitator, figlio a Laerte{{R|680}}
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natìo suolo, e le paterne
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Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove{{R|685}}
Nell'avìtaNell’avìta magion trovi sciagure".
 
Fatte le preci e da Nettuno accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole,
E, rotandol nell'arianell’aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lanciollo.{{R|690}}
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L'ondaL’onda, e il legno coprì, che all'isolettaall’isoletta,
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l'altrel’altre navi in su l'arenal’arena,{{R|695}}
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n'uscimmon’uscimmo, e, del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,{{R|700}}
Che parte ugual n'ebben’ebbe ciascuno. È vero
Che voller che a me sol, partite l'agnel’agne,
Il superbo arïete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturnìde, al cinto
D'oscureD’oscure nubi Correttor del Mondo,{{R|705}}
L'uccisiL’uccisi, e n'arsin’arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sacrifizi Giove,
Che anzi tra sé volgea, com'iocom’io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L'interoL’intero dì sino al calar del Sole{{R|710}}
Sedevam banchettando: il Sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
 
Ma come del mattin la figlia, l'Albal’Alba
Ditirosata in Orïente sorse,{{R|715}}
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean l'unl’un dopo l'altrol’altro, e percotendo
Gìan co'co’ remi concordi il bianco mare.{{R|720}}
Così noi lieti per lo scampo nostro
E per l'altruil’altrui sventura in un dolenti,
Del mar di nuovo solcavam le spume.
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