Le nuove forme dell'abitare: differenze tra le versioni

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Se volgiamo lo sguardo al territorio che ci circonda, notiamo che i vecchi concetti di “urbano” e “rurale” non hanno più senso. Con la globalizzazione non solo le città ma anche le campagne si sono deterritorializzate. Nelle zone più interne dell’Appennino intere comunità rischiano di perdere ogni possibilità di sopravvivenza economica e culturale, perché non c’è più protezione sociale per loro: non ci sono più scuole, presidi sanitari, uffici postali, mezzi di trasporto pubblico. Nelle pianure del Sud ad agricoltura intensiva interi territori sono privi di comunità e un caporalato totalmente in mano ad organizzazioni malavitose internazionali ha assunto le forme agghiaccianti dello schiavismo ai danni degli immigrati. Nelle aree periurbane non si addensano più soltanto le “villettopoli” dei ricchi e i tuguri dei nomadi, ma anche le abitazioni delle persone che rifuggono l’impazzimento delle città e ricercano in attività agricole di prossimità una seconda chance per dare un senso alla propria esistenza. Ad esse si aggiungono le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, che pur lavorando saltuariamente hanno perduto l’indipendenza economica e sociale. Dovremmo usare espressioni ibride come “campagne urbane” o “montagne dotate/deprivate di comunità” o ancora “sistemi locali rurali post-industriali”, o addirittura “bidonville agricole” per descrivere quello che una volta era genericamente rurale o urbanizzato. Ma permangono ancora, aldilà di ogni evidenza, impostazioni culturali urbanocentriche che relegano le campagne a spazi di riserva da utilizzare alla bisogna da non programmare e pianificare così come si fa per le altre aree della città e, dunque, da non consumare neanche nelle forme dell’abitare che sono proprie delle campagne urbane.