Odissea (Pindemonte)/Libro I: differenze tra le versioni

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<poem>
Musa, quell'uomquell’uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbepoich’ebbe a terra
Gittate d'Ilïònd’Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indolL’indol conobbe; che sovr'essosovr’esso il mare{{R|5}}
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
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Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne'ne’ loro alberghi
Fuor dell'armedell’arme sedeano e fuor dell'ondedell’onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna{{R|20}}
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
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Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,{{R|30}}
Salvo Nettuno, in cui l'anticol’antico sdegno
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
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Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un ecatombe s'eras’era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.{{R|40}}
In questo mezzo gli altri dèi raccolti
Nella gran reggia dell'olimpiodell’olimpio Giove
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de'de’ celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui{{R|45}}
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L'inclitoL’inclito figlio del più vecchio Atride.
 
"Poh!" disse Giove, "incolperà l'uoml’uom dunque
Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali
Fabbrica, de'de’ suoi mali a noi dà carco,{{R|50}}
E la stoltezza sua chiama destino.
Così, non tratto dal destino, Egisto
Disposó d'Agamennoned’Agamennone la donna,
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio dell'ultimadell’ultima ruina{{R|55}}
Che l'Argicidal’Argicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli: "Astienti
Dal sangue dell'Atridedell’Atride, ed il suo letto
Guàrdati di salir; ché alta vendetta
Ne farà Oreste, come il volto adorni{{R|60}}
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio de'de’ suoi padri volga".
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell'almanell’alma non accolse: quindi
Pagò il fio d'ognid’ogni colpa in un sol punto".{{R|65}}
 
"Di Saturno figliuol, padre de'de’ numi,
Re de'de’ regnanti", così a lui rispose
L'occhiazzurraL’occhiazzurra Minerva: "egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chïunque in simil foggia vive!{{R|70}}
Ma io di doglia per l'egregiol’egregio Ulisse
Mi struggo, lasso! che, da'da’ suoi lontano,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia;:isola, dove{{R|75}}
Soggiorna entro alle sue celle secrete
L'immortalL’immortal figlia di quel saggio Atlante,
Che del mar tutto i più riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.{{R|80}}
Pensoso, inconsolabile, l'accortal’accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
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E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d'Ulissed’Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne'ne’ troiani campi,
Non t'erant’eran forse? Onde rancor sì fiero,{{R|90}}
Giove, contra lui dunque in te s'allettas’alletta?"
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de'de’ denti?" allor riprese
L'eternoL’eterno delle nubi addensatore:
"Io l'uoml’uom preclaro disgradir, che in senno{{R|95}}
Vince tutti i mortali, e gl'Immortaligl’Immortali
Sempre onorò di sacrifici opìmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
D'infurïarD’infurïar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse{{R|100}}
Dell'unic'occhioDell’unic’occhio vedovò la fronte,
Benché possente più d'ognid’ogni Ciclope:
Pel divin Polifemo, che Toòsa
Partorì al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl'infecondidegl’infecondi mari,{{R|105}}
Nelle cave trovò paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da quell'istantequell’istante,
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo{{R|110}}
Che l'infelicel’infelice rieda; e che Nettuno
L'ireL’ire deponga. Pugnerà con tutti
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
 
"Di Saturno figliuol, padre de'de’ numi,
De'De’ regi re," replicò a lui la diva{{R|115}}
Cui tinge gli occhi un'azzurrinaun’azzurrina luce,
"Se il ritorno d'Ulissed’Ulisse a tutti aggrada,
Ché non s'invìas’invìa nell'isolanell’isola d'Ogiged’Ogige
L'ambasciatorL’ambasciator Mercurio, il qual veloce
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,{{R|120}}
Com'èCom’è fermo voler de'de’ sempiterni
Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerò, perch'eiperch’ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli{{R|125}}
Que'Que’ proci baldi, che nel suo palagio
L'interoL’intero gregge sgòzzangli, e l'armentol’armento
Dai piedi torti e dalle torte corna.
Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,{{R|130}}
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed anch'eianch’ei fama, vïaggiando, acquisti."
 
Detto così, sotto l'eternel’eterne piante
Si strinse i bei talar d'orod’oro, immortali,
Che lei sul mar, lei su l'immensal’immensa terra{{R|135}}
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrò lancia pesante,
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Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermò all'atrioall’atrio del palagio in faccia,
Del cortil su la soglia, e le sembianze{{R|145}}
Vesti di Mente, il condottier de'de’ Tafî.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
 
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Trascorrean qua e là serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne l'umorl’umor dell'uvadell’uva e il fresco fonte.{{R|155}}
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
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Non già dentro del sen, sedea tra i proci{{R|160}}
Telemaco: mirava entro il suo spirto
L'inclitoL’inclito genitor, qual s'eis’ei, d'alcunad’alcuna
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per l'ampial’ampia sala gli abborriti prenci,
E l'onorl’onor prisco a ricovrar e il regno.{{R|165}}
Fra cotali pensier Pallade scorse,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
A cielo aperto lungamente stesse,
Dritto uscì fuor, s'accostòs’accostò ad essa, prese
Con una man la sua, con l'altral’altra l'astal’asta,{{R|170}}
E queste le drizzò parole alate:
"Forestier, salve. Accoglimento amico
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Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa{{R|175}}
Minerva. Entrati nell'eccelsonell’eccelso albergo,
Telemaco portò l'astal’asta, e appoggiolla
A sublime colonna, ove, in astiera,
Nitida, molte dell'invittodell’invitto Ulisse
Dormiano arme simìli. Indi a posarsi{{R|180}}
Su nobil seggio con sgabello ai piedi
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Scanno vicin di lei pose a se stesso.
Così, scevri ambo dagli arditi proci,{{R|185}}
Quell'improntoQuell’impronto frastuon l'ospitel’ospite a mensa
Non disagiava, e dell'assentedell’assente padre
Telemaco potea cercarlo a un tempo.
Ma scorta ancella da bel vaso d'orod’oro
Purissim'ondaPurissim’onda nel bacil d'argentod’argento{{R|190}}
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E carni d'ognid’ogni sorta in larghi piatti{{R|195}}
Recò l'abilel’abile scalco, ed auree tazze,
Che, del succo de'de’ grappoli ricolme,
Lor presentava il banditor solerte.
 
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Diero alle mani, e di recente pane
I ritondi canestri empièr le ancelle.
Ma in quel che i proci all'imbanditoall’imbandito pasto
Stendean la man superba, incoronaro
Di vermiglio licor l'urnel’urne i donzelli.{{R|205}}
Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,
Pago del bere il natural talento,
Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli ornamenti son d'ognid’ogni convito.
Ed un'argenteaun’argentea cetera l'araldol’araldo{{R|210}}
Porse al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli amanti sciogliea. Mentr'eiMentr’ei le corde
Ne ricercava con maestre dita,
Telemaco, piegando in vêr la dea,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo,{{R|215}}
Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,
Ti sdegnerai se l'almal’alma io t'aprot’apro? In mente
Non han costor che suoni e canti. Il credo:!
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
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Giacciono a imputridir sotto la pioggia,
O le volve nel mare il negro flutto.
Ma s'eglis’egli mai lor s'affacciasses’affacciasse un giorno,
Ben più che in dosso i ricchi panni e l'orol’oro,
Aver l'alil’ali vorrebbero alle piante.{{R|225}}
Vani desìri! Una funesta morte
Certo ei trovò, speme non resta, e invano
Favellariami alcun del suo ritorno;
Del suo ritorno il dì più non s'accendes’accende.
Su via, ciò dimmi, e non m'asconderm’asconder nulla:{{R|230}}
Chi? di che loco? e di che sangue sei?
Con quai nocchier venìstu, e per qual modo
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Giunto, per alcun patto io non ti credo.
Di questo tu mi contenta: nuovo{{R|235}}
Giungi, o al mio genitor t'uniscet’unisce il nodo
Dell'ospitalitàDell’ospitalità? Molti stranieri
A'A’ suoi tetti accostavansi; ché Ulisse
Voltava in sé d'ognid’ogni mortale il core".
 
"Tutto da me", gli rispondea la diva{{R|240}}
Che cerùleo splendor porta negli occhi,
T'udraiT’udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,
Figliuol d'Anchìalod’Anchìalo bellicoso, e ai vaghi
Del trascorrere il mar Tafî comando.
Con nave io giunsi e remiganti miei,{{R|245}}
Fendendo le salate onde, vêr gente
D'altroD’altro linguaggio, e a Temesa recando
Ferro brunito per temprato rame,
Ch'ioCh’io ne trarrò. Dalla città lontano
Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,{{R|250}}
Nella baia di Retro il mio naviglio.
Sì, d'ospitalitàd’ospitalità vincol m'uniscem’unisce
Col padre tuo. Chieder ne puoi l'anticol’antico,
Ristringendoti seco, eroe Laerte,
Che a città, com'ècom’è fama, or più non viene;{{R|255}}
Ma vita vive solitaria e trista
Ne'Ne’ campi suoi, con vecchierella fante,
Che, quandunque tornar dalla feconda
Vigna, per dove si trae a stento, il vede,
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Fosse il tuo padre di Itaca, da cui
Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti
L'illustreL’illustre pellegrin, no, non comparve,
Ma vivo, e a forza in barbara contrada,{{R|265}}
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
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Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
D'augureD’augure insigne io non m'arroghim’arroghi, ascolta{{R|270}}
Presagio non fallace che su i labbri
Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo
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Disvilupparsi non sapria? Ma schietto
Parla: sei tu vera sua prole? Certo
Nel capo e ne'ne’ leggiadri occhi ad Ulisse
Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,
Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,{{R|280}}
Sciogliesse anch'eianch’ei su le cavate navi,
Io, come oggi appo il tuo, così sedea
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.
D'alloraD’allora io non più lui, né me vid'eglivid’egli".
 
E il prudente Telemaco: "Sincero{{R|285}}
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La madre veneranda. E chi fu mai
Che per se stesso conoscesse il padre?
Oh foss'iofoss’io figlio d'und’un che una tranquilla
Vecchiezza côlto ne'ne’ suoi tetti avesse!{{R|290}}
Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio".
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A carco di ciascun mensa imbandita.{{R|300}}
Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,
Che mirarlo, e non irne in foco d'irad’ira,
Mal può chïunque un'almaun’alma in petto chiuda".
Ed il giovane a lui: "Quando tu brami
Saper cotanto delle mie vicende,{{R|305}}
Abbi che al mondo non fu mai di questa
Né ricca più, né più innocente casa,
Finché quell'uomoquell’uomo il piè dentro vi tenne.
Ma piacque altro agli dèi, che, divisando
Sinistri eventi, per le vie più oscure,{{R|310}}
Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.
Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto
Non fôra il lagrimar, s'eis’ei presso a Troia
Cadea pugnando, o vincitor chiudea
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.{{R|315}}
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Né molto andrà che struggeran me stesso".
 
S'intenerìS’intenerì Minerva, e: "Oh quanto", disse,
"A te bisogna il genitor, che metta
La ultrice man su i chieditori audaci!
Sol ch'eich’ei con elmo e scudo, e con due lance{{R|335}}
Sul limitar del suo palagio appena
Si presentasse, quale io prima il vidi,
Che, ritornato d'Efirad’Efira, alla nostra
Mensa ospital si giocondava assiso,
(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,{{R|340}}
Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno
Che non dal Mermerìde, in cui de'de’ numi
Era grande il timor, ma poscia ottenne
Dal padre mio, che fieramente ammollo){{R|345}}
Sol ch'eich’ei così si presentasse armato,
De'De’ proci non sarìa, cui non tornasse
Breve la vita e il maritaggio amaro.
Ma venir debba di sì trista gente
A vendicarsi o no, su le ginocchia{{R|350}}
Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,
Vuolsi l'artel’arte pensare. Alle mie voci
Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbis’inalbi,
De'De’ Greci i capi a parlamento invita,
Ragiona franco ad essi e al popol tutto,{{R|355}}
Chiamando i numi in testimonio, e ai proci
Nelle lor case rientrare ingiungi.
La madre, ove desìo di nuove nozze
Nutra, ripari alla magion d'Icariod’Icario,
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca{{R|360}}
Dote apparecchierà, quale a diletta
Figliuola è degno che largisca un padre.
Tu poi, se non ricusi un saggio avviso
Ch'ioCh’io ti porgo, seguir, la meglio nave
Di venti e forti remator guernisci,{{R|365}}
E, del tuo genitor molt'annimolt’anni assente
Novelle a procacciarti, alza le vele.
Troverai forse chi ten parli chiaro,
O quella udrai voce fortuita, in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.{{R|370}}
Proa vanne a Pilo, e interroga l'anticol’antico
Nestore; Sparta indi t'accolgat’accolga, e il prode
Menelao biondo, che dall'arsadall’arsa Troia
Tra i loricati Achivi ultimo giunse.
Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,{{R|375}}
Benché dolente, sosterrai. Ma, dove
Lo sapessi tra l'ombrel’ombre, in patria riedi,
E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni
Rendigli, qual s'addices’addice, onor funébri,
E alla madre presenta un altro sposo.{{R|380}}
Dopo ciò, studia per qual modo i proci
Con l'ingannol’inganno tu spegna, o alla scoperta;
Ché de'de’ trastulli il tempo e de'de’ balocchi
Passò, ed uscito di pupillo sei.
Non odi tu levare Oreste al cielo,{{R|385}}
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Cui forse incresce questo indugio. Amico,
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,{{R|390}}
Converti in opre: d'und’un eroe l'aspettol’aspetto
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
Forte ne'ne’ dì futuri anco il tuo nome".
 
"Voci paterne son, non che benigne",
D'UlisseD’Ulisse il figlio ripigliava, ed io{{R|395}}
Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto
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Don prezïoso per materia ed arte,
Che sempre in mente mi ti serbi; dono
Non indegno d'und’un ospite che piacque".
 
"No, di partir mi tarda", a lui rispose
L'occhiceruleaL’occhicerulea diva. "Il bel presente{{R|405}}
Allor l'accetteròl’accetterò, che, questo mare
Rinavigando, per ripormi in Tafo,
T'offriròT’offrirò un dono anch'ioanch’io che al tuo non ceda".
Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza
Infondendogli e ardire, e a lui nel petto{{R|410}}
La per sé viva del suo padre imago
Ravvivando più ancora, alto levossi,
E veloce, com'aquilacom’aquila, disparve.
 
Da maraviglia, poiché seco in mente
Ripeté il tutto, e s'avvisòs’avvisò del nume,{{R|415}}
Telemaco fu preso. Indi, già fatto
Di se stesso maggior, venne tra i proci.
Taciti sedean questi, e nell'egregionell’egregio
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel difficil ritorno, che da Troia{{R|420}}
Pallade ai Greci destinò crucciata,
Della cetra d'argentod’argento al suon cantava.
Nelle superne vedovili stanze
Penelope, d'Icariod’Icario la prudente
Figlia, raccolse il divin canto, e scese{{R|425}}
Per l'altel’alte scale al basso, e non già sola,
Ché due seguìanla vereconde ancelle.
Non fu de'de’ proci nel cospetto giunta,
Che s'arrestòs’arrestò della dedalea sala
L'ottimaL’ottima delle donne in su la porta,{{R|430}}
Lieve adombrando l'unal’una e l'altral’altra gota
Co'Co’ bei veli del capo, e tra le ancelle
Al sublime cantor gli accenti volse:
"Femio", diss'elladiss’ella, e lagrimava, "Femio,
Bocca divina, non hai tu nel petto{{R|435}}
Storie infinite ad ascoltar soavi,
Line 467 ⟶ 462:
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo{{R|445}}
Del suo nome la Grecia, e ch'èch’è il pensiero
De'De’ giorni miei, delle mie notti è il sogno."
 
"O madre mia", Telemaco rispose,
"Lascia il dolce cantor, che c'innamorac’innamora,
Là gir co'co’ versi, dove l'estrol’estro il porta.{{R|450}}
I guai, che canta, non li crea già il vate:
Giove li manda, ed a cui vuole e quando.
Perché Femio racconti i tristi casi
De'De’ Greci, biasmo meritar non parmi;
Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,{{R|455}}
Tanto più loro aggrada ogni canzone.
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa
Che del ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad Ulisse: d'altrid’altri eroi non pochi
Fu sepolcro comune. Or tu risali{{R|460}}
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Line 487 ⟶ 482:
Commetti, o madre, travagliar di forza.
Il favellar tra gli uomini assembrati
Cura è dell'uomodell’uomo, e in questi alberghi mia{{R|465}}
Più che d'ognid’ogni altro; però ch'ioch’io qui reggo".
 
Stupefatta rimase, e, del figliuolo
Portando in mezzo l'almal’alma il saggio detto,
Nelle superne vedovili stanze
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome{{R|470}}
Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.
Finché inviolle l'occhiglaucal’occhiglauca Palla,
Sopitor degli affanni, un sonno amico.
 
I drudi, accesi, via più ancor che prima,
Del desìo delle nozze a quella vista,{{R|475}}
Tumulto fean per l'oscuratal’oscurata sala.
E Telemaco ad essi: "O della madre
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,
Line 506 ⟶ 501:
Né si schiamazzi, mentre canta un vate,{{R|480}}
Che uguale ai numi stessi è nella voce.
Ma, riapparsa la bell'albabell’alba, tutti
Nel Foro aduneremci, ov'ioov’io dirovvi
Senza paura, che di qua sgombriate;
Che gavazziate altrove; che l'unl’un l'altrol’altro{{R|485}}
Inviti alla sua volta, e il suo divori.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpodell’Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Fiducia, che il Saturnio a colpe tali{{R|490}}
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Morser le labbra ed inarcar le ciglia
A sì franco sermon tutti gli amanti.
E Antinoo, il figliuol d'Eupìted’Eupìte: "Di fermo{{R|495}}
A ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi e audaci t'impararot’impararo i numi.
Guai, se il paterno scettro a te porgesse
Nella cinta dal mare Itaca, Giove!
 
"Benché udirlo", Telemaco riprese,{{R|500}}
"Forse Antìnoo, t'increscat’incresca, io nol ti celo:
Riceverollo dalla man di Giove.
Parrìati una sventura? Il più infelice
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Non però ci vivrà chi del palagio
La signorìa mi tolga, e degli schiavi,
Che a me solo acquistò l'invittol’invitto Ulisse".
 
Eurìmaco di Pòlibo allor surse:
"Qual degli Achei sarà d'Itacad’Itaca il rege,{{R|515}}
Posa de'de’ numi onnipossenti in grembo.
Di tua magion tu il sei; né de'de’ tuoi beni,
Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
Chi è quello stranier? Dond'eiDond’ei partissi?{{R|520}}
Di qual terra si gloria e di qual ceppo?
Del padre non lontan forse il ritorno
T'annunziaT’annunzia? o venne in questi luoghi antico
Debito a dimandar? Come disparve
Ratto! come parea da noi celarsi!{{R|525}}
Certo d'uomd’uom vile non avea l'aspettol’aspetto".
 
"Ah", ripigliò il garzon, "del genitore
Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!
Giungano ancor novelle, altri indovini
L'avidaL’avida madre nel palagio accolga;{{R|530}}
Né indovin più, né più novelle io curo.
Ospite mio paterno è il forestiere,
Line 570 ⟶ 565:
Il buio della notte. Della notte
Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro{{R|540}}
Negli occhi il sonno ad accettar n'andàron’andàro.
Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
Per lui costrutta, si spiccava all'auraall’aura,
Salse, agitando molte cose in mente.{{R|545}}
E con accese in man lucide faci
Il seguiva Euriclèa, l'onestal’onesta figlia
D'OpiD’Opi di Pisenór, che già Laerte
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fiorìale giovinezza in volto:{{R|550}}
Né cara men della consorte l'ebbel’ebbe,
Benché temendo i coniugali sdegni,
Del toccarla giammai non s'attentasses’attentasse.
Con accese il seguìa lucide faci:
Più gli portava amor ch'ognich’ogni altra serva,{{R|555}}
Ed ella fu che il rallevò bambino.
Costei gli aprì della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli s'assises’assise,
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E all'amorosaall’amorosa vecchia in man la pose,{{R|560}}
Che piegolla con arte, e alla caviglia
L'appeseL’appese, accanto il traforato letto.
Poi d'uscired’uscire affrettavasi: la porta
Si trasse dietro per l'anell’anel d'argentod’argento;
Tirò la fune, e il chiavistello corse.{{R|565}}
Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor, per quell'interaquell’intera
Notte, il cammin che gli additò Minerva.
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