Per la morte di Giuseppe Garibaldi: differenze tra le versioni

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<small>Bologna, Zanichelli, 1882. Questo discorso, detto il {{Sc|iv}} di giugno nel [[w:Teatro Duse (Bologna)|teatro Brunetti]], fu raccolto a memoria e di su le note manoscritte e d'alcunid’alcuni giornali.</small>
 
Questi vostri plausi, o signori, mi ripungono a pentirmi della promessa di parlare. Anche stamane ho ricevuto un terzo telegramma di sollecitazione a comporre versi su la morte del Generale. Io non so di aver finora dato prove di cuore cosí misero e duro, che altri mi possa tenere per pronto a mettere insieme delle sillabe quando un tanto dolore colpisce la patria e me, quando io ho qui sempre dinanzi agli occhi della mente e quasi a quelli del corpo il cadavere dell’uomo che ho piú adorato fra i vivi. Ma in Italia (e gli adulatori dicono che è bene, quasi un segno delle disposizioni di questo popolo all’arte) ma in Italia, come le donne nelle disgrazie del vicinato giuocano al lotto, cosí nei casi della nazione non mancano mai tribuni e verseggiatori che giuochino tre frasi o tre rime al temo della popolarità o della celebrità. Io non sono di quelli. No, non applaudite, vi prego; quando anche il vostro plauso sonasse non altro che assentimento alle cose forse non vili che sono per dirvi e venerazione all’eroe che piangiamo. Non applaudite, vi prego. Non disturbate i sacri silenzi della morte. Pensate che il Generale giace immoto, cereo, disfatto, là tra i funebri lumi della stanza di [[w:Caprera|Caprera]]. Piangiamo e lamentiamo i fati della patria.