Pagina:Zibaldone di pensieri I.djvu/250: differenze tra le versioni

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a cose meno materiali: {{ZbPagina|111}} V. p. {{ZbLink|100}} di questi pensieri. E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come la filosofia e l’uso della pura ragione che si può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione, che si può paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le voci greche (le voci non i modi), di cui s’è tanto ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue esser altro che termini, con significazione nuda e circoscritta, e aria tecnica e geometrica, senza grazia e senza eleganza. E quanto piú ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto piú toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perché la forza e l’evidenza consiste nel destar l’immagine dell’oggetto, e non mica nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra lingua. Le metafore d’ogni sorta sono adattatissime per questa cagione alla bellezza ''naturale'' e al colorito del discorso. E la lingua italiana studiata di tanti scrittorelli d’oggidí, che ancorché sia piena di modi e parole native riesce sí misera e dissonante, vien tale (oltre all’affettazione che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano, e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile modellato giudiziosamente sull’antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli antichi scrittori) perché fa bruttissimo vedere l’aridità moderna che questi non sanno schivare, colla freschezza, il colorito, la morbidezza, la vistosità, l’''embonpoint'' la floridezza il vigore ec. antico.
<section begin=1 /><!--{{ZbPagina|110}}-->a cose meno materiali: <section end=1 /><section begin=2 />{{ZbPagina|111}} V. p. {{ZbLink|100}} di questi pensieri. E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura delle cose, vedendo come la filosofia e l’uso della pura ragione che si può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione, che si può paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le voci greche (le voci non i modi), di cui s’è tanto ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue esser altro che termini, con significazione nuda e circoscritta, e aria tecnica e geometrica, senza grazia e senza eleganza. E quanto piú ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto piú toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perché la forza e l’evidenza consiste nel destar l’immagine dell’oggetto, e non mica nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra lingua. Le metafore d’ogni sorta sono adattatissime per questa cagione alla bellezza ''naturale'' e al colorito del discorso. E la lingua italiana studiata di tanti scrittorelli d’oggidí, che ancorché sia piena di modi e parole native riesce sí misera e dissonante, vien tale (oltre all’affettazione che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano, e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile modellato giudiziosamente sull’antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli antichi scrittori) perché fa bruttissimo vedere l’aridità moderna che questi non sanno schivare, colla freschezza, il colorito, la morbidezza, la vistosità, l’''embonpoint'' la floridezza il vigore ec. antico.




{{ZbPensiero|111/1}} ''Gridare a testa'' o ''Quanto se n’ha in testa'' è frase antichissima e greca. Manca ne’ Lessici greci e latini, ma si trova in Arriano (''Jnd.'', c. 30): ὅσον αἱ κεφαλαὶ αὑτοῖ{{pt|σν|ς}}
{{ZbPensiero|111/1}} ''Gridare a testa'' o ''Quanto se n’ha in testa'' è frase antichissima e greca. Manca ne’ Lessici greci e latini, ma si trova in Arriano (''Jnd.'', c. 30): ὅσον αἱ κεφαλαὶ αὑτοῖ{{pt|σν|ς}}


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