Memorie per servire alla vita di Dante Alighieri/XVI: differenze tra le versioni

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<center>''Non potuit tanto mors saeva nocere poetae''</center>
<center>''Quem vivum virtus carmen imago facit''.</center></ref>mostrasse ai forestieri in quale stima abbiano i Fiorentini questo lor celebre concittadino. Era ''Dante'' nell'esterno più che niun'altro, composto, cortese, e civile, negli studj assiduo, e vigilante, tardo parlatore, ma nelle sue risposte molto sottile, e solitario e ritirato dal conversare con gli altri, ambizioso conoscitore dei proprj meriti, e della propria capacità, nemico dei cattivi, e di tutti quei che lo avevano offeso, e degli altri costumi implacabile censore. Odiava l'adulazione, e mai per alcun riguardo si ritenne dal dire ciò che pensava di alcuno. Amava la Patria, e dispiacendoli di esser condannato ingiustamente a star fuori di essa, non usò, per rientrarvi, quei mezzi, i quali potevano placare i suoi nemici; ma stimando che l'esilio che soffriva, fosse una conseguenza del cattivo governo di essa, voleva nello stesso tempo tornare in ''Firenze'', e riordinare lo Stato. L'animo suo nobilmente altero, non soffrì mai pazientemente d'essere stato cacciato con mendicati pretesti, e con dichiararlo colpevole di un delitto il più infame che si potesse inventare per offendere la delicatezza di un ben nato Repubblicano, da quella Patria, che col proprio sangue aveva difesa. Conversò con le femmine, e con esse fu allegro e gioviale; ma nelle Corti dei Signori non seppe coll'umiltà, e colla sommissione acquistare l'altrui benevolenza, perchè i vizj di quei, che le frequentavano, non volle o compatire, o adulare. Benchè Guelfo fu sbandito dalla Patria quando governavano i Guelfi; onde abbandonando la parte, che aveva seguitato, mostrò di essere un fiero Ghibellino, sperando con l'ajuto di quei che favorivano questa fazione, di tornare in ''Firenze''. E' difficile che ora alcuno s'immagini come lo spirito delle fazioni acciecasse nei trascorsi secoli le menti più illuminate dal mirare direttamente i veri oggetti dl ben pubblico, e della
comune grandezza. L'ignoranza suol'esser madre feconda di dissensioni; ma per mala sorte quei medesimi, i quali con lungo studio, e colla cognizione delle più sacrosante verità procurarono di schiarire le folte tenebre di essa ignoranza, spesso per difetto di buon volere, fecero servire a maggior danno degli altri, i frutti delle loro applicazioni. Male in tanta lontananza di tempi si può giudicare la causa fra ''Dante'' e la sua Patria; ma se in ciò si ha da prender lume dagli Scritti dello stesso ''Dante'', si vedrà che tutto il danno nasceva dalle malvage Sette, e che egli sarebbe stato un'ottimo cittadino in una meglio regolata Repubblica. La vivacità del suo talento, la profonda cognizione delle scientifiche verità, le quali erano allora note, l'assidua applicazione allo studio, l'amore della patria, l'ablità nei maneggi, il coraggio nelle intraprese, in tempi meno disastrosi erano le migliori qualità che potessero concorrere in un'uomo di governo. Ma qual'era in quel tempo lo stato di ''Firenze'' non solo, ma di tutta la misera Italia? Le gare fra i cittadini erano a tal segno arrivate, che senza riguardo alla privata passione, si sacrificavano indistintamente i buoni e i cattivi; e le dispute fra la Chiesa e l'Impero, fra i Nobili ed il Popolo, avevano quasi scancellato dagli uomini ogni rispetto di parentela e d'amicizia, e fatto tacere ogni più sacrosanta legge della natura. In tanta confusione di cose non si poteva facilmente conoscere il vero carattere di un'uomo, perchè da ogni sua parola, e da ogni suo pensamento si prendeva motivo per dichiararlo o Ghibellino, o GUelfo, o aderente ai Magnati, o alla Plebe<ref>Più che Guelfo in generale per Ghibellino e aderente ai Magnati si tenne.</ref>, quantunque internamente non avesse avuto altra mira, che la quiete e la pace comune. Ma quanto risalterebbe il merito di ''Dante'', se si prendesse a dimostrare lo stato delle Lettere, le quali appena erano in quel tempo professate dai Laici!<ref>''Laico'', ed uomo uomo senza letteratura in quel secolo era quasi la cosa stessa, ed al contrario ''chierico'' e ''letterato'' fu preso per sinonimo. Oltre gli esempi che della significazione di tali voci riporta il ''Du-cange v. clericus, laicus'' ed altri, il Co.''Giuseppe Garampi'' nelle sue erudite annotazioni alla vita della ''B.Chiara di Rimini'' pag. 35. ne adduce di nuovi, ed ancor io potrei trarne fuori degli altri se ne valesse il pensiero. Non in questo senso certamente ''{{AutoreCitato|Giovanni Villani|Gio. Villani}}'' dice di ''Dante'', che quantunque laico, fu sommo poeta, e filosofo, e rettorico perfetto ec. ''Laico'' cioè non chierico.</ref>perchè si vedrebbe come superò tutti gli altri suoi contemporanei nella vastità del sapere. Cognizione delle passate storie, delle opinioni degli uomini, e delle più nobili Discipline, forza nel dire, vivacità nei pensieri e nelle immagini, esattezza nelle espressioni, e nella pratica dei vocaboli stessi, sono quelle doti, a motivo delle quali la Poesia di ''Dante'' non comparisce nè languida, nè sterile, nè bassa, come lo è quella degli altri Poeti che lo precederono; ma sublime, fiorite, e piena di sentimenti. Egli diede, per così dire, la vita alla toscana favella, e senza seguire altri precetti, che quelli, che la fecondità del proprio ingegno, ed il fuoco della propria immaginazione gli suggerivano, lasciò, come ''{{AutoreCitato|Omero}}'', molto da imitare, ma poco da inventare. I nostri Scrittori non hanno risparmiate le lodi come un tributo di riconoscenza per quel tanto, di cui erano ad esso debitori, ed il titolo di ''Divino''<ref>Il titolo di ''Divino'' ne' passati tempi fu dispensato agevolmente a chiunque veniva reputato in alcun genere eccellente, siccome dimostra il ''P. Mariano Ruele'' nella Scanz. XXIII. della Biblioteca voltante del ''Cinelli'' pag. 65. e seg. Ma la troppa frequenza fece, che decadesse questo titolo da quella stima, in cui era. Ci dobbiamo per altro maravigliare che il Giornalista di ''Bouillon'' (Journal Encyclop. pour 15. avril 1764. pag. 6.) abbia osato scrivere che ''Dante'' "au de là des Alpes on l'appelle divin, parcequ'au de là des Alpes on ne comprend, ni le Dante, ni ses savans commentateurs". E' singolar cosa che uno straniero voglia decidere se noi intendiamo un nostro scrittore, il quale tenghiamo per maestro della Toscana poesia; ma sarebbe anche più strano che volessimo confutare tutte le sciocchezze che in pochi versi in mezzo ad alcune verità ha lasciate uscire dalla penna questo Autore. "O primier peuple du monde, quand serez vous raisonnable? (''Discours aux Welches par Antoine Vadè frère de Guillaume entre les contes des ce dernier'', pag. 131.). Solamente per conoscere quanto egli sia giusto ne' suoi giudizi basta soggiungere ch'egli dice ancora che i contemporanei di ''Dante'' lo riguardavano come "le plus fou des hommes, et le plus fou des hommes, et le plus grand des poetes". La seconda proposizione è chiara, ma della prima qual riprova ne ha il giornalista? Non s'immaginerebbe poi, che in detto luogo scrive tutto questo, per inalzare sopra ''Dante'', il ''Petrarca'', il quale forse non averebbe meritato, se dal primo non imparava.</ref>, col quale, quasi in ogni libro, vien fregiato il suo nome, poch'altri fra i profani Autori più di lui seppero meritarlo.
 
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