Pagina:Zibaldone di pensieri II.djvu/221: differenze tra le versioni

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non ottenuto, perché non è mai se non futuro, non mai presente); allora l’animo suo ''erigens se ''quasi fuori di questa vita, ''posteritatem respicit'', come che dopo morte ''tum denique victurus sit'', cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo {{ZbPagina|828}} piú luogo dove posarsi, né oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l’uomo a questo estremo, perché come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d’altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, cosí questa non trovando piú dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto piú comune negli uomini grandi, perché laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell’attuale e vero piacere in questa vita, e d’altronde {{ZbPagina|829}} bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall’animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell’esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt’altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella
<section begin=1 /><!--{{ZbPagina|827}}-->non ottenuto, perché non è mai se non futuro, non mai presente); allora l’animo suo ''erigens se ''quasi fuori di questa vita, ''posteritatem respicit'', come che dopo morte ''tum denique victurus sit'', cioè debba conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità, vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo <section end=1 /><section begin=2 />{{ZbPagina|828}} piú luogo dove posarsi, né oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini di questa vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi, sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si riduce l’uomo a questo estremo, perché come il fine della vita è la felicità, e questa qui non si può conseguire, ma d’altra parte una cosa non può mancare di tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la speranza, cosí questa non trovando piú dimora in questa vita arriva finalmente a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione appunto piú comune negli uomini grandi, perché laddove gli altri, conoscendo meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche esperienze, disperati dell’attuale e vero piacere in questa vita, e d’altronde <section end=2 /><section begin=3 />{{ZbPagina|829}} bisognosi di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall’animo alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell’esistenza, e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt’altra da quella che possa derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella<section end=3 />