I suicidi di Parigi/Episodio secondo/VI: differenze tra le versioni

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Il conte Alessandro aveva ricevuto un colpo di spada che gli aveva traversato le costole ed il lobo inferiore del polmone destro, poi aveva lambito il diafragma ed eragli uscito nel dorso. La ferita era due volte mortale.
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Il suo cocchiere russo ed il suo cameriere francese, che erano sulla briska, lo avevano trasportato al castello, credendolo morto, e si era mandato in cerca di un chirurgo, piuttosto per constatare il decesso, che per medicar la ferita.
 
In una cittaduzza - a qualche versta dal castello di Lavandall - dimorava il dottore Taddeo Varnetrahler. Questo Tedesco, che aveva sposato una Russa, scienziato profondo, aveva fatto le campagne del 1813, 1814 e 1815 con gli eserciti sassoni e prussiani. Egli era accorso. Aveva fasciato il ferito. Aveva udito attentamente le poche parole cui il conte gli aveva diretto, a voce morente, ed aveva dichiarato che il caso era mortale. In seguito di che, aveva allontanati dalla camera tutt'itutt’i domestici del castello, ed erasi installato al capezzale del moribondo, assistito solo dal cameriere francese.
 
Tre giorni dopo, si era convenevolmente seppellita nella cappella del castello una cassa lunga, ornata di velluto, ripiena di vecchi scartafacci - che erano passati pel cadavere del conte Alessandro.
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Quanto a costui, la notte precedente era stato trasportato, sur una barella, al castello del conte Alessio di Rumanzowski, a quattro verste dal castello di Lavandall.
 
Il giovane amico e sua moglie - una bella polacca - aiutati dal dottore, avean celato e salvato il conte Alessandro, cui tutta la Russia credeva morto. Egli era deciso a ricominciare, se guariva. Non voleva però attirar sul fratello l'imputazionel’imputazione terribile di questo accanimento ad ucciderlo.
 
Tutto gli era riescito a voglia.
 
Ed ora, eccolo ad aspettare all'Hôtelall’Hôtel du Rhin l'ultimol’ultimo motto del suo destino.
 
Era pronto ancora una volta a lasciarsi uccidere...
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Ella si era recata la mattina nell'appartamentonell’appartamento di suo marito per dirgli questa parola magica:
 
- Io t'amot’amo!
 
Il conte Alessandro si collocava di nuovo tra il principe e lei come un abisso.
 
Ritornata in camera, dopo la scena cui abbiamo raccontata alla fine del capitolo precedente, ella aveva dato ordine per la sua carrozza, e, d'und’un tratto, era venuta a Parigi.
 
Il conte Alessandro, steso per un divano, leggeva il Débats, aspettando Ivan, il principe stesso, i testimoni di lui, perfino il diavolo, anzi che la principessa.
 
E'E’ non poteva credere agli occhi suoi vedendo in piedi innanzi a lui quella grande e pallida figura - tanto cangiata in sei mesi! Vestita tutta di nero, quasi portasse il lutto alla sua bellezza, alla sua giovinezza, alla sua felicità! E'E’ corse pertanto verso di lei, che era restata sulla soglia, e cadendo a ginocchio le baciò i lembi della veste, coma ad una madonna.
 
- Conte - disse Maud alla fine - voi siete il cattivo genio della vostra casa. Dio vi perdoni! Perchè rivenite?
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- Avreste voi desiderato, madama, che io fossi restato nel sepolcro?
 
- Conte, voi sapete che io, men ch'altrich’altri, non posso avere un tal desiderio. Voi siete stato il mio solo amico, in quella casa ove vostro fratello mi aveva introdotta ed ove e'e’ mi trattava come straniera.
 
- Ebbene, madama - riprese il conte - io sorgo dalla tomba per venire a proclamare innanzi a Dio, ed innanzi a mio fratello, che vi amo... E poi morire, se posso.
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Il conte Alessandro vacillò; poi soggiunse con calma:
 
- Io non invidio a mio fratello questa bontà di Dio. E'E’ non n'àn’à altra!
 
- Oh! sì, egli è ben sventurato... sclamò Maud... E l'èl’è colpa mia. Io non ò osato. Io non ò saputo vincere il terrore, la repugnanza, che la sua malattia mi cagiona. Io l'òl’ò amato, pertanto, dal primo giorno. La nobiltà del suo carattere, la sua delicatezza, la sua modestia, mi toccarono... Poi, quella sera fatale arrivò. Io ne abbrividisco ancora... Era la notte, in una sala rischiarata unicamente dalla luna. Io sentii le sue braccia avvinghiarsi alla mia vita, stringermi, comprimermi, ribadirsi sulla mia carne e sulle mie ossa come due serpenti... La mia respirazione soffocavasi. I miei occhi schiattavano dalle mie orbite... La voce mi mancava per gridare... Le mie costole scricchiolavano... Un secondo ancora, e la mia spina dorsale era spezzata in due... Egli dovette vedere il mio spavento. E'E’ dovè sentire il male orribile che mi facea. E'E’ dovette accorgersi che andava ad uccidermi nel suo abbracciamento di morte, perchè fece uno sforzo terribile per snodare le sue braccia e rigettarmi lontano, mentre egli cadeva sul tappeto... Io lo vidi allora torcersi nella sua orrida convulsione: io compresi...
 
- Sventurati!
 
- E dopo, ogni qualvolta l'òl’ò visto avvicinarsi a me, lo stesso terrore mi à presa. Ei se n'èn’è avvisto. À rispettato il mio spavento, e si è ingannato sulla natura della mia repulsione. Noi siamo restati stranieri. Ma la mia anima gli era unita; tutta la mia vita è un pensiero di lui. Il corpo lo fugge; il cuore lo appella. Ma io sono codarda.
 
- Perchè, madama, mi fate voi queste confessioni, cui non vi domando?
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- Perchè, conte, voi vi siete ingannato quando avete portato su me degli sguardi che mi offendevano. Forse, io fui imprudente. Io mi lamentai, io mostrai, più che vero non era, allontanamento per lo sventurato che si disperava nelle spire della gelosia... Ve ne domando perdono. Io aveva bisogno di sfogo; e nella solitudine, io credeva poter cercare il cuore di un fratello per riposarmi.
 
- Vi ò io indirizzato mai una parola che abbia smentito il fratello a cui voi v'indirizzastev’indirizzaste, Maud?
 
- No.
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- Ebbene, quando si risuscita da una tomba e che si viene per farsi uccidere, si à il dritto di proclamare il Dio cui si adora, la ragione del martirio.
 
- Ma io vi replico ch'ioch’io l'amol’amo - gridò la principessa sporgendo le mani da supplicante. Come sia ciò avvenuto, nol so. La prima impressione è riapparsa. La paura, il disgusto, che solo mi allontanavano da lui, sono stati vinti dalla pietà di una sì grande sventura. Quando ò visto quest'uomoquest’uomo a non chiedermi giammai nulla; non volgermi alcun rimprovero; comprendere la lotta che si compieva in me; rispettare la mia debolezza; non varcar mai la soglia di una porta lasciata sempre aperta; adorarmi in silenzio; soffrire la tortura dei desiderii senza dolersene; rassegnarsi, attendere, circondarmi della sua protezione - cui voi avete dovuto trovare terribile - deperire, ma non uccidermi, credendomi colpevole, come vi aveva ucciso... quando l'òl’ò visto supplicarmi, delirar di passione, attirar sulla sua testa il fulmine del suo male a forza di amarmi, sopraffatto dall'emozionedall’emozione, cui la mia vista cagionavagli sempre... ebbene, fratello, io che l'amavol’amavo di già nella profondità del mio cuore; io che non osavo, per timidezza, per rispetto, per sciocchezza, forse, rivelarmi a lui, far eco alla sua passione... io ne sono folle adesso fino all'impudenzaall’impudenza. Io non soggiungo più nulla... o piuttosto, io non soggiungo che un motto: Partite, vivete, siate felice! La nostra ora, a noi, è certa. Possiate sovvenirvi di noi senza rimorso e senza rancore.
 
- Io amava una donna; io adoro un angelo! - sclamò il conte accasciandosi sur una seggiola o nascondendo il capo nelle mani, per piangere.
 
La principessa lo contemplò, avendo anch'ellaanch’ella gli occhi ottenebrati dalle lagrime. Poi senza rispondere, si ritirò indietreggiando, sollevò la portiera e scomparve.
 
Discese le scale precipitosamente ed andò a cascare nella sua carrozza, dicendo ai lacchè:
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- Al palazzo, e presto!
 
Ella non rimarcò ch'unch’un altro coupè, egualmente alle armi ed alla livrea di Lavandall, aspettava alla porta, e che due occhi di fuoco spiavano dietro i cristalli.
 
 
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Quando la principessa fu partita, Ivan si avvicinò allo sportello e dimandò gli ordini del principe.
 
Il principe era venuto all'Hôtelall’Hôtel du Rhin per parlare a suo fratello. Avendo scorto alla porta la carrozza di sua moglie, erasi fermato ed aveva aspettato. Ma, aspettando, aveva cangiato avviso. E'E’ non volle più discendere, non volle veder più suo fratello. E'E’ disse dunque ad Ivan:
 
- Dal dottore di Nubo.
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- Domani, io mi batto in duello. Passerò a prendervi alle 7. Voi sarete il mio secondo ed il mio medico.
 
- Con chi vi battete voi, principe? - dimandò il dottore, un po'po’ imbarazzato.
 
- Con mio fratello - rispose il principe. Voi volevate conoscere il veleno segreto che rodeva la mia vita, eccolo: Mio fratello ama mia moglie - che non è stata giammai mia moglie - e che l'amal’ama pure. Io credeva averlo ucciso in Russia. Egli risuscita per venirmi a dire "Io amo Maud. Bisogna ricominciare." Capite, adesso? Noi ricomincieremo. A domani.
 
- Ma, principe - balbettò il dottore - non vi sarebbe dunque modo...
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Il principe di Lavandall partì, ripassò per la piazza Vendôme e mandò Ivan a lasciare la lettera alla porta del conte Alessandro, poi rientrò al palazzo tardi.
 
Maud era a letto. L'emozioniL’emozioni della giornata l'avevanol’avevano di molto stancata.
 
Sarah e Tom andarono per nuove. Ivan, al solito, si tacque. Il cocchiere del principe raccontò l'itinerariol’itinerario e dettagliò le stazioni.
 
Un lampo traversò lo spirito di Maud, udendo che suo marito l'aveval’aveva attesa alla porta dell'Hôteldell’Hôtel du Rhin; ch'erach’era poi ito dal dottore; e che Ivan aveva portato una lettera al conte Alessandro. Ella fu lì lì per alzarsi e recarsi da suo marito. La timidezza, la paura, il rispetto di sè, la modestia la ritennero.
 
Sempre la stessa!
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L'indomaniL’indomani, alle 6, il principe ed Ivan erano partiti dal palazzo e galoppavano sulla strada di Parigi.
 
Alle 7, erano alla porta del dottore di Nubo.
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Un uomo vestito di nero uscì allora dal coupé del conte Alessandro e venne ad Ivan, il quale era disceso subito dalla predella del cocchiere.
 
L'uomoL’uomo a nero mostrò una lettera, ed insieme si presentarono al principe per rimettergliela.
 
Il principe era profondamente assorto e tristissimo.
 
Cadeva una acqueruggiola fina, penetrante, fredda, che rendeva il tempo scuro, il cielo insipido. Gli alberi avevan perduto il loro manto e mostravano le loro ossa nere, che tremolavano sotto la fredda brezza. Il luogo era solitario. Tutto ciò stingeva sul carattere di già sì malinconico del principe di Lavandall, e l'affettaval’affettava.
 
E'E’ prese la lettera senza guardarla, meccanicamente. Il suo spirito vagava altrove.
 
L'impressioneL’impressione del freddo, che gli occasionava lo sportello aperto del coupè, lo richiamò alla realtà. Egli avvicinò allora la lettera ai suoi occhi e fece un movimento di sorpresa.
 
- Chiudi dunque codesto sportello, - gridò egli ad Ivan, tirandolo nel tempo stesso a sè con violenza.
 
Poi, e'e’ si volse al dottore e soggiunse:
 
- Cosa è codesto? Egli scrive adesso? E'E’ non è dunque qui.
 
- È il conte Alessandro che scrive? - dimandò il dottore.
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"Tu sai che io non mi spavento alla vista di una spada..."
 
- Se lo so! - gridò il principe. Crede egli dunque che io non compresi ch'e'ch’e’ poteva uccidermi l'altral’altra volta, e ch'e'ch’e’ fece a posta un movimento per precipitarsi sulla mia spada? La paura non è di casa nostra.
 
"Ma oggi, io non sono ancor pronto. Delle visioni, dell'emozionidell’emozioni, il sovvenire di nostro padre, le memorie della nostra infanzia sì tenera... Te ne ricordi tu, Pietro? I nostri bei giorni di està, a correre nella foresta... le lunghe nostre notti d'invernod’inverno, passate sulle ginocchia del nostro nobile padre, che ci raccontava le battaglie di Napoleone, l'incendiol’incendio di Kremlin, la campagna di Russia, Waterloo, e mille aneddoti degli tzar Paolo ed Alessandro?... Ebbene, no, oggi è impossibile. Tutto ciò mi assedia nella mia camera. Io non posso uscire..."
 
Il principe leggeva di una voce soffocata dalle lagrime; i singhiozzi lo strangolavano. Non pertanto, continuò:
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Sarah fermò il dottore al varco, nell'anticameranell’anticamera, e lo chiamò per visitare la sua padrona, la quale, dal mattino passava da sincope in sincope.
 
Il principe andò a gittarsi sur un canapè nel suo gabinetto, annientato dalle emozioni.
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Ella sentì il dottore entrare nella sua camera, e, levandosi di uno slancio su i suoi origlieri, gridò:
 
- Ebbene! egli l'àl’à ucciso?
 
- Non vi è alcuno di morto, madama. Rassicuratevi - disse il dottore con un sorriso grazioso. Ed ò la persuasione che non vi sarà più alcuno in questa incomoda situazione.
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Il conte di Nubo ordinò dei calmanti, dette speranze, disse qualche motto gaio, ed entrò nel gabinetto del principe.
 
Questi aveva svolta la lettera di suo fratello, l'aveval’aveva riletta, e l'aveval’aveva spiegata larga larga innanzi a lui.
 
Scorgendo il dottore, levossi e dimandò vivamente:
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- Ebbene?
 
- L'èL’è seria - rispose il dottore. I fenomeni si complicano. Al deperimento si aggiungono ora le sincopi. Ma io la guarirò.
 
Il principe gl'inchiodògl’inchiodò addosso i suoi sguardi carichi di odio, lo afferrò pei polsi e susurrò di una voce sorda:
 
- La deve morire... Io non voglio uccidere mio fratello... no, non lo voglio!
 
Il dottore conte di Nubo salutò profondamente, e senza replicar verbo uscì.
 
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