Brani di vita/Libro primo/Monte Coronaro: differenze tra le versioni

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Ivi, proprio sulla spina dell'Appennino, proprio dove le acque si dividono per scendere all'oriente nell'Adriatico, all'occidente nel Mediterraneo, intirizziti dal venticello dell'alba, attendemmo la nuova guida, un operaio di Verghereto, che ci doveva condurre a Monte Coronaro. A poco a poco ci si vedeva meglio e nel versante toscano discernevamo il verde cupo dell'abetìo, mentre giù, nel romagnolo, la vallata più aperta e più nuda si colorava di toni grigiastri e freddi. Il monte Comero ed il monte Fumaiolo si disegnavano nettamente nel cielo di un bianco azzurrognolo, e lungo i loro fianchi si distinguevano le larghe chiazze bige impressevi dalla sterilità.
E lungo il crine dell'Alpe di Serra, volgendo colla nuova guida al sud-est-sud, ripigliammo il viaggio. Il mattino era desto, e guardando giù tra i faggi, vedevamo le pecore nei prati verdi salire al pascolo e ci pareva d'essere in Arcadia. L'egloga era dappertutto e l'idillio cantava dentro di noi. Quanto era lontana la città colle sue vie roventi, colle sue botteghe che soffiano l'afa, co' bugigattoli dove s'arrostisce vivi! Quant'erano lontani i caffè asfissianti, i teatri ribollenti, gli uffici, le mosche, i telegrammi Stefani! Arcadia! Arcadia! E ci tornavano in mente versi di {{AutoreCitato|Publio Virgilio Marone|Virgilio}} e di Iacopo Sanazzaro, strofe di Andrea Chénier che non sapevamo di ricordare. E laggiù, dall'orizzonte rosso, prorompevano fasci di luce gialla e le cime si coloravano, e i monti, gli alberi, i prati si destavano in un inno di gioia e di resurrezione. Il sole! Il sole!
Ma l'idillio finì. In faccia al casale detto Gualchereti lasciammo la schiena dell'Alpi di Serra che segue salendo sino al poggio del Bastione, e scendemmo giù nella valle del Savio, giù sino a Folcente, per risalir poi verso Montioni e Monte Coronaro. La discesa fu terribile e terribilmente lunga. Per coste impervie, aride, sassose, ripidissime, ci convenne ruinare a valle, chiedendo difficili sforzi alle povere gambe già strapazzate da tre giorni di viaggio faticoso. Il sole cominciava a scottare ed i faggeti li avevamo lasciati più in alto. I ciottoli smossi dai nostri piedi rotolavano giù saltando e si perdevano e come loro ci bisognava scendere, scendere sempre, ansando e sudando. Addio l'idillio! Se il breve fiato ce lo avesse permesso, avremmo recitato i più terribili versi della discesa dantesca in Malebolge, ''tutto di pietra e di color ferrigno''.