Galileo Galilei (Favaro)/II: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Aubrey (discussione | contributi)
Nessun oggetto della modifica
mNessun oggetto della modifica
Riga 35:
La scienza del moto faceva parte dell'antica fisica peripatetica e costituiva un campo che i filosofi stimavano ad essi esclusivamente riservato. Contro i canoni che n'erano stimati fondamentali, cioè divisione dei corpi in leggeri e pesanti, velocità di caduta dipendente dal peso, distinzione dei moti in naturali e violenti, azione dell'aria favorevole al moto ed altri consimili s'erano levate bensì voci poderose, ma quasi senza effetto, poichè, se anche non possa dirsi che fossero soffocate dall'autorità degli insegnanti dalle cattedre primarie, questi però seguivano imperturbabilmente la loro via.
 
Il fatto delle esperienze sulla caduta dei gravi eseguite dall'alto della torre di Pisa, per dimostrare le nuove verità alle quali era pervenuto, è dal {{AutoreCitato|Vincenzo Viviani|Viviani}}, il quale deve averlo raccolto dalle labbra istesse di Galileo, affermato in modo così sicuro ed esplicito da non potersi revocarlo in dubbio, e tanto meno recisamente negare perchè non se ne trova conferma in altri documenti contemporanei. Scrive egli infatti che, con gran sconcerto di tutti i filosofi furono da esso convinte di falsità, per mezzo d'esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell'istesso Aristotele intorno alla materia del moto, sin a quel tempo tenute per chiarissime ed indubitabili; come tra l'altre, che le velocità de' mobili dell'istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, che anzi si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall'altezza del campanile di Pisa con l'intervento degli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca; e che nè meno le velocità di un istesso mobile per diversi mezzi ritengono la proporzione reciproca delle resistenze e densità dei medesimi mezzi, inferendolo da manifestissimi assurdi che ne seguirebbero contro al senso medesimo.
 
Questi risultati trovansi consegnati in alcuni dialoghi stesi in latino e rimasti a lungo inediti; ma forse è poco credibile che in essi, proprio in essi, debba ravvisarsi la materia del suo pubblico insegnamento, il quale con tutta probabilità dovette restar circoscritto entro i confini voluti dalle consuetudini dei tempi. I nuovi veri però non avranno potuto certamente essere enunciati senza incontrare opposizione da parte degli aristotelici imperanti nello Studio e fino allora indiscussi, e questa congiunta con altre circostanze, e prima fra tutte quella dello scarsissimo stipendio, contribuirono a rendergli meno gradito il soggiorno di Pisa, ch'egli pensava ad abbandonare, come è lecito arguirlo dalle pratiche che andava facendo il marchese del Monte per procurargli altrove più degno collocamento. Anche quell'innocente, ma alquanto licenzioso capitolo bernesco, col quale Galileo mise in ridicolo la prammatica che costringeva i Lettori a far uso della toga, e non soltanto sulla cattedra, avrà contribuito a porlo in voce d'uomo leggero e poco reverente alla dignità cattedratica, mentre le sue idee novatrici lo facevano qualificare ingegno presuntuoso, turbolento e temerario.