Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap IX: differenze tra le versioni

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{{Qualità|avz=75%|data=9 novembre 2008|arg=Romanzi}}{{IntestazioneIncludiIntestazione|sottotitolo=[[Fermo letteraturae Lucia/Tomo Quarto|Tomo Quarto]] - Capitolo Nono}}
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Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due. Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto. Entratovi anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un romore si levò all'intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
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La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo. Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal altra». Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te». Fermo quella volta rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
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