Odissea (Pindemonte)/Libro I: differenze tra le versioni
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Musa,
Dimmi, che molto errò,
Gittate
Che città vide molte, e delle genti
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
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Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea,
Fuor
Sol dal suo regno e dalla casta donna{{R|20}}
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
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Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,{{R|30}}
Salvo Nettuno, in cui
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
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Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un ecatombe
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.{{R|40}}
In questo mezzo gli altri dèi raccolti
Nella gran reggia
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e
Che il bello Egisto rimembrava, a cui{{R|45}}
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
"Poh!" disse Giove, "incolperà
Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali
Fabbrica,
E la stoltezza sua chiama destino.
Così, non tratto dal destino, Egisto
Disposó
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio
Che
Da noi mandato, prediceagli: "Astienti
Dal sangue
Guàrdati di salir; ché alta vendetta
Ne farà Oreste, come il volto adorni{{R|60}}
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui
Pagò il fio
"Di Saturno figliuol, padre
Re
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chïunque in simil foggia vive!{{R|70}}
Ma io di doglia per
Mi struggo, lasso! che,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia;:isola, dove{{R|75}}
Soggiorna entro alle sue celle secrete
Che del mar tutto i più riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.{{R|80}}
Pensoso, inconsolabile,
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
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E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati
Navile appresso,
Non
Giove, contra lui dunque in te
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra
"Io
Vince tutti i mortali, e
Sempre onorò di sacrifici opìmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse{{R|100}}
Benché possente più
Pel divin Polifemo, che Toòsa
Partorì al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re
Nelle cave trovò paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo{{R|110}}
Che
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
"Di Saturno figliuol, padre
Cui tinge gli occhi
"Se il ritorno
Ché non
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,{{R|120}}
Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerò,
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli{{R|125}}
Dai piedi torti e dalle torte corna.
Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,{{R|130}}
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed
Detto così, sotto
Si strinse i bei talar
Che lei sul mar, lei su
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrò lancia pesante,
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Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermò
Del cortil su la soglia, e le sembianze{{R|145}}
Vesti di Mente, il condottier
La forbita in sua man lancia sfavilla.
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Trascorrean qua e là serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
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Non già dentro del sen, sedea tra i proci{{R|160}}
Telemaco: mirava entro il suo spirto
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per
E
Fra cotali pensier Pallade scorse,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
A cielo aperto lungamente stesse,
Dritto uscì fuor,
Con una man la sua, con
E queste le drizzò parole alate:
"Forestier, salve. Accoglimento amico
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Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa{{R|175}}
Minerva. Entrati
Telemaco portò
A sublime colonna, ove, in astiera,
Nitida, molte
Dormiano arme simìli. Indi a posarsi{{R|180}}
Su nobil seggio con sgabello ai piedi
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Scanno vicin di lei pose a se stesso.
Così, scevri ambo dagli arditi proci,{{R|185}}
Non disagiava, e
Telemaco potea cercarlo a un tempo.
Ma scorta ancella da bel vaso
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E carni
Recò
Che, del succo
Lor presentava il banditor solerte.
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Diero alle mani, e di recente pane
I ritondi canestri empièr le ancelle.
Ma in quel che i proci
Stendean la man superba, incoronaro
Di vermiglio licor
Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,
Pago del bere il natural talento,
Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli ornamenti son
Ed
Porse al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli amanti sciogliea.
Ne ricercava con maestre dita,
Telemaco, piegando in vêr la dea,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo,{{R|215}}
Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,
Ti sdegnerai se
Non han costor che suoni e canti. Il credo:!
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
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Giacciono a imputridir sotto la pioggia,
O le volve nel mare il negro flutto.
Ma
Ben più che in dosso i ricchi panni e
Aver
Vani desìri! Una funesta morte
Certo ei trovò, speme non resta, e invano
Favellariami alcun del suo ritorno;
Del suo ritorno il dì più non
Su via, ciò dimmi, e non
Chi? di che loco? e di che sangue sei?
Con quai nocchier venìstu, e per qual modo
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Giunto, per alcun patto io non ti credo.
Di questo tu mi contenta: nuovo{{R|235}}
Giungi, o al mio genitor
Voltava in sé
"Tutto da me", gli rispondea la diva{{R|240}}
Che cerùleo splendor porta negli occhi,
Figliuol
Del trascorrere il mar Tafî comando.
Con nave io giunsi e remiganti miei,{{R|245}}
Fendendo le salate onde, vêr gente
Ferro brunito per temprato rame,
Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,{{R|250}}
Nella baia di Retro il mio naviglio.
Sì,
Col padre tuo. Chieder ne puoi
Ristringendoti seco, eroe Laerte,
Che a città,
Ma vita vive solitaria e trista
Che, quandunque tornar dalla feconda
Vigna, per dove si trae a stento, il vede,
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Fosse il tuo padre di Itaca, da cui
Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti
Ma vivo, e a forza in barbara contrada,{{R|265}}
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
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Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
Presagio non fallace che su i labbri
Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo
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Disvilupparsi non sapria? Ma schietto
Parla: sei tu vera sua prole? Certo
Nel capo e
Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,
Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,{{R|280}}
Sciogliesse
Io, come oggi appo il tuo, così sedea
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.
E il prudente Telemaco: "Sincero{{R|285}}
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La madre veneranda. E chi fu mai
Che per se stesso conoscesse il padre?
Oh
Vecchiezza côlto
Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio".
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A carco di ciascun mensa imbandita.{{R|300}}
Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,
Che mirarlo, e non irne in foco
Mal può chïunque
Ed il giovane a lui: "Quando tu brami
Saper cotanto delle mie vicende,{{R|305}}
Abbi che al mondo non fu mai di questa
Né ricca più, né più innocente casa,
Finché
Ma piacque altro agli dèi, che, divisando
Sinistri eventi, per le vie più oscure,{{R|310}}
Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.
Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto
Non fôra il lagrimar,
Cadea pugnando, o vincitor chiudea
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.{{R|315}}
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Né molto andrà che struggeran me stesso".
"A te bisogna il genitor, che metta
La ultrice man su i chieditori audaci!
Sol
Sul limitar del suo palagio appena
Si presentasse, quale io prima il vidi,
Che, ritornato
Mensa ospital si giocondava assiso,
(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,{{R|340}}
Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno
Che non dal Mermerìde, in cui
Era grande il timor, ma poscia ottenne
Dal padre mio, che fieramente ammollo){{R|345}}
Sol
Breve la vita e il maritaggio amaro.
Ma venir debba di sì trista gente
A vendicarsi o no, su le ginocchia{{R|350}}
Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,
Vuolsi
Porrai tu mente? Come il ciel
Ragiona franco ad essi e al popol tutto,{{R|355}}
Chiamando i numi in testimonio, e ai proci
Nelle lor case rientrare ingiungi.
La madre, ove desìo di nuove nozze
Nutra, ripari alla magion
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca{{R|360}}
Dote apparecchierà, quale a diletta
Figliuola è degno che largisca un padre.
Tu poi, se non ricusi un saggio avviso
Di venti e forti remator guernisci,{{R|365}}
E, del tuo genitor
Novelle a procacciarti, alza le vele.
Troverai forse chi ten parli chiaro,
O quella udrai voce fortuita, in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.{{R|370}}
Proa vanne a Pilo, e interroga
Nestore; Sparta indi
Menelao biondo, che
Tra i loricati Achivi ultimo giunse.
Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,{{R|375}}
Benché dolente, sosterrai. Ma, dove
Lo sapessi tra
E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni
Rendigli, qual
E alla madre presenta un altro sposo.{{R|380}}
Dopo ciò, studia per qual modo i proci
Con
Ché
Passò, ed uscito di pupillo sei.
Non odi tu levare Oreste al cielo,{{R|385}}
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Cui forse incresce questo indugio. Amico,
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,{{R|390}}
Converti in opre:
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
Forte
"Voci paterne son, non che benigne",
Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto
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Don prezïoso per materia ed arte,
Che sempre in mente mi ti serbi; dono
Non indegno
"No, di partir mi tarda", a lui rispose
Allor
Rinavigando, per ripormi in Tafo,
Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza
Infondendogli e ardire, e a lui nel petto{{R|410}}
La per sé viva del suo padre imago
Ravvivando più ancora, alto levossi,
E veloce,
Da maraviglia, poiché seco in mente
Ripeté il tutto, e
Telemaco fu preso. Indi, già fatto
Di se stesso maggior, venne tra i proci.
Taciti sedean questi, e
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel difficil ritorno, che da Troia{{R|420}}
Pallade ai Greci destinò crucciata,
Della cetra
Nelle superne vedovili stanze
Penelope,
Figlia, raccolse il divin canto, e scese{{R|425}}
Per
Ché due seguìanla vereconde ancelle.
Non fu
Che
Lieve adombrando
Al sublime cantor gli accenti volse:
"Femio",
Bocca divina, non hai tu nel petto{{R|435}}
Storie infinite ad ascoltar soavi,
Line 467 ⟶ 462:
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo{{R|445}}
Del suo nome la Grecia, e
"O madre mia", Telemaco rispose,
"Lascia il dolce cantor, che
Là gir
I guai, che canta, non li crea già il vate:
Giove li manda, ed a cui vuole e quando.
Perché Femio racconti i tristi casi
Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,{{R|455}}
Tanto più loro aggrada ogni canzone.
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa
Che del ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad Ulisse:
Fu sepolcro comune. Or tu risali{{R|460}}
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Line 487 ⟶ 482:
Commetti, o madre, travagliar di forza.
Il favellar tra gli uomini assembrati
Cura è
Più che
Stupefatta rimase, e, del figliuolo
Portando in mezzo
Nelle superne vedovili stanze
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome{{R|470}}
Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.
Finché inviolle
Sopitor degli affanni, un sonno amico.
I drudi, accesi, via più ancor che prima,
Del desìo delle nozze a quella vista,{{R|475}}
Tumulto fean per
E Telemaco ad essi: "O della madre
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,
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Né si schiamazzi, mentre canta un vate,{{R|480}}
Che uguale ai numi stessi è nella voce.
Ma, riapparsa la
Nel Foro aduneremci,
Senza paura, che di qua sgombriate;
Che gavazziate altrove; che
Inviti alla sua volta, e il suo divori.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io
Gli abitatori invocherò, né senza
Fiducia, che il Saturnio a colpe tali{{R|490}}
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Morser le labbra ed inarcar le ciglia
A sì franco sermon tutti gli amanti.
E Antinoo, il figliuol
A ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi e audaci
Guai, se il paterno scettro a te porgesse
Nella cinta dal mare Itaca, Giove!
"Benché udirlo", Telemaco riprese,{{R|500}}
"Forse Antìnoo,
Riceverollo dalla man di Giove.
Parrìati una sventura? Il più infelice
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Non però ci vivrà chi del palagio
La signorìa mi tolga, e degli schiavi,
Che a me solo acquistò
Eurìmaco di Pòlibo allor surse:
"Qual degli Achei sarà
Posa
Di tua magion tu il sei; né
Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
Chi è quello stranier?
Di qual terra si gloria e di qual ceppo?
Del padre non lontan forse il ritorno
Debito a dimandar? Come disparve
Ratto! come parea da noi celarsi!{{R|525}}
Certo
"Ah", ripigliò il garzon, "del genitore
Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!
Giungano ancor novelle, altri indovini
Né indovin più, né più novelle io curo.
Ospite mio paterno è il forestiere,
Line 570 ⟶ 565:
Il buio della notte. Della notte
Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro{{R|540}}
Negli occhi il sonno ad accettar
Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
Per lui costrutta, si spiccava
Salse, agitando molte cose in mente.{{R|545}}
E con accese in man lucide faci
Il seguiva Euriclèa,
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fiorìale giovinezza in volto:{{R|550}}
Né cara men della consorte
Benché temendo i coniugali sdegni,
Del toccarla giammai non
Con accese il seguìa lucide faci:
Più gli portava amor
Ed ella fu che il rallevò bambino.
Costei gli aprì della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E
Che piegolla con arte, e alla caviglia
Poi
Si trasse dietro per
Tirò la fune, e il chiavistello corse.{{R|565}}
Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor, per
Notte, il cammin che gli additò Minerva.
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[[el:Οδύσσεια/α]]{{Interwiki-info|el|(orig.)}}
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