Eneide (Caro)/Libro undecimo: differenze tra le versioni
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<poem>
Passò la notte intanto, e già dal mare
sorgea
a seppellire i suoi, quantunque offeso
da tante morti il cor funesto avesse;{{R|5}}
tosto che
de la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca
de
a te, gran Marte, dedicolla. In cima
ancor di polve e
stavan quai secchi rami; e
sostenea la corazza che smagliata
e da dodici colpi era trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
al
che
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,
che liete gli gridâr vittoria intorno,
in cotal guisa a confortar si diede:
«Compagni, il piú
nulla temete. Ecco Mezenzio è morto{{R|25}}
per le mie mani, e queste che vedete,
del superbo tiranno. Ora a le mura
ce
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
ché quando dagli augúri ne
di muover campo, e che mestier ne sia
non
non ci ritardi. In questo mezzo
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
è sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e
che
questa patria acquistata e questo impero,
al mesto Evandro il figlio si rimandi,
che, di virtú maturo e
cosí
Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la magione,
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno. Avea con lui
una gran turba. Scapigliate e meste
le donne
gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon
il suo corpo disteso, e
e
di man di Turno avea larga e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val
mi si mostra fortuna? E che
se te
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non
al buon Evandro,
di questo impero. E ben temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e
il meschino or fa vóti e preci e doni{{R|75}}
per la nostra salute, e vanamente
vittoria
pompa gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú tenuto
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè!
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al sussidio
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,{{R|90}}
ordine diè che
via si togliesse; e del suo campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse e pompa intorno,
e
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
fatto un ferètro di virgulti intesto
e di frondi coperto, ove altamente
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Enea due prezïose vesti intanto,
addur si fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con dolce studio e con mirabil arte{{R|115}}
ricamate e distinte. E
gli pose, e
con che dolente la dorata chioma
allor velogli,
De le prede oltre a ciò di Laürento{{R|120}}
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar
tolte
con le man dietro i destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.{{R|125}}
Portar gli fa davanti
degli occisi e
che, sí
gli era appresso condotto, or con le pugna{{R|130}}
si battea
si lacerava, e tra la polve e
si volgea tutto. Ivano i carri aspersi
del sangue
e
suo caval da battaglia, che gemendo
in guisa umana e lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
e gli Arcadi, con
rivolte a terra. Or poi
con
Enea fermossi, e verso il morto amico
ad alta voce sospirando disse:
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vattene in pace, e con eterna gloria
godi eterno riposo». Indi partendo
vèr
Eran nel campo già
di pacifera oliva ambasciatori
de la città latina a lui venuti,
che tregua
pregando, gli mostrâr che piú
né
gli era
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che di grazia eran degni, incontinente
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cosí lor disse: «E qual indegna sorte
contra me, miei Latini, in tanta guerra
cosí
son qui venuto: né venuto ancora
vi sarei, se
mandato io non vi fossi. E non pur pace,
siccome voi chiedete, io vi concedo
per color che son morti, ma
ve
non è con voi; ma
da
piú ne
meglio e piú giustamente in ciò farebbe,
ponesse fine. E poiché si dispose{{R|175}}
di cacciarmi
fôra stato che meco, e con
difinita
cui la sua propria destra, e dio concesso
piú vita avesse; e i vostri cittadini{{R|180}}
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io me ne dolgo, e voi gli seppellite».
Restaro al dir
i latini oratori, e
si guardarono in volto. Indi il piú vecchio,{{R|185}}
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
per sua natura e per sua colpa in ira,
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
«O di fama e piú
troiano eroe, qual mai fia nostra lode{{R|190}}
che
ti loderemo?
in te maggior si mostri, o la giustizia,
o la gloria de
grazia che tu ne fai, grati saremo:{{R|195}}
rapporto ne faremo; e
nostro è fortuna amica, amico ancora
ti fia Latino. E cerchisi
Turno altra lega. A noi
gioverà di trovarne a fondar vosco{{R|200}}
questa vostra fatal novella Troia».
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tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dí commercio e pace
fur tra
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor diletto andaro.
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che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
che morto si riporta. In ciò commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea di lumi{{R|220}}
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e i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne venian da
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti{{R|225}}
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e
risonar
Né forza, né consiglio, né decoro
fu
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò,
lunga fïata, e da
pria lagrimando, e sospirando, tacque.{{R|235}}
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
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fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
ben
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la gloria e de
Primizie infauste, infausti fondamenti{{R|245}}
de la tua gioventú! vane preghiere,
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che vecchio e padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah!
uscito
me cosí riportato, e non Pallante.
Né per questo di voi, né de la lega,
né de
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza{{R|260}}
questa sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perché tanta strage
io vedessi
fosse
che sia caduto. E piú compíto onore{{R|265}}
non aresti da me, Pallante mio,
di questo che
e i suoi magni Troiani e i toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e
tra questi il tuo gran tronco,
Turno, stato
e par de la persona e de le forze{{R|275}}
che ne dan gli anni. Ma che piú trattengo
riferite ad Enea che, quel
dopo Pallante, è sol perché
sua destra, come vede, al figlio mio{{R|280}}
ed a me deve Turno. E questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e
no
sperare io piú che di portare io stesso{{R|285}}
questa novella di Pallante a
Avea
il giorno e
ricondotte
e
i cadaveri addotti,
la compose e
di fumo e di caligine coverto
tenea
tre volte, armati, a piè la circondaro,
e tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando, piangendo, e
di lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrâr de le genti e de le tube{{R|300}}
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le pire intorno, elmi, corazze e dardi
e ben guernite spade e freni e ruote
avventaron nel foco, e
armi
altri i lor propri doni, e degli occisi
medesmi vi gittâr
e
molti gran buoi, molti setosi porci,{{R|310}}
molte fûr pecorelle occise ed arse.
A sí mesto spettacolo in sul lito
stavan altri piangendo, altri osservando
ciascuno i suoi piú cari, infin che
gli consumasse. E questi
le ceneri accogliendo, il giorno tutto
in sí pietoso officio trapassaro:
né se ne tolser finché, spenti i fochi,
non
i miseri Latini ai corpi loro{{R|320}}
fêr cataste infinite. Altri sotterra
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lucean per tutto. E tre luci e tre notti
durâr gli afflitti amici e i dolorosi
parenti a ricercar le
e ne
Ma la confusïone e
era ne la città per la piú parte,
e ne la reggia al re Latino avanti.
Qui le madri, le nuore, le sorelle{{R|335}}
e i miseri pupilli, che
erano in questa guerra orbi rimasi,
la guerra abbominavano e le nozze
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -{{R|340}}
dicendo, - ei che
e le grandezze e i primi onori agogna,
con
e non col nostro». In ciò Drance aggravando
vie piú le cose, come a Turno infesto,{{R|345}}
Line 364 ⟶ 359:
volea briga il Troiano, e che sol esso
era a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri
dicean per Turno: e
e
con la fama
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
che cosí si tumultua e si travaglia,
mesti sopravvenir
e riportar, che le fatiche e i passi
avean perduti: che né dono alcuno,
né promesse, né preci, né ragioni
furon bastanti ad impetrar soccorso{{R|360}}
né da lui né
di mestiero
o trattar
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne fece il re Latino. E ben conobbe{{R|365}}
che manifestamente Enea
era portato; e via piú manifesta
si vedea degli dèi
in tanta che
strage recente. Il gran consiglio adunque,{{R|370}}
e
chiamar si fece. In un momento piene
ne fûr le strade; e di già tutti accolti
ne la gran sala, il re, di grado e
il primo, a tutti in mezzo, in non sereno{{R|375}}
sembiante, comandò che primamente
i legati che
fossero uditi; ed a lor vòlto disse:
«Esponete per ordine il seguíto
de la vostra ambasciata, e la risposta{{R|380}}
che ritratta
tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,
cosí pria incominciò: «Noi dopo molti
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egregi cittadini, al campo argivo{{R|385}}
ne la Puglia arrivammo; e Dïomede
vedemmo alfine; e
toccammo,
In Iapigia il trovammo a le radici
del gran monte Gargàno, ove fondava,{{R|390}}
Line 410 ⟶ 405:
che dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
gli esponemmo la patria, il nome e
de la nostra imbasciata, e la cagione,{{R|395}}
onde a lui venivamo. Il tutto udito,
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Qual consiglio, qual forza vi costringe
di nemicarvi e guerreggiar con gente
che non
col ferro a vïolar di Troia i campi{{R|405}}
(non parlo degli strazi e de le stragi
di quei che vi rimasero, ché pieni
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
siam poi giti del mondo tapinando,{{R|410}}
con nefandi supplíci, e con atroci
morti pagando il fio, come
e scellerato eccesso. E non
Prïamo stesso a pietà mosso avrebbe
il fiero, che di noi
Di Palla il sa la sfortunata stella;
sallo il vendicator Cafàreo monte
Line 438 ⟶ 433:
le longinque colonne, insino a dove,
dopo quella milizia, andò ramingo{{R|420}}
ne vide Ulisse. Il suo regno
ne lasciò Pirro. Idomeneo cacciato
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
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del letto e de la vita anco privato
fu da la scellerata sua consorte.
Né gli giovò che doma
scherno e preda rimase. A me
ha degli dèi di piú veder disdetto
la mia bella città di Calidóna,
Line 455 ⟶ 450:
mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi i miei compagni (o miseranda
lor pena!) van per
di lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi sono i profitti e le speranze{{R|440}}
stringer contro
e che di Citerea la destra offesi.
Or
testé con voi? No, no,
dopo Troia espugnata, altra cagione
non ho di guerra; e
volentier mi dimentico, e dolore
ancor ne sento. E, quanto
riportateli vosco, e
ne presentate. E solo a me credete
del valor suo, che fui con esso a fronte
con
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se due tali altri avea la terra idèa,{{R|455}}
ai danni de la Grecia; e
fu la cagion che tanto
la ruina di Troia, e che diece anni{{R|460}}
durammo a conquistarla. Ambedue questi
eran di cor, di forze e
ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che, comunque sia,
lega seco, amicizia e pace aggiate,{{R|465}}
e
Questa è la sua risposta; e quinci avete,
ottimo re, qual sia di questa guerra
il suo parere e
furo i legati, che bisbiglio e fremito{{R|470}}
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
che di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora allor che fra gli opposti sassi
e frange e rugghia, e le vicine ripe{{R|475}}
ne risuonan
restò
gli dèi prima invocando,
il re da
«Latini miei, lo mio parere e
sarebbe stato, che
si fosse prima consultato, e fermo
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando il nimico in su le porte avemo.
Una importuna e perigliosa guerra{{R|485}}
tolta una gente, che dal ciel discesa,
feroce, insuperabile, indefessa,
ne
cessa dal ferro. Se speranza alcuna
negli esterni soccorsi e ne
aveste degli Etòli, ora del tutto
la deponete: e sia speme a se stesso
Line 517 ⟶ 512:
agli occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete la strettezza e la ruina
in che noi siamo. Né però ne
alcun di voi. Tutto
che mostrar si potea: con tutto
e con quanto ha di forza il nostro regno
sia la mia mente, udite. È nel mio stato
vicino al Tebro un territorio antico,{{R|505}}
che in vèr
fin dove
Dagli Rutuli è cólto e dagli Aurunci,
che i duri colli e i piú deserti paschi
ne tengon da
quella piaggia di pini e quella costa
de la montagna; e tutto è mio disegno
che si ceda
accordo e patti e lega e leggi eguali
abbiam con essi; e qui,
sono o
ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura
fondino a lor diletto. E
cercano e
tôrsi da noi) quando di venti navi,{{R|520}}
o di piú sovvenir ne gli bisogni,
su la stessa marina apparecchiata
è la materia. Essi
e
la maestranza, i ferramenti e tutto{{R|525}}
che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei
de la nostra città cento oratori
di contrattarla,
del nostro regno. Consultate or voi,
ed a
Surse allor Drance, quei che già
avversario di Turno. Era costui
del regno
e
di fazïon, di sèguito e di lingua
possente assai; ne le consulte avuto{{R|540}}
di qualche stima; nel mestier de
codardo, anzi che no. La sua chiarezza
e
era noto a le genti. Or questo, infesto{{R|545}}
a la gloria di Turno, asperso il core
il suo fatto aggravando, e
irritando, parlò: «Chiaro, evidente
e necessario, ottimo re,
quel che tu ne consigli, che bisogno
Ognun vede, ognun sa quel che conviene
in sí dura fortuna: e nullo ardisce
pur
di parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta sua tracotanza e tanto orgoglio
chi
benché
tanta gente è perita, e tutta in pianto
questa cittade e questo regno è vòlto;
mentre ne la sua furia, o ne la fuga
confidando piuttosto, il troian campo{{R|565}}
ha
posto ha con
Solo un dono, signor, fra tanti doni
che si mandano
né consentir che vïolenza altrui{{R|570}}
tel proibisca.
questa tua figlia a genero sí degno
e con sí degno maritaggio eterna
fa questa pace. E se
che
grazia e licenza che la patria sua,
che
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu di tanta ruina autore e capo,
Line 605 ⟶ 600:
piú salute e speranza? A te noi tutti
pace, Turno, chiedemo, e de la pace{{R|585}}
quel
ed io prima di tutti, io cui tu fingi
che nimico ti sia (né tal mi curo
che tu mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente. Abbi pietà
pon giú la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene. Assai di strage, assai di morti
vedovi i tetti e desolati i campi;
ma se
di te tanto in te stesso, e tanto agogni
o la donna o la dote, a che non osi
Line 620 ⟶ 615:
regno col nostro sangue e regia moglie
procureremo: e noi vili alme, e turba{{R|600}}
non sepolta e non pianta,
giaceremo in
se tanto hai
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
a lui ti volgi, che ti sfida e chiama».{{R|605}}
Turno,
era da sé, questo parlare udito,
alto un gemito trasse, e
cosí proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance, allor che di mani è piú bisogno,{{R|610}}
oprar la lingua; essere in corte il primo,
in questo loco, ché già pieno troppo
ne
son lunge, e buone fosse e buone mura
ci son di mezzo, e non
Apri qui bocca al solito, e rintuona
con la facondia tua. Tu, che
me, che son Turno, imbelle e vile appella;{{R|620}}
tu la cui dianzi sanguinosa destra
pieni i campi di morti, e pieni i colli
ha di trofei. Ma che non pruovi ancora
questa tua gran virtú? Forse,
a cercar
ci sono, e
Che badi?
sempre è nel vento, sempre è ne la fuga
de la lingua e
di dirlo osasti? e chi meritamente
sarà che
fatto gonfio da me del frigio sangue?
non
spento
cacciato, né da Bizia, né da mille
che in un dí vincitore a morte io diedi,
Line 663 ⟶ 658:
piú salute o speranza: al teucro duce,
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose
por con tanta paura, e tanta stima
che fai de la prodezza e de le forze{{R|645}}
e non tanto avvilir da
son ora, al gran Dïomede, al grande Achille
i Teucri formidabili e tremendi;{{R|650}}
e dal mar se ne torna per paura
temer di me, perché il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non piú per nulla
non ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran padre, e
Se tu piú non
ne
siam
siam per sempre perduti; e se fortuna,
varïando le veci, unqua non cangia,
signor, pace imploriamo; e
gittando, a giunte mani accordo e vènia
impetriam dai nemici. Ancorché, quando
Line 694 ⟶ 689:
Ma se le nostre forze ancor son verdi,
la nostra gioventú florida, intatta,
disposta e pronta a
i popoli
son con noi tutte; e
sanguinosa, dannosa e poco lieta
è questa gloria; ed han
la parte loro; e la tempesta è pari
con tanto scorno, a noi stessi mancando,
gittarne a terra? a che tremare avanti
che la tromba si senta? A la giornata
il tempo stesso, il varïar
potria de la fortuna in molte guise,
come suol
cangiando, risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;
avrem Messapo; avremo il fortunato{{R|690}}
Tolunnio; avrem
di
né di minor virtú saranno i nostri
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la gran volsca virago, che
di cavalieri e di caterve armate
sí bella gente. E se me solo appella
il nemico a battaglia, e se
che sol io gli risponda ed io sol osto
al ben comune, io solamente assumo{{R|700}}
sopra me questa impresa. E già non credo
che le mie man sí la vittoria abborra,
che per tanta
accettar non la deggia. Androgli incontro
con
del magno Achille, e come Achille,
Io Turno, io che non punto a qual si fosse
mai degli antichi di valor non cedo,
Line 733 ⟶ 728:
ed a Latin mio suocero consacro
solennemente. Enea me solo invita;
la purghi, o che la gloria me ne tolga,{{R|715}}
consultando i Latini avean tra loro
dispareri e tenzoni. Usciti a campo
Line 743 ⟶ 738:
e tutta la città pose in tumulto,
annunzïando che dal tosco fiume
già mosso
se ne venia
in vèr Laurento; e che di genti e
si vedean piene le campagne e i colli.
Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene il volgo: ai valorosi
discorrea per le strade; arme fremea{{R|730}}
la gioventú; dolenti e lagrimosi
Line 757 ⟶ 752:
vari bisbigli. E tutto il corpo insieme
facea de la città tale un trambusto,{{R|735}}
e tal ne
qual è se spaventata esce
torma di rochi augelli, o qual talora
da le pescose rive di Padusa
Line 766 ⟶ 761:
di seder a consiglio: or consigliate
agiatamente: aggiate sopra tutto
cura a la pace, or
ne son già sopra». E, cosí detto a pena,
saltò fuor de la reggia; e vòlto a torno:
Line 778 ⟶ 773:
Per tutta la città si va scorrendo{{R|755}}
a le mura. A
ognun
se
si ritira, e si pente che non aggia
per sé, senza consulta, il frigio duce{{R|760}}
Line 790 ⟶ 785:
de la battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
a
corrono a la muraglia. E
da gran corteo di donne accompagnata
con doni e preci di Minerva al tempio
Line 799 ⟶ 794:
era tanta ruina: e di ciò mesta,{{R|775}}
porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e
vaporando il delúbro, in flebil voce
pregano in su la soglia: «Armipotente
Tritonia, tu che puoi, la possa e
frangi al frigio ladrone, e di tua mano
anciso in su la porta me lo stendi».
Esso re Turno da la furia spinto
ricorre a
e
cinto di brando, e sol del capo ignudo
lieto mostrossi, e di speranza altiero
di vedere il nemico. E
da la ròcca scendea che
sciolto destriero esce ruzzando in campo,{{R|790}}
o
di verde prato, o pur desio lo tragga
del noto fiume; che sbuffando freme,
e ringhia e drizza il collo e squassa il crine.
A
gli si fa
la vergine Camilla: e sí
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:{{R|800}}
«Turno, se degnamente uom forte ardisce,
Line 830 ⟶ 825:
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana oste, e che primiera io tragga{{R|805}}
di questa pugna e
e tu qui
a guardia de la terra». A tal proposta
Turno ne la terribile virago
gli occhi fissando: «O de
ornamento e sostegno, e di che lode,
e di che premio al tuo gran merto uguale
ristorar ti
non è che la pareggi) abbi, famosa
guerriera, in grado
questa fatica. Enea, come dal grido
avemo e da le spie fin qui ritratto,
spinte ha le schiere
per batter la campagna: ed egli altronde
presa la via del monte, per alpestro{{R|820}}
sentiero a la città di sopra al giogo
vien con
è fargli agguato, e collocarmi appresso
là,
del curvo monte ambe le strade accoglie.{{R|825}}
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti
nostri cavalli, i suoi nel piano assagli
a spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarà con te: saranvi
vi saran di Corace e di Catillo{{R|830}}
le squadre tutte; e tu con essi il carco
Line 860 ⟶ 855:
a la lor fazïone, egli a la sua
tostamente si volse. È tra due branche{{R|835}}
del monte una vallea che
ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
a
Ha ne
angusta, malagevole e scontorta{{R|840}}
che
In cima, in su
ascosa una pianura, con ridotti
acconci a ritirarsi, ed opportuni
a spingersi o dal destro o dal sinistro{{R|845}}
lato, che si rincontri o che
nemica gente, o pur che di gran sassi
si tempesti di sopra. A questo loco,
Line 881 ⟶ 876:
«Vedi a che perigliosa e mortal guerra
a morir se ne va la mia Camilla,{{R|855}}
ne le
E pur
Né questo è nuovo, o repentino amore.
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre
di lei, fu per invidia e per soverchia{{R|860}}
potenza da Priverno, antica terra,
che gli fece il suo popolo, fuggendo,
nel suo misero esiglio ebbe in campagna
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fu Camilla nomata. Andava il padre
con essa in braccio per gli monti errando
e per le selve, e
sempre
Ecco un giorno assalito con la caccia
dietro, fuggendo, a
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
e rapido spumando, infino al sommo
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;{{R|875}}
tal che, per téma de
non
fermossi; e poiché a tutto ebbe pensato,
con un súbito avviso entro una scorza
di salvatico súvero rinchiuse{{R|880}}
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
tèlo,
legolla acconciamente; e
con la sua destra poderosa in alto{{R|885}}
librando, a
"Alma latonia virgo, abitatrice
de le selve e
questa mia sfortunata figlioletta
per ministra ti dedico e per serva.{{R|890}}
Ecco
accomandata, dal nimico in prima
sol per te la sottraggo. In te sperando
a
prendila, te ne prego, e tua sia sempre".{{R|895}}
Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,
oltre il fiume lanciolla; e
e
Mètabo, da la turba sopraggiunto
e salvo a
Ivi
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse, e via fuggissi; e piú mai poscia
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selve e tane di fere ebbe ricetto
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino latte, e balia una
ancor non doma e pavida giumenta.
Ne le tenere labbra il padre stesso{{R|915}}
de la fera premea
né pria tenne
che
dardi le mani e gli omeri gravolle.
Non
né men di lunga, o di fregiata gonna
la ricoverse; ma di tigre un cuoio
le facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
e
e trar
facea strage di gru,
Molte la desiâr tirrene madri
per nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta, intemerata e pura e casta,{{R|930}}
la sua verginità,
sol ebbe in cale. Or mio fôra disio
che di questa milizia e de la pugna,
che presa ha
fosse digiuna; per sí cara io
e tale or mi saria grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese
va
che per Lazio e per lei mal
Prendi
stessa faretra, e di qui traggi il tèlo
per vendicarmi di qualunque ardito
sarà di vïolar
e devota virago, Italo, o Teucro{{R|945}}
che sia. Poscia io verrò di nube involta
a provveder che
non sia
sia ne la patria, e seppellito e pianto».
Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,{{R|950}}
lievemente calossi. I teucri intanto
e i toschi duci le lor genti avanti
spingendo, a la città
Piena
e di schierati fanti e di squadroni
si vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane, giramenti, scorribande
di cavalieri: in secche selve i colli
parean conversi: ardea la terra e
di ferrigni splendori, e
Incontro a lor da
il fier Messapo, i cavalier latini,
Corace col suo frate, e di Camilla{{R|965}}
la bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia de le genti, e
il fremito maggiore. E già la massa
ristretta, e già vicine ambe le parti
a tiro
con saette e con dardi incominciaro
primamente da lunge a salutarsi.
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al ciel levossi; e due contrari nembi{{R|975}}
da la terra sorgendo, armi fioccaro
di neve in guisa, e coprîr
Alfin da ciascun lato i destrier punti
andâr tutti con tutti a rincontrarsi.
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Era Tirreno al fiero Aconte opposto{{R|980}}
ne la battaglia; e questi primamente
de
ed ambi i corpi infranti, stramazzati,
da fulmine o da macchine avventati,
caddero a terra. E pria ne
lasciò la vita. Conturbate e sparse
le schiere
con le targhe rivolte a tutta briglia{{R|990}}
vèr le mura spronando in fuga andaro.
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Qui fermi e rincorati alzan le grida,
volgon le teste, e si rifan lor sopra,{{R|995}}
e quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano: in quella guisa
il mare or
e ne
or da la riva indietro se ne torna,
e le
sorbendo e voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino a le mura; e i Rutuli due volte{{R|1005}}
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
mischiârsi ambe le schiere, e
vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi
si sentîr
il pian tutto di sangue, e tutto
e
feriti e morti. Orsíloco a rincontro
di Rèmolo trovossi; e non osando
di star seco a le mani, al suo cavallo
trasse del dardo, e
Del colpo impazïente e per sé fiero
si scosse,
e con le zampe il corridor levossi,
e
Catillo Iola e
Erminio, che di corpo e
era
e
per sua celata; avea gli omeri ignudi{{R|1025}}
di ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio bersaglio. In su
Catillo il colse; e tremolando il tèlo
passogli il petto, e raddoppiogli il duolo.
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In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual Dïana
di sonora faretra e
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,{{R|1040}}
saettando, ferite e morti avventa.
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro{{R|1045}}
scelte da lei per sue degne ministre
ne la pace e ne
Termodoonte il bellicoso stuolo
de
attorneggiare Ippolita, o col carro{{R|1050}}
gir di Pentesilèa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e quanti
quei
mandasti a
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu
Cadde il meschino, e
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.{{R|1060}}
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi in un tempo, a
il suo destriero, il fren raccoglie; a
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi{{R|1065}}
precipitaro. A cui
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpàlico
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
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gli gia davanti, e stranamente armato
cavalcava di Puglia un gran destriero:
per sua corazza avea
un duro tergo; per celata un teschio
di lupo, che dal capo insino al mento{{R|1075}}
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sovrano a tutti, e le ferine orecchie
ergea di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermò,
senza contrasto, già che vòlta in fuga
era la schiera sua. Sovra al suo corpo{{R|1085}}
Line 1 120 ⟶ 1 115:
Tosco insolente? di venire a caccia
in qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei là
col ferro amaramente vi rintuzza{{R|1090}}
la superbia e la lingua. Oh pur non poco
ti fia di vanto, referendo a
Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,
due corpi
del troian oste. A Bute un colpo trasse
che
si scopre il collo, onde lo scudo appeso
sta da sinistra. Orsíloco, fuggendo
e gridando, gabbò;
seguitò lui. Gli fu sopra in un tempo
a colpi di secure, e
gli pestò sí che per suo scampo
si volse. Alfine un tal sopra la testa{{R|1105}}
ne gli piantò, che le cervella infrante
gli schizzâr da la fronte e da le tempie.
il bellicoso figlio a
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,{{R|1110}}
che per ordire inganni (in fin che
gliel concedé) non degli estremi avuto
era
sbigottito fermossi. E poiché vide
non poter con la fuga a lei sottrarsi,{{R|1115}}
Line 1 152 ⟶ 1 147:
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -
sarà la tua, se ben femina sei,
di sfidar me, quando a un caval
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio{{R|1120}}
rinunzia de la fuga e meco a piede
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onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo{{R|1125}}
ratto dismonta; e
in man de la compagna, a piè si pianta;
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida
Il giovine, che vinto si credette{{R|1130}}
aver con quello avviso, incontinente
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«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga{{R|1135}}
sarà la tua; ché
tuo padre, e di tua patria, a far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual da cocca strale
dietro gli si spiccò: ratto
passollo, attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferí,
Cosí
sparvier grifagno al timido colombo
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
In questa,
alcun
non con lieve disdegno o
mosse Tarconte a sovvenir le schiere
va de
or il destrier contra i nemici urtando,
or le sue squadre inanimando, insieme{{R|1155}}
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e per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni, e che timore, e che spavento
è
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite per una femina? Una femina
vi disperde e
invan cosí le destre e i petti armate?
De le donne temete? Or via, campioni{{R|1165}}
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a sacrifizi, allor che ne le sacre
foreste è da
che la vittima e grassa, itene tutti
seco a goder del saginato bue{{R|1170}}
a piena pancia, ché
ne va come devoto a morte
Con Vènolo
turbato,
del suo cavallo. Alto levossi un grido
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
i Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
per la campagna con la preda in grembo
del nimico e de
svelge da
e cerca
per darli morte. E mentre ne la gola
tenta ferirlo, ei con le braccia in alto
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quanto può con la forza si districa.
Come ne
si son visti talor
pugnar volando, e
e col becco ghermito e morso
e
farle vincigli
e questo con la testa alto fischiando,
e quella schiamazzando e dibattendo,
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del suo duce seguendo, e del successo{{R|1200}}
assecurata, la meonia torma
tutta
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
era al suo fato, con un dardo in mano
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di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea,
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea che netto il colpo
gli rïuscisse; e da fellone intanto
avea
Giva per avventura a lei davanti{{R|1215}}
Cloro, un giovine idèo che sacerdote
era già di Cibele. I Frigi tutti
non avean chi di lui fosse ne
piú riccamente adorno. Un suo corsiero
per lo campo spingea, di spuma asperso,{{R|1220}}
cinto di barde e
come di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente inteste. Un arco
gli pendea da le spalle, una faretra
a la cretese. In testa, in gambe, in dosso{{R|1225}}
di peregrina porpora e di seta,
di bisso, di teletta e
tutto coverto, tutto ricamato,
tutto trinciato; e saettando andava.{{R|1230}}
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Costui veduto, ogni altra impresa indietro
lasciando, a lui si volse o per vaghezza
di consecrar le sue
o pur che di sí vago ostile arnese
di gir pomposa cacciatrice amasse.{{R|1235}}
Basta che per le schiere incauta, ardente,
e, come donna, vogliolosa e folle
de
contro a lui se ne giva; allor
dopo molto appostarla, alfin le trasse{{R|1240}}
in tal guisa pregando: «O di Soratte
Line 1 286 ⟶ 1 281:
dammi, ché tutto puoi, padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti{{R|1250}}
mi sian di lode, e pur che questo mostro
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senza piú gloria andrò di questa guerra
pago e contento». Udí Febo del vóto
parte, e parte per
Udí che morta da quel colpo fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui,
ché ciò per
Tosto che da le man
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
Ed ella né del tèlo, né de
moto o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre giú discendea, finché non giunse.{{R|1265}}
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era la poppa; e del virgineo sangue,
non già di latte, sitibonda scese
sí che
le fûr trepide intorno; e già che morta{{R|1270}}
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia; ché ne
piú non confida, e piú di star non osa
incontro a lei. Qual affamato lupo{{R|1275}}
o lo stesso pastore, in sé confuso
di tanta audacia, anzi che
gli si levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo
solo a salvarsi inteso, in mezzo a
si mischiò tra le schiere. Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro{{R|1285}}
tentò svelgersi indarno; ché la punta
onde languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,{{R|1290}}
si fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima
di rose e
tutto si tinse. In tal guisa spirando,
Acca a sé chiama, una tra
la piú fida di tutte e la piú cara;{{R|1295}}
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui finiti: questa acerba piaga
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
a questa pugna e la città soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosí, che abbandonando il freno
e
traboccò da cavallo. Allora il freddo{{R|1305}}
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
Camilla estinta, per lo campo un grido{{R|1310}}
levossi che
e surse al cader suo zuffa maggiore;
ché i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
Line 1 361 ⟶ 1 356:
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse, - virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de
se
E di che pro
solinga vita, armar de
gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
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il corpo tuo, sarà meritatamente
di ferro anciso». Era a Dercenno, antico{{R|1335}}
re
cui sopra era di terra un monte imposto
e
Qui la veloce dea dal ciel calossi
al primo volo; e di qui visto Arunte{{R|1340}}
splender ne
superbo e gonfio: «Ove ne vai? -
qui convien che ti fermi, e qui morendo
de la morta Camilla il premio avrai
degno di te, se di perir sei degno{{R|1345}}
de
la buona arciera del turcasso aurato
trasse un acuto strale, e
e tirò sí
vennero al mezzo, ed ambe parimente{{R|1350}}
le mani, una tirata e
quella toccò la poppa e questa il ferro.
e ferir e morir sentissi Arunte
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio{{R|1355}}
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e piú che di galoppo in vèr Laurento{{R|1370}}
battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri
percossi i petti, alzano al ciel le grida
con femineo ululato. E quei che primi
giunti trovâr le porte ancor non chiuse,{{R|1375}}
mischiati
si credean ne
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor propri e
fûr sopraggiunti. In cotal guisa in prima{{R|1380}}
stette la porta agli avversari aperta;
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando
che morir gli vedean, perché
supplicavano indarno. E qui tra quelli{{R|1385}}
che
anzi a furia, a ruina incontro a loro
si fece e miseranda. E degli esclusi
altri in cospetto degli stessi padri,{{R|1390}}
e de le madri che dogliose grida
ne facean da le torri e da le mura,
da
precipitâr
cadder sospinti; ed altri ne la fuga{{R|1395}}
lor furia trasportati, a dar di cozzo
gîr ne le chiuse porte. In
ancor le donne (che le donne ancora
il vero della patria amore infiamma),{{R|1400}}
come giunte a
vider Camilla, il femminil timore
volgono in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati
pali il ferro imitando, osano
per la difesa delle patrie mura
gir le prime a morir morte onorata.
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A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la già spedita messaggiera,
con
portando, che
morta Camilla, annichilati i Volsci,
e i Teucri
stanno in campagna col favor che porta
seco de la vittoria il corso e
assalgon la città.
e di furore il giovine infiammato
(ché tale era il voler empio di Giove)
da
Smarriti non gli avea di vista a pena,
a pena era nel piano, allor
prese del monte; e là
trovando aperto,
superò
Cosí con passi frettolosi entrambi
con tutte le lor genti, e
poco lontani a la città sen vanno.
E
vide di polverio fumare i campi,{{R|1430}}
e di Laurento sventolar
Turno da
crescer di mano in mano. Eran vicini
sí, che venuto a zuffa ed a battaglia{{R|1435}}
si fôra anco quel dí: se non che Febo,
fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri
stava già per tuffar ne
onde avanti a le mura ambi accampati
di trincee si muniro e di ripari.{{R|1440}}
</poem>
{{Interwiki-info|la|(orig.)}}
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