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cioè della falsa e vana credenza de' gentili, fli Dei de' quali egli chiama, secodo alcuni, ''falsi e bugiardi'' per gli ambigui e confusi risponsi ch'ei davano quando eglino erano pregati e interrogati da gli uomini; ma io, pensando altrimenti, credo che Virgilio dicesse tal cosa, illuminato e mandato da Beatrice a Dante, per cominciare a indurlo nella certezza della fede cristiana, mostrandogli come la religione de' Romani, i quali erano stati tenuti i maggiori uomini del mondo, e così ancor conseguentemente quella de' Greci, ch'erano stati tenuti i più savi, avendo ancora eglino avuti i medesimi Dii, era bugiarda e falsissima.
cioè della falsa e vana credenza de' gentili, fli Dei de' quali egli chiama, secodo alcuni, ''falsi e bugiardi'' per gli ambigui e confusi risponsi ch'ei davano quando eglino erano pregati e interrogati da gli uomini; ma io, pensando altrimenti, credo che Virgilio dicesse tal cosa, illuminato e mandato da Beatrice a Dante, per cominciare a indurlo nella certezza della fede cristiana, mostrandogli come la religione de' Romani, i quali erano stati tenuti i maggiori uomini del mondo, e così ancor conseguentemente quella de' Greci, ch'erano stati tenuti i più savi, avendo ancora eglino avuti i medesimi Dii, era bugiarda e falsissima.


Descrivesi di poi nel quarto luogo da la professione ch'ei fece, la quale fu dare opera a gli studii della poesia, della quale vi è stato da me ragionato di sopra a bastanza; e di poi nel quinto e ultimo, da le opere ch'egli compose, nominando solamente, per essere ella stata la maggiore e la più apprezzata, la {{TestoCitato|Eneide}}, ancora ch'egli la lasciasse, sopraggiunto da la morte, imperfetta e senza fine; nella quale, seguitando il costume de' poeti (i quali, essendo mossi quando e' fanno i loro poemi, come scrive Platone, da furore e forza divina, si dice ch'ei cantano) non dice ancora: ''io scrissi'', ma: ''io cantai'' di Enea, dicendo:
Descrivesi di poi nel quarto luogo da la professione ch'ei fece, la quale fu dare opera a gli studii della poesia, della quale vi è stato da me ragionato di sopra a bastanza; e di poi nel quinto e ultimo, da le opere ch'egli compose, nominando solamente, per essere ella stata la maggiore e la più apprezzata, la {{TestoCitato|Eneide}}, ancora ch'egli la lasciasse, sopraggiunto da la morte, imperfetta e senza fine; nella quale, seguitando il costume de' poeti (i quali, essendo mossi quando e' fanno i loro poemi, come scrive Platone, da furore e forza divina, si dice ch'ei cantano) non dice ancora: ''io scrissi'', ma: ''io cantai'' di Enea, dicendo:{{Centrato|<poem><small>Poeta fui, e cantai di quel giusto
Figliuol d'Anchise, che venne da Troia,
Quando<ref>Cr. ''Poichè''.</ref> il superbio Ilion fu combusto.</small></poem>}}
La istoria di Enea, figliuolo d'Anchise, e come egli dopo l'essere stata distrutta e arsa da' Greci Ilio, città superbissima di Troia, provincia dell'Aaia, se ne venisse in Italia, e da i suoi discendenti avesse di poi principio la città di Roma, è stato trattato distesamente e a bastanza nel suo comento da M.