Le Metamorfosi/Libro Primo: differenze tra le versioni
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<section begin="incipit" />Le forme in novi corpi trasformate
Gran desio di cantar
Da i tempi primi à la felice etate,
Che fu capo à
Dei,
Ma tolto à voi piu volte il proprio aspetto,
Porgete à tanta impresa tale aita,
E tu, se ben tutto hai
Invittissimo Henrico al fero Marte,
Di figurar sì bei concetti in carte,
Fammi del favor tuo
Che le tue gratie à noi largo comparte:
Che
Farò cantar le Muse al suon de
Pria che
Era il foco, la terra, il cielo, e
Ma
Deforme il foco, il ciel, la terra, e
Che ivi era e terra, e cielo, e mare, e foco;
Dove era e cielo, e terra, e foco, e mare:
La terra, il foco, e
Nel mar, nel foco, e ne la terra il cielo,
Non
Col maggior lume in Oriente acceso.
Ne rinovava mai la Luna il corno,
Ne
Ne pendea la terra intorno intorno
Librata in aere dal suo propio peso.
Ne
Fatto intorno à la terra il vario lido.
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Faceano un corpo infermo, e mal disposto
Per donar forma al mal locato seme:
Anzi era
Per le parti di mezzo, e per
Fea guerra il leve al grave, il molle al saldo,
Contra il secco
Ma quel, che ha cura di tutte le cose,
La Natura migliore, e
Tutti quei corpi al suo luogo dispose
Secondo il proprio lor primo desio.
La terra, indi dal mar la dipartio;
E
Se ne volò nel piu sublime loco.
Prossimo à lui
Che quanto è il mar piu del terren leggiero,
Tanto ei del foco è piu tardo, e piu greve.
Quindi nel centro il suo piu proprio, e vero
Luogo la terra piu densa riceve.
Che
E dove fur ne
E cercar farsi sempre oltraggio, e scorno;
Ne la disunion restaro amici,
Poi
E partorir
Onde il mondo veggiam sì bello, e adorno,
Et à far sì bei parti et infiniti,
Sol la disunion gli fece uniti.
Poi che
Qual fosse de gli Dei quel, che
Acciò che fosse uguale in ogni parte,
La terra in forma
Poi fe, che
Lasciando isole, e terre, e quinci, e quindi
A gli Sciti, à
E di ridurla in miglior forma vago,
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Quinci un gran stagno, e quindi un chiaro lago,
Là selve ombrose, e quà piante novelle.
Fe correr piu
Fra torte ripe in queste parti, e
Tanto che giunto in più libero nido,
Percote in vece delle ripe, il lido.
Fece i morbidi prati ornati, e belli
I freschi chiari, e limpidi ruscelli
Gire irrigando le feconde valli;
I colli ameni di varij arbuscelli
Fregiati
E sorger gli alti e faticosi monti,
Quel nudo, e questo pien
Cingono cinque cerchi il ciel superno,
Uno nel mezzo, e due per ogni lato.
Cosi
Fosse da cinque cerchi circondato.
Senton gli estremi insopportabil verno,
Quel del mezzo è dal Sol troppo infocato,
Due fra gli estremi, e
Che son temprati e dal freddo, e dal foco.
Soprastà
Ma
Pose ivi i venti torbidi, e i sereni,
Si pronti à farsi
Che à pena ostar si puote à la lor guerra,
Che non distrugga il mar,
Euro verso
Che al raggio matutin si sottopone.
Favonio ne
Opposto al ricco albergo di Titone.
Ver la fredda, e crudel Scithia si volse
Tenne
Che di nubi, e di pioggie ingombra
Tra lor divisi à pena havea gli honori
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Locò Venere in ciel, Saturno, e Marte.
A le fiere il terren donar li piacque,
A i vaghi augelli
Fra gli animali il più santo, e
Mancava anchor,
Ilqual col piu purgato alto intelletto
In tutte
Generò
Quel, che formò
O pur la nova terra di quel seme,
Che
Tutti
Per
Nè prono il fe come gli altri animali,
Che guardan sempre mai verso
Perche mirasse le cose immortali,
E per farlo piu amabile, e piu pio,
O che cosi Prometeo il componesse
Di terra schietta, e
Poi col foco del ciel
Ó pur che fosse la miglior natura;
Con questa venerabil forma resse
E, dato fine à si nobil lavoro
Questo un secolo fu purgato, e netto,
Un proceder leal, libero, e schietto,
Servando
Non
Del giudice implacabile, e severo;
Ma giusti essendo allhor, semplici, e puri,
Vivean
Sceso dal monte anchor non era il pino
Per trovar nove genti à solcar
Ne sapeano i mortali altro confino,
Che i proprij liti lor, le proprie sponde;
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Per riportarvi ricche merci altronde.
Non si trovava allhor città, che fosse
Non era stato anchora il ferro duro
Tirato al foco in forma,
Nè bisognava à
Che
Tromba non era anchor, corno, ò tamburo,
Che al fiero Marte gli animi accendesse;
Ma sotto un faggio
E da
Senza esser rotto, e lacerato tutto
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Dava il grato terren liberamente.
E quale egli venia da lui produtto,
Tal se
Che spregiando condir le lor vivande
Mangiavan corne, e more, e fraghe, e ghiande.
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E con fecondo, e temperato raggio
Recava al mondo eterna primavera.
Zefiro i fior
Nutria con aura tepida, e leggiera.
Stillava il mel da gli Elci,e da gli Olivi.
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Ó fortunata età, felice gente,
Che ti trovasti in così nobili anni,
Questa da rei pensier, quel da tiranni:
Dove era almen securo
Da gli odij, da
Beato, e veramente secol
Dove senza alcun mal tutti i ben foro.
Poi che al piu vecchio Dio noioso, e lento
Dal suo maggior figliuol fu tolto il regno,
Seguì il secondo secol de
Men buon del primo, e del terzo piu degno;
Che fu quel viver lieto in parte spento,
Servar modi, costumi, e leggi nove,
Sì come piacque al suo tiranno Giove.
Egli quel dolce tempo,
Fece parte de
Aggiungendovi state, autunno, e verno,
Foco empio, acuti morbi, e fredda neve.
Nel mangiar, nel vestire, hor grave, hor leve,
Secondo
Già Tirsi, e Mopso il fier giuvenco atterra
Per porlo al giogo,
Già il rozzo agricoltor fere la terra
Col crudo aratro, e poi vi sparge il seme.
Ne le grotte al coperto
Overo arbori, e frasche intesse insieme.
E questo, e quel si fa capanna, ò loggia
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Dal metallo, che fuso in varie forme
Rende adorno il Tarpeio, e
Sortì la terza età nome conforme
À quel, che trovò poi
Che nacque à
Che li fece venir con
I lor discordi, ostinati pareri.
À
Pericol nella vita, e ne
E spesso in ambedue vergogna, e danno;
Ma se ben
Non
Come fur ne la quarta età più dura,
Che dal ferro pigliò nome, e natura.
Il ver, la fede, e ogni bontà del mondo
Fuggiro, e verso il ciel spiegaro
E
La menzogna, la fraude, e tutti i mali.
Ogni infame pensiero, ogni atto immondo
Entrò ne crudi petti de mortali;
E le pure virtù candide, e belle
Giro à splender nel ciel fra
Un cieco e vano amor
Gli huomini indusse à diventar tiranni.
Fer le ricchezze i già svegliati ingegni
Darsi à i furti, à le forze, et à
À gli homicidij, et à mille atti indegni,
Et à tante de
Che, per ostare in parte à tanti mali,
Ma quei ciechi desir non furo spenti,
Die
Prima, che ben gli havesse conosciuti.
Gli arbori eccelsi
Per forza da gli artefici abbattuti,
E ridotti altri in asse, et altri in travi,
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Ne fur molto securi i naviganti,
Molti huomini importuni, et arroganti
Sù varij legni diventar corsari.
La terra, già comune à gli habitanti,
Come son
Fu fatta in mille parti; e posto il segno
Fra cittade, e città, fra regno, e regno.
Ne
Trar le biade, e le sue più care cose,
Andando quanto più potea sotterra,
Cercò
E ritrovovvi il nervo de la guerra,
E de
lo dico il crudo ferro, e micidiale,
E
Scorta che fu la più ricca miniera,
E quel metallo poi purgato, e netto,
Se
Che per lui fero ogni crudele effetto.
Di tu
Falsa Erinni, Tesifone, et Aletto,
Voi tutte furie del regno di Dite,
Voi, che le ritrovaste, voi le dite.
Va
Ecco un ladro il saluta, il bacia, e ride,
E fingendo amistà, patria, e lignaggio
Il cittadin, più cortese, che saggio,
Alberga con amor persone infide,
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E dando al ricco socero il veleno,
Toglie à la fida moglie il caro padre.
Con le sue mani insidiose, e ladre,
Dando al genero ricco occulta morte,
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Tra fratelli ogni amor si vede estinto
Nel partir la paterna facultade;
Vien dal proprio interesse
Che spesso la dividon con le spade.
La matrigna crudel con viso finto
À
Che per suo ben
Per veder poi più ricchi i proprij figli.
Chi potria dir
Chi per goder la roba, e chi la dote
Cercando van come
Egli
Ella à lui, egli à lei la vita toglie.
Fa ricco ella il
Ei de la dote altrui la concubina.
Line 362 ⟶ 357:
Per dargli il pane, à la sua bocca il fura.
Poi ricco il face il suo savio consiglio,
E
O rimbambito il finge, e di se fuore
Per goder senza lui del suo sudore.
Piene di sanguinosi alti perigli,
Che spingono à morir le genti armate
Sotto
Onde le donne afflitte, e sconsolate
Piangono i morti lor mariti, e figli,
E
Resta senza governo, e senza padre.
Astrea, che con la libra, e con la spada
Conosce di ciascun
Poi che
Da giugner con la pena al grande merto,
Se non rendeva per ogni contrada
Il mondo à fatto inutile, e deserto,
Pria che veder che
Ultima andò fra i più beati Numi.
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Che spregiando i bei doni de la terra,
Vollon gustar gli alti nettarei fonti,
E
Onde osar metter monti sopra monti,
E farsi scala al ciel per far lor guerra,
Ponendo con la lor mirabil possa
Il figliuol di Saturno, che discorre
Un sì nefando, e sì crudel disegno,
E vedendo il pericolo, che corre
Al più dannoso fulmine ricorre,
E folgorando in quel lavoro indegno,
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Ma la natura pia, che non consente,
Che quella stirpe sia stirpata à fatto,
Fà germogliar di novo
Del sangue loro in terra putrefatto,
Che fu
E
Di sangue nacque, e ne fu tanto ingorda,
Che di sangue era
Ne fu contra gli Dei la più spietata,
Ne che il lor culto in più dispregio havesse.
Hor mentre il gran motor
Sdegno degno di Giove il cor gli oppresse,
Et havendo la mensa scelerata,
E mille ingiurie ne la mente impresse
De
Fe chiamar gli altri Dei tutti à consiglio.
Una splendida via nel ciel riluce,
Candida sì, che dal latte
La nobiltà del ciel vi si riduce,
La plebe alberga in questa parte, e
Questa è la via, la qual dritto conduce
À la corte real, superba, e bella.
Per questa via con pompa, e con decoro,
Gli Dei
Assiso
E ne
Girando ei
Mostrò
Crollando il capo altier, che
Il ciel, la terra, il mare, e i venti move;
Per far noto à che fin tutti raccolse,
Line 441 ⟶ 436:
Per le cose del mondo dal pensiero,
Nel tempo, che i Giganti sottomesso
Haveano tutto
E tutto il cielo in gran travaglio messo
Cercando opprimer noi col nostro impero,
Tentando con la forza, e con
Dar fine al nostro sempiterno regno.
Che se ben era
Del corpo forte, e de
Pur tutto
Nacque sol
Solo una coppia al mondo hor ne riserbo,
Che la deità nostra adora, e teme;
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Per tutto il mondo à noi fatto è ribelle.
E per
A dover osservar le mie parole,
Per tutto, ovunque il mare abbraccia, e cinge,
Voler tutta annullar
Che se necessitade à ciò ne spinge,
Una piaga incurabil se ben dole,
Line 466 ⟶ 461:
Satiri, Semidei, Fauni, e Silvani
Non degni anchor de
Fra spirti sì crudeli, e sì profani,
Come
Se me, che con le proprie invitte mani
Lancio
Me, che dò legge à la celeste corte
Ha cercato un mortal condurre a morte?
Line 477 ⟶ 472:
Udita sì perversa intentione:
E tanto à cieschedun dolse, e dispiacque,
Chi sì ne le
E dimostraro tutti à più
Ver Giove gran pietà, ver lui gran sdegno.
Ma poi,
Comandò, che ciascun tacendo, udisse;
Via più che mai terribile, e feroce
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Lasciate andar, che del suo fallo atroce
Volli, che degna pena ei ne patisse;
Però, che li cangiai la forma, e
Per suo supplicio. Et udirete come.
Quando mi venne per sorte à
Dal ciel discendo, e cercar
Prendo human volto, e
Lascio, e vò (non credendolo) in persona.
Qui saria lungo à darne il conto intero,
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Vidi cercando diversi paesi
Regnar per tutto la forza, e
Giunsi al fine in Arcadia, e quivi intesi,
Che
Ver le case spietate il camin presi,
Per voler riparar à sì gran danno;
Fei per gran segni noto al venir mio,
Gli spirti più sinceri, e più devoti
Line 517 ⟶ 512:
Che fede Licaon volesse darmi,
Anzi di me sì forte si ridea,
Che
Poi tra se disse. io mi son risoluto
Voler di questo fatto esser più chiaro,
Se questo è Dio, ò pur qualche huomo astuto,
Che cerchi
Perche
Che
E non contento del mortal oltraggio,
Che ne la mente sua tenea celato,
Ucciso
Che pur dianzi i Molossi gli havean dato,
O per assicurarlo de
O per altro interesse del suo stato;
E
Io
Tutta di foco quella casa sparsi,
E gli Dei suoi familiari, essendo
Degni di maggior pena, accesi, et arsi.
Dove meglio pensò poter salvarsi;
E dove il bosco ha più le parti ombrose
Più tosto, che poteo, corse, e
E volendo parlar seco, e dolersi
De la sua acerba, e meritata pena,
Subito in ululato si converse
La voce sua,
Volse il corpo à la terra, al ciel la schena.
Il volto human si fe ferina faccia,
E piedi, e gambe, le mani, e le braccia.
Si fe
Servando
Che
Hor, per empire il suo ventre vorace
Serva nel gregge anchor la stessa norma,
Gli occhi ha lucenti, e guardatura fera,
La canicie, e
Solo una cosa ho spenta, hora à me pare,
Che
Perche per tutto, ove la terra appare,
Han preso imperio le furie infernali,
Pensate, che giurato habbian di fare
Gli huomini tutti i piu nefandi mali,
Si
Perche pari a
La sentenza di Giove
Altri con cenni, et altri con parole,
E stan con fantasia stabile, e ferma,
Che splender debbia à novo mondo il Sole.
Sì general iattura incresce, e dole,
Che san, che
Privo de
Chi porterà (diceano) in nostro honore
Le città
Lasciate andar,
Rispose Giove, e non sia chi ci pensi,
Con mirabile origine io fo stima
Far gente assai dissimile à la prima.
Giove distrutta havria tutta la terra:
Ma tanti fochi ben poteano anchora
Ardere il cielo, e ruinarlo à terra.
Sa ben, che
Che
E consumar con le sue fiamme ardenti
La terra, il cielo, e tutti gli elementi.
Da parte tosto ogni pensier si mette,
Che
E si ripongon tutte le saette
Che fa Vulcan ne la montagna Etnea.
In quanto al modo, ogni Dio si rimette
A quel,
Che fu contrario al primo, e à tutti piacque
Di nasconder la Terra sotto
Fa dire ad Eolo la corte superna,
Che vuol la terra à
Egli, che i venti à suo modo governa,
E
Rinchiude Borea in una sua caverna,
Et ogni vento, che la pioggia abhorre,
E
Che per molti suoi segni à molti è noto.
Con
Dal dorso horrido suo scende tal pioggia,
Che par, che tutto
Piovon spesse acque in spaventosa foggia
La barba, il crine, e
Le nebbie ha in fronte, i nuvoli à le bande
Ovunque
Quando con
Le nubi intorno, e fra le palme preme,
Un strepito, un romor
Che par, che
Vien giù la pioggia più spessa che puote;
Arbori spoglia, et herbe atterra, e biade
Dove la pioggia ruinosa cade.
Il misero villan,
Venir dal cielo il non pensato danno,
Con intenso dolor piange, e sospira,
Che perde il suo lavor di tutto
La nuntia di Giunon, che quando vanno
Porge à le nubi i debiti alimenti.
E non bastando il mal, che à basso infonde
Il ciel, continuo,
Nettuno con le sue
Contra il terren prepara
Perche più facilmente lo sprofonde,
Gli dei chiamò de
E lor disse in parlar rotto, et altero,
Il giusto de gli Dei sdegno, e pensiero.
So ben, che non bisogna
(Disse) ad empir la volontà di Dio,
Che vuol, che tutti gli huomini sian morti
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Per ubidire il suo signore, e Giove.
E rompe à
Percote col tridente il marin Nume
Che trema tanto fuor del suo costume,
Trema, e par ben, che in precipitio cada,
E
Corrono al mar con furia i fiumi alteri
Line 676 ⟶ 671:
E traggon seco imperiosi, e feri,
Arbori, et animali, e case, e tempi.
Quel che mai non poter tanti anni, e tempi,
E
Gli coprì
Questo e quel fiume tanto, e tanto ingrossa,
Che al fin congiungon le parti supreme,
E fanno di
Per gire in una massa unite insieme.
Van con tanta arroganza e con tal possa,
Che
Esse con tal furor urtan, che pare
Nel mare in
Prevale al fine il mare, onde i cacumi
De gli alti monti ogni hor si fan più bassi.
Escon le fere de gli hispidi dumi,
E gli huomini di casa afflitti e lassi,
E
E
Stansi piangendo il lor crudel destino
E
Han grande invidia à
Che par che poco anchor teman de
Superbo in tanto il gran furor marino
Gli huomini, gli animali, e
Nuota il lupo fra capre, e fra montoni,
E gli huomini fra tigri, e fra leoni.
Non vale à
Nulla giova al leone esser feroce,
Non à Signori
Poco rileva al cervo esser veloce,
Che
Del mare à tutti parimente noce.
Van fra gli arbori i pesci ne le selve,
Già nidi, e tane
Molti fuggiti in qualche monte alpestre,
Line 721 ⟶ 716:
Cercando al mar con le lor proprie destre
Con infiniti mezzi contraporsi.
Rompe
E batter quella rocca mai non cessa
In fin che non
Di casa fugge, e maggior monte sale:
Sopra
Al più supremo ramo, e non gli vale,
Che soverchiano al fin le tumide onde,
Quel monte altier,
Le navi, che solean per
Andar solcando il lor noto viaggio,
Line 741 ⟶ 736:
E non è lor possibile contrastare,
À tanto, e non mai tal provato oltraggio;
Che forza è, che perisca ogni gran nave.
Line 747 ⟶ 742:
Poteano in tanto mar notando aitarsi?
Come poteano i più forti animali
Varcar
Si tenne un tempo il vago augel su
Cercando arbore, ò terra ove posarsi,
E stanco al fin lasciò nel mar cadersi,
Che tutti altri animali havea sommersi.
Era gia
Che superava ogni superbo monte:
E per tutto era il mar col mar congiunto;
Fatto era mare il lago, il fiume,
Il mar potea vedersi in ogni punto
Bagnare intorno intorno ogni Orizonte.
Tutto
Se i nuvoli, e le nebbie folte, e nere,
Non
Come havresti sofferto di vedere
Il mondo, à cui tu splendi in mar sepolto?
Line 769 ⟶ 764:
Non haveresti il carro altrove volto?
Ma tu, per non veder caso si duro,
Ti velasti
Ditemi, havete voi frenato il pianto
Nereide, e voi maritimi divini,
Vedendo
In bocca
Et ogni luogo sacro, e tempio santo
Ricetto di Balene, e di Delfini?
Che dovea fare in voi vista si tetra,
Fra gli Attici, e gli Aonij un monte siede,
Che con due sommità
La cui cima à le nubi soprasiede,
Ne teme
Due quivi alme arrivar,
E
Scelse, e salvò fra tutti il gran Monarca.
Il figliuol di Prometheo, io dico quello,
Che sol con la consorte era rimaso,
Sommerso
Dal Borea à
Tosto, che
À la cima del monte di Parnaso,
Le Coricide Ninfe, e Themi adora,
Che
Più giusto huom mai non fu, ne più leale
Line 804 ⟶ 799:
Giove, che dal celeste tribunale
Scorse tutte le genti esser già morte,
E
Uno de
Trovandogli ambo fidi, ambo innocenti,
Ambo
Fè per
Da cui fur tutti i nuvoli scacciati.
Rasserenati tutti gli elementi,
Mostrò la terra al mondo de le stelle,
Et à la terra le cose alte, e belle.
Il gran Rettor del pelago placato,
Fà, che
À la cava, sonora, e torta conca.
Al suono altier da tal tromba spirato
Non può risponder concavo, ò spelonca;
Ma rompe in modo
Che ne rimbomba
Sparto
Che vuol, che à i luoghi lor ritornin
Fer tutti quel, che al Re de
Si mise ogni acqua in corso, e in abbandono
Fin, che nel primo suo letto si giacque.
Già
E, secondo che manca, il terren cresce.
Il noto lito già percoton
Del mar, che poco cura uscirne fuore.
Ogni fiume ha da i lati argini, e sponde,
Alte per
Se vivessero quei, che
Saria resa la terra al primo honore.
Standosi adunque muta in ogni canto,
Così
O Pirra, ò mia sorella, ò mia consorte,
O donna da gli Dei sola salvata,
O sola à me di sangue, e
Nodo
O sola, à cui
Ecco hor noi siam tutta
E dove nasce, e dove more il Sole.
Noi tutto
Di tutto
Ben che anchor
Ne siam molto securi de la vita,
Deh che faresti misera, e dolente,
Se fossi senza me dal mar fuggita?
Come sola il timor discacceresti?
Chi ti consoleria? dove
Sappi pur certo compagnia diletta,
Che se
Havesse anchor di te fatto vendetta,
E me lasciato in questa vita amara,
lo ti seguiterei con quella fretta,
Laqual ricercheria cosa sì cara,
Per non star sol nel desolato mondo.
Sapessi almen con la mirabil arte
E dargli
Quel, che morrà, se tu ti muori, et io.
Hor siam de
A i monti, à i boschi, à gli elementi, e à Dio;
Et odon solo i nostri alti lamenti,
Line 884 ⟶ 879:
Non renda in vano il suo pregiato frutto?
Come farassi, quando andrem sotterra,
Qual luogo habiteremo, ò quello, ò questo,
Che non lasciam dishabitato il resto?
Line 897 ⟶ 892:
À farvi hor quella parte, che volete?
Fermò
Ma non potè fermar
Straccia la Donna il crin, percote il petto,
Di lagrime spargendo il viso,
E
Che non puote formar parola intanto,
Piange, e stà muta, e
E non sà che si dica ò, che si faccia.
Conchiudono ambo al fin che si ricorra
À
Pregandol, che risponda, e lor discorra
Come han da racquistar quel,
Non havendo altra via, che à ciò soccorra,
Se ne vanno al Cefiso, che venuto
Se
E di mondar ne
Sparti de
Al tempio van de la divina Theme,
Dove il loto ascondea di fuori e drento
E le pareti, e le parti supreme.
Stassi
Giunti ivi
E poi
Incominciar con suono afflitto, e lasso.
Se mai posson del ciel mitigar
I giusti preghi
Il modo in noi Themi fatale inspira
Da riparar
A le cose del mondo attendi, e mira,
Che son tutte sommerse in ogni parte.
La Dea si mosse à la giusta proposta,
Dando à
Del tempio uscite, e discinte
Le vesti intorno, le tempie velate;
De la gran Madre poi
E quelle dietro à le spalle gittate.
Stero un gran pezzo stupefatte, e chete
Parla al fin Pirra, e nega che
La risposta fatal, crudele, et empia.
Perdonami, dicea, sublime, et alma,
Immortal Dea, se ben non mi son mossa
Ad ubidir, che temo offender
De la gran madre mia gittando
Pianger non cessa, e batter palma a palma,
Pur ripensando al dir de gli alti Dei,
Cosi Deucalion parlò con lei.
Pirra
Se, che
Che con le putride ossa homai sotterra
Crear dobbiamo al mondo i novi heredi.
Io so che la gran madre è la gran terra;
Son
Ne pensar posso, che
Se
Ben che la donna confortasse alquanto
Quel, che
E se ben fu quel senso fido, e santo,
Non però fermamente si credea:
Pur
E se ben parea lor cosa alta, e nova:
Che nocer potea lor farne la prova?
Line 975 ⟶ 970:
Io dirò cose manifeste, e conte,
Nè forse mi sarian credute molto,
Dicendo quel,
Se non ne fesse il tempo antico fede.
Line 981 ⟶ 976:
Secondo la fatal prefissa norma,
Deposta la durezza, e fatti molli,
Cominciaro à sortire
Già si scorgono e capi, e braccia, e colli,
E
Simili à i corpi ne i marmi scolpiti,
I quai siano abbozzati, e non finiti.
Cangiossi in carne, in sangue, in barbe, e
E quella, che
Tenne in
Le parti di più nervo, e di più lena,
Diventar nervi, et ossa, e non so come.
Prese ogni sasso quel divino aspetto,
E come da gli Dei lor fu concesso,
I sassi, che da
Tutti sortir faccia virile, e sesso.
Fur tutti gli altri in donne trasformati.
Line 1 005 ⟶ 1 000:
Che siam nati di sassi in aspri monti.
Cosi ripieno fu
Che del loco natio fer poca stima:
Girar fra i Poli, e
Fin
Al terren, più che mai lieto, e fecondo
Mancava ogni animal, che
E quelli ad uso de
La terra partorì spontaneamente.
Che poi che riscaldò Febo il terreno,
E concepì nel suo fecondo seno
La terra la virtù del generare:
Le parti ove volean
Fer, che la terra parturì per tutto
Questo, e quello animale, il bello, e
Come quando le sette altere corna
Unisce il Nilo, e
Tosto che nel suo letto antico torna
E và lavando la sua ricca sponda:
Fa
La terra, aitata dal Sole, e da
Ecco una fera intera, una imperfetta,
Mezza
E se ben
Posson
E fatti amici, temprati, e concordi,
Fan gravida la terra del lor seme.
E se ben questo à quel par, che discordi,
E sempre
Con la discorde lor concordia fanno,
Che nascon gli animai, vivono, e vanno.
E non sol rinovò
De gli animali à se stessa la terra,
Ma spaventosi mostri, immensi, e forti,
Ma più da te ne fur feriti, e morti,
E
Da te crudel Piton serpente ignoto
Che quasi il mondo ritornasti voto.
Come una gran montagna era eminente,
E nero
Una grossa colonna era ogni dente,
E
Sembrava ogni occhio una fornace ardente
Ogni membro, che havea, tenea del mostro.
Febo al mondo levò sì grave incarco,
Votando la faretra, oprando
Dal biondo Dio fu ne le caccie usato,
Forò la pelle, e quelle dure squame,
Onde il mostro crudel tutto era armato.
E così Febo quella ingorda fame
Spense, che
Et ucciso che
E come prima in terra si converse.
E, perche
Tor la memoria di sì degna offesa;
Più giochi instituì celebri, e degni,
Per
Chiamolli Pitij, e diè premij condegni
Al vincitor
Che per
Si coronava de
Colui, che più veloce era nel corso,
Il premio havea de
E se col carro alcun meglio havea corso,
Il medesmo ottenea pregio, e favore.
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Restava ne le lotte vincitore,
Cingea di quelle frondi il capo à tondo,
Apollo allhor
Ornò le belle tempie, e
Fin che
Che nacque al mondo il sempre verde alloro.
E non fu
Che
Ma sdegno, onde lo Dio
Per
Lieto Apollo
Et incontrato in quel garzone acerbo,
Contra il cui stral non vale elmo, ne scudo,
Vedendogli incurvar le corna, e
À
Si tenne à grande ingiuria, à grande incarco,
Che sì fiero, et altier portasse
Et à lui disse. Lascivo fanciullo,
Che vuoi tu fare ò di saette, ò
Che sei nel mondo un gioco, et un trastullo,
À quei, che di pensier son voti, e scarchi.
Io quello hor son,
À ciascun, che
À me sta ben usar
Che so con esso far più certa guerra,
Far piaga più secura, e più mortale,
E cacciar
Trovai pur dianzi il più fero animale,
Che si vedesse mai sopra la terra.
E fu
Leggier fanciul con la tua face attendi
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Con quella ne i tuoi servi imprimi, e accendi
Non so che vani tuoi scherzi, et amori;
De
Tutti i pregi son miei, tutti gli honori.
Lo Dio
Disse à lui, più che mai fiero et ardito.
Vaglia con fere pur
Che
E quanto à gli alti Dei cedono i mostri,
Tanto è minore il tuo valor, che
Farà di tanto ardir pagarti il fio.
E spiegò ratto le veloci penne,
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Due strali sceglie di contrario effetto,
Questo sprona ad amare, e quello arretra,
Infiamma
Questo fa
È
Di piombo quel,
Torna con le nove armi à la vendetta,
E trova il biondo Dio non meno altero.
Tosto
Il core al forte et oltraggioso arciero.
Poi gli mostra una vaga giovinetta,
Che
Lo stral di piombo allhor da
E
Dafne, figlia à Peneo, fu
Ninfa, che allhor solinga se ne giva,
E cercando imitar Diana,
Fu de
Molti, e molti cercar per moglie havella
Per
Gli amori ella, e i connubij dispregiando,
Contenta hor questa, hor quella fera piglia
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Servare i casti suoi pensieri, e voti;
Come fosse il connubio un grave eccesso,
Conoscer non volea
Sparsa le guancie di color di rose,
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Vivi pur figlia mia vergine, e casta,
Le disse il padre; ma veggio in effetto,
Che al desiderio,
Cotesto vago tuo leggiadro aspetto.
Febo
Vorria sposarla, e far comune il letto,
La spera, e ne compiace à i desir sui,
Ma gli oracoli suoi mentono à lui.
Come
Ó secca siepe, e manda in aria il vampo,
Comincia in una parte, e à poco à poco
Rinforza intorno, e rende maggior lampo;
Si sparge al fin
E tien tutta la siepe, e tutto
Così il foco di Apollo al cor ridutto,
Al fin si sparse, e
Vede à la Ninfa inculti i suoi crin
E che sarian (disse egli) essendo ornati,
Raccolti in qualche vago, e bel lavoro,
Fra gemme, et oro, in piu fogge intrecciati?
Loda la maestà, loda il decoro,
Ma più quel vago lume il tira, e alletta,
Onde il folgora amor sempre, e saetta.
Di gratia, e di beltà, diletto prende.
Di speme il pasce
E la benignità,
Loda la dolce bocca, e duolsi, e pena,
Che i frutti suoi non prova, e non intende.
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Parti, che ascose son, crede più belle.
Vede
Che così intento, e fiso la riguarda,
E perche ha
Prende una fuga subita, e gagliarda:
Ma non sì tosto il corso i piedi aprio,
Che la mossa di lui non fu men tarda.
Fugge ella, ei segue, e
Le parla, nè perciò fermar la puote.
Deh non fuggir, vaga fanciulla, e bella
Dal gaudio
Come fugge colomba, ò tortorella
De
Come dal lupo la timida agnella,
Come si fugge un spaventoso mostro:
Ma non chi per amor segue e si strugge.
Guarda quei pruni, oime, ferma i tuoi passi,
Che non
Oime
Fra sì precipitose, alte ruine,
Et io fossi cagion, che dirupassi,
Line 1 252 ⟶ 1 247:
Che con la punta sua dura, e pungente,
Non fesse oltraggio al tuo tenero piede,
Ó serpe, ò
Che
Và Ninfa và, con passo men gagliardo,
Et
Cerca, e discorri, à cui non porti amore,
Line 1 261 ⟶ 1 256:
Io non son montanar, non son pastore,
Non guardo rozzo qui gregge, od armenti:
Deh volgi un poco à me la fronte, e
Tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti,
Non sai stolta, non sai chi fuggi; e credi
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Huom terrestre io non son, ma dio del cielo,
Ben
Che son signor di Tenedo, e di Delo,
E di Delfo, e di Patara, e di Claro:
Toglio à la notte il tenebroso velo,
E rendo al mondo il dì splendido, e chiaro.
Quel
Si può saper per la scientia mia.
Line 1 279 ⟶ 1 274:
Rendo col canto mio sì dolce tuono,
Che rompo, e placo ogni rancore, e sdegno.
E
Potessi
Faresti me,
Vinto dal vario suon, dal dolce canto.
Non si trova ferir più fermo, e vero
De
Anzi
Che
Ho ne la medicina il sommo impero,
La gran virtù de
Oime non
Nè quel, che giova altrui, giova al suo Dio.
Che cosa più crudel, giovar mi puote
Se
Non
Non mille, e mille mie lodate parti;
Ma quanto più il mio duol
Tanto più fuggi, e men posso arrestarti.
Nè giovar ponno à le mie piaghe acerbe
Regni, fati, beltà, canto, arco, et herbe.
Al fin
Tace, e la mira, e più bella la scorge,
Che
Gonfia il vento le vesti, e manca, e sorge,
E mostra hor questa, hor quella parte ignuda.
La chioma alzata in aria apre, e raggira.
Visto che hor più vago il divo aspetto
Cresce à la Ninfa, e
Non può soffrir
Di gittar più lusinghe, e più parole:
Il cuoce in modo il foco,
Che non par piu che corra, ma che vole;
E per
Come gli mostra Amor, ricorre al corso.
Tal, se
Si stende al corso in
E, perche
Questa, e quel passa ogni dubbioso inciampo,
Già il can la piglia, e par che
Ella è in dubbio
Così Febo, e la vergine fugace,
Fan, questo sprona amor, quella timore.
Al fin chi segue tiranno, e rapace,
Forse aiutato da
Nel corso è più veloce, e pertinace.
Gia il rispirar, che dal corso è maggiore,
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Mirando sbigottita il patrio fiume
Disse piangendo. Ó mio benigno padre,
Toglimi tosto a le mani empie, e ladre.
Terra, che tutto produci, e consume,
Terra,
Questa, onde offesa son, bramata forma
Inghiotti, ò in altro corpo la trasforma.
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La cinge intorno una novella scorza,
Che dal capo à le piante si distende.
Crescon le braccia in rami,
Si spargon
Il piè veloce
E con radice immobil vi si caccia:
La sommità del novo arbore ameno
Tenne la grata sua leggiadra faccia.
Servò sol lo splendore almo, e sereno,
Che vuol,
Dubbioso il tocca, e trova con effetto,
Tremar
E
Il bacia, ma del bacio fugge il segno
Gli parla, e dice; Arbore eccelso, e degno
Dapoi, che sposa io
Tu sarai
Tu la chioma ornerai, tu la faretra.
Tu cingerai
A i sommi trionfanti Imperatori
In quel festivo, e glorioso giorno,
Che i merti mostrerà de i vincitori;
E
Le ricche pompe, e trionfali honori.
Le porte auguste ornerai di ghirlande
Havendo incontro
Le bionde giovinil mie lunghe chiome
Line 1 388 ⟶ 1 383:
Andran mai sempre alteramente ornate.
I sommi rami suoi fer cenno, come
De
Le sue larghe promesse più, che prima,
Chinando spesso la cortese cima.
Ha
Cinta intorno di selve alte, et ombrose,
Che è detta Tempe, dove in giro mena
Il Peneo
E di tal nebbia tien
E
Qui di spugnosi sassi è
E
Dove à dar leggi à
Et à le Ninfe,
Ogni fiume che à lui propinquo siede,
Venne à servar
Dubbij tra lor di quel,
O da dolersi seco, ò
Fra
Vi vien lo Sperchio, e
E
Et altri, et altri ne vennero altronde
Per far
E fer con dignitade, e con decoro
Quel, che
Inaco sol restò,
E mancò sol di quel, che far dovea:
Onde imputato da
Che
Di far sì degno ufficio lui ritenne
Una sua figlia che perduta havea,
Per cui ne
Forze acquistando col suo pianto à
Tien per trovarla ogni modo, ogni via,
E più, che
Ne può pensar,
Ne che dimori fra
Poi che luogo non trova dove stia,
In qual si voglia Occaso, et Oriente.
Line 1 441 ⟶ 1 436:
O ben degna di me, chi fia, che teco,
Vorrai bear nel tuo felice letto?
Deh vienni ò Ninfa fra
Che fian hoggi per noi dolce ricetto,
Mentre alto è
Non fesse à tal beltà noia, et oltraggio.
E se qualche animal nocivo, e strano
Temi, che non
Non temer, che quel Dio vero, e soprano,
Quel Dio, che con la sua sicura mano
Il tremendo dal Ciel folgore aventa,
Non fuggir Ninfa me, che son
Del Ciel signore, e folgorante Dio.
Fugge la bella Ninfa, e non ascolta:
Ma Giove, che
Fe nascer una nebbia oscura, e folta,
Che con la Ninfa il tenesse nascosto.
Line 1 462 ⟶ 1 457:
Non pensa di partirsi così tosto,
Ma seco quel piacer sì grato prende,
Che quel,
Gli occhi in tanto Giunon chinando à terra
Vide la spessa nebbia in quel contorno,
E che poco terren ricopre, e serra,
E
Vedendo, che ne i fiumi, ne la terra
Del marito ha timor,
E conosce i suoi furti, e la sua fede.
Line 1 478 ⟶ 1 473:
Non se le fe quel, che credea, palese.
Giove, che tal venuta havea scoperta,
Fe, che la donna
E fe la violata Ninfa bella
Una matura, e candida Vitella.
Line 1 489 ⟶ 1 484:
Che goderà così leggiadra fera.
Cerca saper qual sia, donde, e di cui,
E di che armento, e chi
Per troncar Giove ogni sospetto, e guerra,
Che la gelosa già nel suo cor sente:
Perche non ne cerchi altro, che la terra
Ella,
Cerca, che voglia à lei farne un presente.
Che farai, Giove? a che risolvi il core?
Quinci il dover ti sprona, e quindi amore.
Troppo è contra il suo fin,
Ma se nega à la sua sorella, e moglie,
Che sospetto darà, sì lieve cosa?
Amor vuol,
Ma non vuol già la sua moglie ritrosa,
Al fin per torle allhor quel gran sospetto,
Line 1 510 ⟶ 1 505:
Così la Dea ben curiosa ottiene
Quel don, che tanto travagliata
Ne però tolto quel timor le viene,
Che
Anzi tal gelosia nel cor ritiene,
Che novi inganni, et novi furti pave,
Onde diè il don, che sì
In guardia ad un, che havea
Argo havea nome il lucido pastore,
Line 1 524 ⟶ 1 519:
Gli altri spargendo il lor chiaro splendore
Tra lor divisi fean diverse scorte.
Altri havean
Altri intorno facean la sentinella.
Ovunque il bel pastor la faccia gira,
À la giuvenca sua per forza mira,
Perche egli scuopre anchor di dietro il giorno.
Ne gliè
Voltar per ben vederla il capo attorno,
Che se ben dietro à lui si parte, ò riede,
Dinanzi à gli occhi suoi sempre la vede.
Lascia, che pasca il dì
Che sparte son nel suo bel patrio regno.
Acque fangose, et herbe amare, e fronde,
Le sue vivande sono, e
Ma, come il Sol ne
Argo le getta al collo il laccio indegno,
E le sue piume son, dove la serra,
La non ben sempre strameggiata terra.
Tal volta
Per abbracciar il suo novo custode,
Ma col piede bovin da se lo scaccia,
Ne man può
Pregar il vuol, che
Ma come il suo muggire
Scorre di quà, di là tutto quel sito,
Fuggendo se medesmo e
Dove la guida il suo pastor, soggiorna,
Pascendo
À le paterne rive un dì ritorna
Dove giucar solea con le sorelle,
Ma come le sue nove altere corna
Mira ne
E mille volte vi si specchia, e fugge.
Line 1 567 ⟶ 1 562:
Sia la perduta lor cara sorella.
Et Inaco non sa, che sia la figlia.
Tutto quel,
Dando à tutti di se gran maraviglia.
Toccar si lascia, e fugge, e torna à prova,
Come fa il can, che
Mentre scherzando ella
Il mesto padre suo grato, et humano,
Svelle di propria man
À lei la porge, e mostra di lontano.
Ella
Dentro à se piange, e direbbe anche forte,
(Se potesse parlar)
Pur fa, che
Seguendo lei nel nudo lito scende,
Dove
Per far noto quel mal, che sì
Rompe col piede al lito la cotenna,
Per dritto, per traverso, e
E tanto, e tanto fa, che mostra scritto
Il suo caso infelice al padre afflitto.
Line 1 595 ⟶ 1 590:
Nascosta sotto à quel bovino manto,
À pena in piè per lo dolor si regge,
Raddopia il duol, la pena, il grido, e
Le nove corna à la sua figlia abbraccia,
Baciando spesso la cangiata faccia.
Ó dolce figlia mia, che in ogni parte
Da dove nasce il Sol fin à
Già ti cercai, ne mai potei trovarte,
E finalmente hor
Figlia onde il cor per gran duol mi si parte,
Mentre
O dolce figlia mia, deh chi
Il tuo leggiadro, e delicato volto?
Deh perche col parlar non mi rispondi,
Ma sol col tuo muggir ti duoli, e lagni?
E
E col muggito il mio pianto accompagni?
Tu sai dal mio parlar, che duol
Veggo io dal tuo muggir, come tu piagni.
Io parlo, e fo quel, che si dè fra noi,
Line 1 621 ⟶ 1 616:
Onde nepoti, e genero aspettava
Per la mia vecchia età dolce ristoro.
È questo dunque il ben,
Dunque ho da darti hor per marito un toro?
Dunque i vitelli al nostro ceppo ignoti
Line 1 627 ⟶ 1 622:
Potessi almen finir con la mia morte
Che à fin verrei di sì perversa sorte.
Veggo hor quanto mi noccia essere Dio.
Poi
Che posso altro per te, che dolermi io,
E mentre rotan le celesti tempre,
Line 1 641 ⟶ 1 636:
E per diversi pascoli, ove suole
Condurla spesso, la rimena, e scioglie.
Egli in cima
Che scopre la foresta intorno intorno.
Giove non vuol, come ben grato amante,
Onde al suo figlio, e nipote
Commette, che contra Argo ir
E, perche non sia più sì vigilante,
Vegga di tor la luce à tanti specchi.
Tosto ei la verga, e
A le mani, et à piedi, et à la testa.
Lasciata
Ne la parte più bassa se ne venne,
Dove giunto mutò sembiante, e veste,
Line 1 660 ⟶ 1 655:
Sol la potente sua verga ritenne,
E, dove è quel pastore, il camin prese,
Che
Come rozzo pastor gli erra da canto,
Che à le fresche herbe il suo gregge ristora,
E con le canne sue sì dolce canto
Rende, che
Hor
Di sì soavi accenti
E dice à lui, qui meco venir puoi,
Il cauto Dio fa tutto quel, che vuole
E col suon dolce, e le saggie parole
Cerca addolcirgli il senso, e
E forza è, che stian chiusi à lor dispetto;
Ma molti ei ne tien desti, e gli ritarda,
Line 1 683 ⟶ 1 678:
E non dà noia al discorso il sognare,
Col pensier desto di sapere agogna,
E
Come fu ritrovata la sampogna,
Che sì soavemente ei sa sonare.
Line 1 689 ⟶ 1 684:
Facendo pausa al suo cantar col suono.
Ne i gelati
Fra
Una, che Naiade era, che in quei fonti,
Che surgon quivi, fe sua vita e nacque.
Satiri e Fauni, e Dei più vaghi, e conti,
Sempre scherniti havea; tanto le spiacque
Il commercio
Per havere à Diana il suo cor volto.
Siringa nome havea la Ninfa bella,
Che studiò
Con la virginità, con la gonnella,
Con ogni cosa,
Non si riconoscea questa da quella,
Nel
Questa
Mentre ella un dì dal bel Liceo ritorna
Casta nel cor, nel volto allegra, e vana,
La vede un Dio,
Co i piè di capra, e con sembianza humana:
Ne sa, che
Le dice, ò Ninfa, à i dolci voti attendi,
E quel Dio, che ti vuol, marito prendi.
Line 1 722 ⟶ 1 717:
E come corso havrian tutto quel giorno,
Se non, che un fiume à lor venne ad opporse,
Che
A la gelata Ninfa, al caldo Dio.
Là dove giunta pregò le sorelle,
Che volesser salvarla in alcun modo,
E
Al terren paduloso, e poco sodo,
Che tutte
Che gran foglie si fer le vesti tosto,
E tutto
E che correndo Pane in abbandono
Pensò tenerla, e sfogar la sua voglia,
E che prese una canna, donde un tuono
Flebile uscia, come
Che mentre ella spirò, rendè quel suono
Il vento mosso in quella cava spoglia,
Line 1 759 ⟶ 1 754:
E dove il capo al collo si congiunge,
Fere, e tronca la spada empia, e superba,
E macchia del suo sangue i fiori, e
Argo tu giaci, e
In tanti lumi, un sol colpo ti fura.
Tanti occhi, onde vegghiar sempre solevi,
Perpetuo sonno hor
E
Una infelice, e trista notte oscura.
Solo una man con tuo gran danno, e scorno
Ma la gelosa Dea, che gli occhi à terra
Chinava spesso al suo fido pastore,
Quando il vide giacer disteso in terra,
E
E
I quai soleano assicurarle il core,
Dal morto capo quei
E fa le penne al suo pavon più belle.
Empie di gioie la superba coda
Del suo pavone, e gli occhi, che distacca
Dal capo tronco, ivi
E con
Tutta arrabbiata poi la lingua snoda;
Dunque, disse,
Sempre
E non mi debbo risentir già mai?
Non pon già tempo in mezzo à la vendetta,
Ma fa venire una furia infernale
Contra la figlia
Dentro à la scorza
Là dove giunta il corpo, e
Di quella afflitta, e giunge male à male:
E tal
Che tutto
La spiritata bestia scorre, e passa
Dove il rabbioso suo furor la mena:
E
E
Gli huomini, e gli animali urta, e fracassa,
Che à tempo à lei non san voltar la schena.
Line 1 806 ⟶ 1 801:
A veder la sua rabbia. e la sua guerra.
Là dove giunta prostrata su
Sol col volto, e con gli occhi al ciel
E con un sospirar, con un muggito,
Che veramente parea, che piangesse,
Parea, che con Giunone, e col marito,
E che chiedesse il fin come innocente
Del suo doppio martir, che prova, e sente.
Line 1 818 ⟶ 1 813:
Per ammorzare ogni rancore, e sdegno,
Che rode à la gelosa moglie il petto,
Per
Che mai più non havrà di lei sospetto,
E tenga il giuramento Stigio in pegno:
Line 1 828 ⟶ 1 823:
Si fan due bionde treccie ambe le corna,
Ogni altro pel da lei toglie commiato.
Il volto è più che mai giocondo, e grato.
E tornata che fu
I piè dinanzi suoi si fer due braccia.
La man già si disnoda, e già
E torna più, che mai sciolta, e spedita.
Tosto si leva, e in alto si distende,
E ferma sù due piè tutta la vita.
Mutata tutta in un punto si vede:
E quanto più le par,
Volea parlar per veder
Apre la bocca al dir, poi la suggella
Per non udir quel, che fuggia
Tutta dubbiosa sotto voce a dire.
E poi, che
Il Ciel ringratiò del buon successo.
À cui dapoi più
E venerata fu fra gli altri Dei.
Onde si tien, che di Giove nascesse
E Pafo, un bel figliuol,
Et in segno di ciò, par,
Nel mondo tempij assai giunti à costei,
Un figliuol di colui, che tempra il tempo.
Fer sì la nobiltà, gli anni, e
Ciascun per la celeste discendenza.
E stavan sì ne i punti de
Che ne fu gran querela, e differenza.
Perche Fetonte il bel figliuol del Sole
Line 1 871 ⟶ 1 866:
Qual più chiara progenie può trovarsi
Di quella, che dal Sol chiaro discende?
E se
Tanto illustre più fia, quanto più splende:
Non so chi possa al mio padre aguagliarsi,
Che vien da Giove; e sì gran lume rende,
Che
Faria steril la terra, oscuro il cielo.
Non potè più patir
Figliuol di Giove, e
E disse à lui tutto alterato, e fiero
Con queste acerbe, et orgogliose note.
Line 1 888 ⟶ 1 883:
Io ben con gran ragion posso vantarmi
E di questo fan fede i tempij, e i marmi,
Che à la mia madre son sacri per tutto.
Ma tu per qual segnal puoi dimostrarmi,
Che tanto illustre Dio
E quando anchor di ciò dessi alcun segno,
Ti terrei forse ugual, ma non più degno.
Line 1 898 ⟶ 1 893:
Tu mostri ben poco sano discorso,
Poi che ogni cosa à la tua madre credi:
Pon per
Fin che maggior chiarezza non ne vedi.
Fetonte allhor così sbattuto, e morso
Line 1 906 ⟶ 1 901:
Tosto la madre sua trova Fetonte
Spinto da quel pensier,
E prima, che
Più volte fra se stesso il volve, e rmua:
Madre mia, disse poi, non ho più fronte
Farmi figliuol di quel, che
Poi che non posso indubitata fede
Farne à ciascun, che
E quì le raccontò tutto
E che per non poter del suo lignaggio
Dar segno alcun, non havea mai risposto.
E
Saria sempre à tal biasimo sottoposto;
E saria sempre astretto di star cheto,
Line 1 924 ⟶ 1 919:
Hor se gliè ver, che di stirpe celeste
Dal gran pianeta, che distingue
Io tragga questa mia corporea veste,
A cui
Se felice Himeneo le nozze appreste
De le sorelle tue con ogni honore,
Dammi quei segni, che figliuol mi fanno
Di chi col suo camin pon meta à
Non sò chi ne la donna habbia più forza,
O
Che
Quel, che
O figliuol, disse, ogni sospetto ammorza,
Che sopra ciò
Il gran rettor de la superna luce.
Line 1 947 ⟶ 1 942:
À quel splendor, che le tenebre scaccia
Per tutto, ove apparisce intorno intorno,
À quel,
Estate, Autunno, Verno, e Primavera.
Ti cinse
Quel,
Quel Dio, che sempre muore, e sempre nasce,
Quel, che surgendo à noi, tramonta altrui,
Line 1 957 ⟶ 1 952:
Contra il suo fin da chi può più di lui.
E se di quel bel Sol figliuol non sei,
Ma, perche meglio in questo ti contenti,
È ben, che da lui proprio te ne vadi,
E che
Di quel segnal, che par, che sì
Pur, che
Che si scosta da noi novanta gradi.
Fetonte à ciò
E stima poco un sì lungo viaggio.
Ver
E va sì ratto, che par,
E le restin da scender manco scale.
Vide ambi i Poli star ne
E quindi andò contra la Zona ardente
A la corte del padre in Oriente.
</poem>
[[en:Metamorphoses/Book I]]
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