Oggi è un'ora di viaggio: differenze tra le versioni

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Il quadro politico ''internazionale italiano ''era, quindi, caratterizzato dalla preminenza degli interessi austriaci che - ad esempio- vedevano il Ticino e il Po non come vie d’acqua ma come confini da presidiare. Il Granduca di Toscana centralizzava su Firenze i terminali delle sue ferrovie. Il Papa, Gregorio XVI i treni non li voleva proprio ritenendoli opera del demonio e suscitatori di tisi per effetto delle correnti d’aria generate. I ducati (Parma e Modena) titubavano, memori delle insurrezioni degli anni ’30; il Regno di Sardegna era tanto fermo che “''Al principio del 1848 non eravi colà in esercizio un solo chilometro di strada''”<ref>An., ''Annali universali di statistica, economia pubblica, geografia, storia, viaggi e commercio''”, Volume XVII, Serie II, Luglio, Agosto e Settembre 1848, Milano, pag. 95.</ref>
 
Eppure i progetti si susseguivano. E provenivano non da politici e tecnici di seconda fila. Uno dei primi fu {{Ac|Luigi Tatti}}. Architetto e ingegnere e progettista di linee ferroviarie, Tatti nel 1837 traduce il “''Manuel du constructeur des chemins de fer, ou Essai sur les principes généraux de l’art de construire les chemins de fer ''dell’ingegnere francese É. Biot. Tatti, a pag. 170, inserisce nel testo in italiano una interessante “nota 1“ che già descrive le principali necessità ferroviarie dell’Italia. Ne riporto qualche brano:
 
''In Italia, fra Torino e Genova, Milano e Venezia, Livorno e Firenze, Roma e Napoli. Ove questi primi ed essenziali tentativi prosperassero si potrebbero tentar linee che percorressero la penisola in tutti i sensi, ed alle quali la sua fisica conformazione si presterebbe. Si unirebbe Torino a Milano e Venezia, e per una linea parallela oltre il Po da essere congiunta alla prima con tratte parziali, si unirebbe Torino stessa a Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Da ivi lungo l’Adriatico si scenderebbe a Rimini, Sinigaglia, Ancona, Barletta, Brindisi, Otranto: lungo il mar Tirreno da Genova un’altra linea toccherebbe Lucca, Pisa e Livorno, e quindi attraverso le maremme toscane, Civitavecchia e Roma, dove troverebbe il suo prolungamento in quella da Roma a Napoli per le Paludi Pontine, e da Napoli a Nocera e Salerno […]'' <ref>''L'Architetto delle Strade Ferrate, ovvero Saggio sui Principi Generali nell'arte di formare le strade di ruotaje in ferro, ''A. Monti, Milano, 1837. (tratto in italiano da Luigi Tatti). Pag. 170.</ref>
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Nel 1845 il conte Ilarione Petitti di Roreto, ''Consigliere di Stato ordinario di S.M. Sarda e Socio di varie Accademie,'' si arrotolò metaforiche maniche ed esplose il suo “''Delle strade ferrate italiane e del miglior ordinamento di esse, Cinque Discorsi” <ref>''Delle strade ferrate italiane e del miglior ordinamento di esse. Cinque Discorsi di Carlo Ilarione Petitti''”, Capolago, Tipografia e Libreria Elvetica, 1845.</ref> ''un corposo testo di 652 pagine, fondamentale per lo studio economico e politico delle linee ferroviarie del nostro Paese di cui all’epoca si parlava come possibili, probabili anzi certe. I “Cinque Discorsi” di Petitti prendevano in osservazione i vari aspetti della progettazione, della costruzione e della gestione delle linee ferroviarie. Da una Torino isolata dal resto della Penisola dalla politica degli Asburgo, Petitti indicava “quali” erano le linee da costruire in Italia. In un’Italia ideale, senza confini. Questo non poteva essere accettato da una comunità di staterelli la cui politica era eterodiretta da Francia e Austria.
 
E infatti le reazioni ci furono, oscillanti fra l’apprezzamento, ma ironico e pieno di “distinguo”, in “''Del danno che avverrebbe allo Stato Pontificio da qualunque strada ferrata fra la Toscana e l’Adriatico''“ oppure in “''Sulle strade ferrate nello Stato Pontificio”, ''entrambi'' ''scritti dal papalino {{Ac|Benedetto Blasi}} (Segretario della Camera di Commercio di Civitavecchia), e il furibondo e sprezzante articolo che l’''Osservatore Triestino'', organo del Lloyd di Trieste (allora austriaca “perla dell’Adriatico”), propagò dalle sue colonne nel gennaio successivo.
Non era (solo) patriottismo imperiale; uno degli obiettivi era il leggendario collegamento “La Valigia delle Indie” che doveva unire Londra con le sue colonie indiane. Il solo passare per qualche città ne doveva, nell’immaginario della rurale Italia dell’epoca, arricchire come ''nawab'' i fortunati abitanti, lambiti dalle dovizie del misterioso Oriente.