Iliade (Monti)/Libro IV: differenze tra le versioni

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<poem>
Nell'aureeNell’auree sale dell'Olimpodell’Olimpo accolti
intorno a Giove si sedean gli Dei
a consulta. Fra lor la veneranda
Ebe versava le nettaree spume,
e quelli a gara con alterni inviti{{R|5}}
l'aureel’auree tazze vôtavano mirando
la troiana città. Quand'eccoQuand’ecco il sommo
Saturnio, inteso ad irritar Giunone,
con un obliquo paragon mordace
così la punse: Due possenti Dive{{R|10}}
aiutatrici ha Menelao, l'Argival’Argiva
Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure
neghittose in disparte ambo si stanno
sol del vederlo dilettate. Intanto
fida al fianco di Paride l'amical’amica{{R|15}}
del riso Citerea lungi respinge
dal suo caro la Parca; e dianzi, in quella
ch'eich’ei morto si tenea, servollo in vita.
Rimasta è al forte Menelao la palma;
ma l'altol’alto affar non è compiuto, e a noi{{R|20}}
tocca il condurlo, e statuir se guerra
fra le due genti rinnovar si debba,
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Strinser, fremendo a questo dir, le labbia
Giuno e Minerva, che vicin sedute
venìan de'de’ Teucri macchinando il danno.
Quantunque al padre fieramente irata
tacque Minerva e non fiatò. Ma l'iral’ira{{R|30}}
non contenne Giunone, e sì rispose:
Acerbo Dio, che parli? A far di tante
armate genti accolta, alla ruïna
di Priamo e de'de’ suoi figli, ho stanchi i miei
immortali corsieri; e tu pretendi{{R|35}}
frustrar la mia fatica, ed involarmi
de'de’ miei sudori il frutto? Eh ben t'appagat’appaga;
ma di noi tutti non sperar l'assensol’assenso.
Feroce Diva, replicò sdegnoso
l'adunatorl’adunator de'de’ nembi, e che ti fêro,{{R|40}}
e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba
voler sempre di Troia il giorno estremo?
La tua rabbia non fia dunque satolla
se non atterri d'Ilïond’Ilïon le porte,
e sull'infrantesull’infrante mura non ti bevi{{R|45}}
del re misero il sangue e de'de’ suoi figli
e di tutti i Troiani? Or su, fa come
più ti talenta, onde fra noi sorgente
d'acerbed’acerbe risse in avvenir non sia
questo dissidio: ma riponi in petto{{R|50}}
le mie parole. Se desìo me pure
prenderà d'atterrard’atterrar qualche a te cara
città, non porre a'a’ miei disdegni inciampo,
e liberi li lascia. A questo patto
Troia io pur t'abbandonot’abbandono, e di mal cuore;{{R|55}}
ché, di quante città contempla in terra
l'occhiol’occhio del sole e dell'etereedell’eteree stelle,
niuna io m'aggiom’aggio più cara ed onorata
come il sacro Ilïone e Priamo e tutta
di Priamo pur la bellicosa gente:{{R|60}}
perocché l'arel’are mie per lor di sacre
opìme dapi abbondano mai sempre,
e di libami e di profumi, onore
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Compose a questo dir la veneranda{{R|65}}
Giuno gli sguardi maestosi, e disse:
Tre cittadi sull'altresull’altre a me son care
Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi
se odiose ti sono. A lor difesa
né man né lingua moverò; ché quando{{R|70}}
pure impedir lo ti volessi, indarno
il tentarlo uscirìa, sendo d'assaid’assai
tu più forte di me. Ma dritto or parmi
che tu vano non renda il mio disegno,
ch'ioch’io pur son nume, e a te comune io traggo{{R|75}}
l'originel’origine divina, io dell'astutodell’astuto
Saturno figlia, e in alto onor locata,
perché nacqui sorella e perché moglie
son del re degli Dei. Facciam noi dunque
l'unl’un dell'altrodell’altro il volere, e il seguiranno{{R|80}}
gli altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva
fra i due commossi eserciti, onde spinga
i Troiani ad offendere primieri,
rotto l'accordol’accordo, i baldanzosi Achei.
Assentì Giove al detto, ed a Minerva,{{R|85}}
Scendi, disse, veloce, e fa che i Teucri
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A Minerva, per sé già desïosa,
sprone aggiunse quel cenno. In un baleno
dall'Olimpodall’Olimpo calò. Quale una stella{{R|90}}
cui portento a'a’ nocchieri o a numerose
schiere d'armatid’armati scintillante e chiara
invìa talvolta di Saturno il figlio;
tale in vista precipita dall'altodall’alto
Minerva in terra, e piantasi nel mezzo.{{R|95}}
Stupîr Teucri ed Achivi all'improvvisaall’improvvisa
visïone, e talun disse al vicino:
Arbitro della guerra oggi vuol Giove
per certo rinnovar fra un campo e l'altrol’altro
l'acerbal’acerba pugna, o confermar la pace.{{R|100}}
La Dea mischiossi tra la folta intanto
delle turbe troiane, e la sembianza
di Laòdoco assunta (un valoroso
d'Antènored’Antènore figliuol) si pose in traccia
del dëiforme Pandaro. Trovollo{{R|105}}
stante in piedi nel mezzo al clipeato
stuolo de'de’ forti che l'aveal’avea seguìto
dalle rive d'Esepod’Esepo. Appropinquossi
a lui la Diva, e disse: Inclito germe
di Licaon, vuoi tu ascoltarmi? Ardisci,{{R|110}}
vibra nel petto a Menelao la punta
d'und’un veloce quadrello. E grazia e lode
te ne verrà dai Dardani e dal prence
Paride in prima, che d'illustrid’illustri doni
colmeratti, vedendo il suo rivale{{R|115}}
montar sul rogo, dal tuo stral trafitto.
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prometti che, tornato al patrio tetto
nella sacra Zelèa, darai di scelti{{R|120}}
primogeniti agnelli un'ecatombeun’ecatombe.
Così disse Minerva, e dello stolto
persuase il pensier. Diè mano ei tosto
al bell'arcobell’arco, già spoglia di lascivo
capro agreste. L'avevaL’aveva egli d'agguatod’agguato,{{R|125}}
mentre dal cavo d'unad’una rupe uscìa,
colto nel petto, e su la rupe steso
resupino. Sorgevano alla belva
lunghe sedici palmi su l'alteral’altera
fronte le corna. Artefice perito{{R|130}}
le polì, le congiunse, e di lucenti
anelli d'orod’oro ne fregiò le cime.
Tese quest'arcoquest’arco, e dolcemente a terra
Pandaro l'adagiòl’adagiò. Dinanzi a lui
protendono le targhe i fidi amici,{{R|135}}
onde assalito dagli Achei non vegna,
pria ch'eglich’egli il marzio Menelao percuota.
Scoperchiò la faretra, ed un alato
intatto strale ne cavò, sorgente
di lagrime infinite. Indi sul nervo{{R|140}}
l'adattandol’adattando promise al licio Apollo
di primonati agnelli un'ecatombeun’ecatombe
ritornato in Zelèa. Tirò di forza
colla cocca la corda, alla mammella
accostò il nervo, all'arcoall’arco il ferro, e fatto{{R|145}}
dei tesi estremi un cerchio, all'improvvisoall’improvviso
l'arcol’arco e il nervo fischiar forte s'udiros’udiro,
e lo strale fuggì desideroso
di volar fra le turbe. Ma non fûro
immemori di te, tradito Atride,{{R|150}}
in quel punto gli Dei. L'armipotenteL’armipotente
figlia di Giove si parò davanti
al mortifero telo, e dal tuo corpo
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tenera madre che dal caro volto{{R|155}}
del bambino che dorme un dolce sonno,
scaccia l'insettol’insetto che gli ronza intorno.
Ella stessa la Dea drizzò lo strale
ove appunto il bel cinto era frenato
dall'aureedall’auree fibbie, e si stendea davanti{{R|160}}
qual secondo torace. Ivi l'acerbol’acerbo
quadrello cadde, e traforando il cinto
nel panzeron s'infisses’infisse e nella piastra
che dalle frecce il corpo gli schermìa.
Questa gli valse allor d'assaid’assai, ma pure{{R|165}}
passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle,
sì che tosto diè sangue la ferita.
Come quando meonia o caria donna
tinge d'ostrod’ostro un avorio, onde fregiarne
di superbo destriero le mascelle;{{R|170}}
molti d'averlod’averlo cavalieri han brama;
ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono
a qualche sire, adornamento e pompa
del cavallo ed in un del cavaliero:
così di sangue imporporossi, Atride,{{R|175}}
la tua bell'ancabell’anca, e per lo stinco all'imoall’imo
calcagno corse la vermiglia riga.
Raccapricciossi a questa vista il rege
Agamennón, raccapricciò lo stesso
marzïal Menelao; ma quando ei vide{{R|180}}
fuor della polpa l'amol’amo dello strale,
gli tornò tosto il core, e si rïebbe.
Per man tenealo intanto Agamennóne,
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sospirando dicea: Caro fratello,{{R|185}}
perché qui morto tu mi fossi, io dunque
giurai l'accordol’accordo, te mettendo solo
per gli Achivi a pugnar contra i Troiani,
contra i Troiani che l'accordol’accordo han rotto,
e a tradimento ti ferîr? Ma vano{{R|190}}
non andrà delle vittime il giurato
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ne pagheranno gli spergiuri il fio.
Tempo verrà (di questo ho certo il core)
ch'Ilioch’Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme
la sua perfida gente. Dall'eccelsoDall’eccelso{{R|200}}
etereo seggio scoterà sovr'essisovr’essi
l'egidal’egida orrenda di Saturno il figlio
di tanta frode irato; e non cadranno
vôti i suoi sdegni. Ma d'immensod’immenso lutto
tu cagion mi sarai, dolce fratello,{{R|205}}
se morte tronca de'de’ tuoi giorni il corso.
Sorgerà negli Achei vivo il desìo
del patrio suolo, e d'ontad’onta carco in Argo
io tornerommi, e lasceremo ai Teucri,
glorïoso trofeo, la tua consorte.{{R|210}}
Putride intanto nell'iliacanell’iliaca terra
l'ossal’ossa tue giaceran, senz'aversenz’aver dato
fine all'impresaall’impresa, e il tumulo del mio
prode fratello un qualche Teucro altero
calpestando, dirà: Possa i suoi sdegni{{R|215}}
satisfar così sempre Agamennóne,
siccome or fece, senza pro guidando
l'argolichel’argoliche falangi a questo lido,
d'onded’onde scornato su le vote navi
alla patria tornò, qui derelitto{{R|220}}
l'illustrel’illustre Menelao. Sì fia ch'eich’ei dica;
e allor mi s'apras’apra sotto i piè la terra.
Ti conforta, rispose il biondo Atride,
co'co’ lamenti spaventar gli Achivi.
In mortal parte non ferì l'acutol’acuto{{R|225}}
dardo: di sopra il ricamato cinto
mi difese, e di sotto la corazza
e questa fascia che di ferrea lama
buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo,
diletto Menelao, l'altrol’altro riprese.{{R|230}}
Intanto tratterà medica mano
la tua ferita, e farmaco porravvi
atto a lenire ogni dolor. - Si volse
all'araldoall’araldo, ciò detto, e, Va, soggiunse,
vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio{{R|235}}
d'Esculapiod’Esculapio, divin medicatore,
Macaon qua ne vegna, e degli Achei
al forte duce Menelao soccorra,
cui di freccia ferì qualche troiano
o licio saettier che sé di gloria,{{R|240}}
noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldol’araldo
tra le falangi achee corse veloce
in traccia dell'eroedell’eroe. Ritto lo vide
fra lo stuolo de'de’ prodi che da Tricca
altrice di corsier l'aveal’avea seguìto:{{R|245}}
appressossi, e con rapide parole,
Vien, gli disse, t'affrettat’affretta, o Macaone;
Agamennón ti chiama: il valoroso
Menelao fu di stral colto da qualche
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va del nostro dolor. Corri, e lo sana.
Al tristo annunzio si commosse il figlio
d'Esculapiod’Esculapio; e veloci attraversando
il largo campo acheo, fur tosto al loco
ove al ferito dëiforme Atride{{R|255}}
facean cerchio i migliori. Incontanente
dal balteo estrasse Macaon lo strale,
di cui curvârsi nell'uscirnell’uscir gli acuti
ami: disciolse ei quindi il vergolato
cinto e il torace colla ferrea fascia{{R|260}}
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succhionne il sangue, e destro la cosparse
dei lenitivi farmaci che al padre,
d'amord’amor pegno, insegnati avea Chirone.
Mentre questi alla cura intenti sono{{R|265}}
del bellicoso Atride, ecco i Troiani
marciar di nuovo con gli scudi al petto,
e di nuovo gli Achei l'armil’armi vestire
di battaglia bramosi. Allor vedevi
non assonnarsi, non dubbiar, né pugna{{R|270}}
schivar l'illustrel’illustre Agamennón; ma ratto
volar nel campo della gloria. Il carro
e i fervidi destrier tratti in disparte
lascia all'aurigaall’auriga Eurimedonte, figlio
del Piraìde Tolomèo; gl'imponegl’impone{{R|275}}
di seguirlo vicin, mentre pel campo
ordinando le turbe egli s'aggiras’aggira,
onde accorrergli pronto ove stanchezza
gli occupasse le membra. Egli pedone
scorre intanto le file, e quanti all'armiall’armi{{R|280}}
affrettarsi ne vede, ei colla voce
fortemente gl'incuoragl’incuora, e grida: Argivi,
niun rallenti le forze: il giusto Giove
bugiardi non aiuta: chi primiero
l'accordol’accordo vïolò, pasto vedrassi{{R|285}}
di voraci avoltoi, mentre captive
le dilette lor mogli in un co'co’ figli
noi nosco condurremo, Ilio distrutto.
Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi
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allibiti al pugnar vi sottraete.
Aspettate voi forse che il nemico
alla spiaggia s'accostis’accosti ove ritratte
stan sul secco le prore, onde si vegga{{R|300}}
se Giove allor vi stenderà la mano?
Così imperando trascorrea le schiere.
Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armiall’armi
davan di piglio intorno al bellicoso
Idomenèo. Per vigorìa di forze{{R|305}}
pari a fiero cinghiale Idomenèo
guidava l'antiguardial’antiguardia, e Merïone
la retroguardia. Del vederli allegro
il sir de'de’ forti Atride al re cretese
con questo dolce favellar si volse:{{R|310}}
Idomenèo, te sopra i Dànai tutti
cavalieri veloci in pregio io tegno,
sia nella guerra, sia nell'altrenell’altre imprese,
sia ne'ne’ conviti, allor che ne'ne’ crateri
d'almod’almo antico lïeo versan la spuma{{R|315}}
i supremi tra'tra’ Greci. Ove degli altri
chiomati Achivi misurato è il nappo,
il tuo del par che il mio sempre trabocca,
quando ti prende di bombar la voglia.
Or entra nella pugna, e tal ti mostra{{R|320}}
qual dianzi ti vantasti. - E de'de’ Cretensi
a lui lo duce: Atride, io qual già pria
t'impromisit’impromisi e giurai, fido compagno
per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma
gli altri Achivi a pugnar senza dimora.{{R|325}}
Rupper l'accordol’accordo i Teucri, e perché primi
del patto vïolâr la santitate,
sul lor capo cadran morti e ruïne.
Disse; e gioioso proseguì l'Atridel’Atride
fra le caterve la rivista, e venne{{R|330}}
degli Aiaci alla squadra. In tutto punto
metteansi questi, e li seguìa di fanti
un nugolo. Siccome allor che scopre
d'altod’alto loco il pastor nube che spinta
su per l'ondel’onde da Cauro s'avvicinas’avvicina,{{R|335}}
e bruna più che pece il mar vïaggia,
grave il seno di nembi; inorridito
ei la guarda, ed affretta alla spelonca
le pecorelle; così negre ed orride
per gli scudi e per l'astel’aste si moveano{{R|340}}
sotto gli Aiaci accolte le falangi
de'de’ giovani veloci al rio conflitto.
Allegrossi a tal vista Agamennóne,
e a'a’ lor duci converso in presti accenti,
Aiaci, ei disse, condottieri egregi{{R|345}}
de'de’ loricati Achivi, io non v'esortov’esorto,
(ciò fôra oltraggio) a inanimar le vostre
schiere; già per voi stessi a fortemente
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Così detto lasciolli, e procedendo
a Nestore arrivò, Nestore arguto{{R|355}}
de'de’ Pilii arringator, che in ordinanza
i suoi prodi metteva, e alla battaglia
li concitava. Stavangli dintorno
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confusamente nella folla. - Alcuno{{R|370}}
non sia, soggiunse, che in suo cor fidando
e nell'equestrenell’equestre maestrìa, s'attentis’attenti
solo i Teucri affrontar di schiera uscito:
né sia chi retroceda; ché cedendo
si sgagliarda il soldato. Ognun che sceso{{R|375}}
dal proprio carro l'ostill’ostil carro assalga,
coll'astacoll’asta bassa investalo, ché meglio
sì pugnando gli torna. Con quest'artequest’arte,
con questa mente e questo ardir nel petto
le città rovesciâr gli antichi eroi.{{R|380}}
Il canuto così mastro di guerra
le sue genti animava. In lui fissando
gli occhi l'Atridel’Atride, giubilonne, e tosto
queste parole gli drizzò: Buon veglio,
oh t'avessit’avessi tu salde le ginocchia{{R|385}}
e saldi i polsi come hai saldo il core!
La ria vecchiezza, che a null'uomnull’uom perdona,
ti logora le forze: ah perché d'altrod’altro
guerrier non grava la crudel le spalle!
perché de'de’ tuoi begli anni è morto il fiore!{{R|390}}
Ed il gerenio cavalier rispose:
Atride, al certo bramerei pur io
quelle forze ch'ioch’io m'ebbim’ebbi il dì che morte
diedi all'illustreall’illustre Ereutalion. Ma tutti
tutto ad un tempo non comparte Giove{{R|395}}
i suoi doni al mortal. Rideami allora
gioventude: or mi doma empia vecchiezza.
Ma qual pur sono mi starò nel mezzo
de'de’ cavalieri nella pugna, e gli altri
gioverò di parole e di consiglio,{{R|400}}
ché questo è officio de'de’ provetti. Dêssi
lasciar dell'astedell’aste il tiro ai giovinetti
di me più destri e nel vigor securi.
Disse; e lieto l'Atridel’Atride oltrepassando
venne al Petìde Menestèo, perito{{R|405}}
di cocchi guidator, ritto nel mezzo
de'de’ suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto
lo scaltro Ulisse colle forti schiere
de'de’ Cefaleni, che non anco udito
di guerra il grido avean, poiché le teucre{{R|410}}
e l'argivel’argive falangi allora allora
cominciavan le mosse: e questi in posa
aspettavan che stuolo altro d'Acheid’Achei
impeto fêsse ne'ne’ Troiani il primo,
e ingaggiasse battaglia. In quello stato{{R|415}}
li sorprese l'Atridel’Atride; e corruccioso
fe'fe’ dal labbro volar questa rampogna:
Petìde Menestèo, figlio non degno
d'und’un alunno di Giove, e tu d'ingannid’inganni
astuto fabbro, a che tremanti state{{R|420}}
gli altri aspettando, e separati? A voi
entrar conviensi nella mischia i primi,
perché primi io vi chiamo anche ai conviti
ch'aich’ai primati imbandiscono gli Achei.
Ivi il saìme saporar vi giova{{R|425}}
delle carni arrostite, e a piena gola
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nelle dardanie file antesignane
di Telemaco il padre. Or cianci al vento.
Veduto il cruccio dell'eroedell’eroe, sorrise
l'Atridel’Atride, e dolce ripigliò: Divino{{R|440}}
di Laerte figliuol, sagace Ulisse,
né sgridarti vogl'iovogl’io, né comandarti
fuor di stagione, ch'ioch’io ben so che in petto
volgi pensieri generosi, e senti
ciò ch'ioch’io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'oras’ora{{R|445}}
dal labbro mi fuggì cosa mal detta,
ripareremla in altro tempo. Intanto
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le scampe della pugna? Ah! non solea
così Tidèo tremar; ma precorrendo
d'assaid’assai gli amici, co'co’ nemici ei primo{{R|460}}
s'azzuffavas’azzuffava. Ciascun che ne'ne’ guerrieri
travagli il vide, lo racconta. In vero
né compagno io gli fui né testimone,
ma udii che ogni altro di valore ei vinse.
Ben coll'illustrecoll’illustre Polinice un tempo{{R|465}}
senz'armatisenz’armati in Micene ospite ei venne,
onde far gente che alle sacre mura
li seguisse di Tebe, a cui già mossa
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quantunque estrano e solo, il cavaliero{{R|480}}
senza punto temer tutti sfidolli
al paragon dell'armidell’armi, e tutti ei vinse,
col favor di Minerva. Irati i vinti
di cinquanta guerrieri, al suo ritorno,
gli posero un agguato. Eran lor duci{{R|485}}
l'Emonidel’Emonide Meone, uom d'almod’almo aspetto,
e d'Autofanod’Autofano il figlio Licofonte,
intrepido campion. Tidèo gli uccise
tutti, ed un solo per voler de'de’ numi,
il sol Meone rimandonne a Tebe.{{R|490}}
Tal fu l'etòlol’etòlo eroe, padre di prole
miglior di lingua, ma minor di fatti.
Non rispose all'acerboall’acerbo il valoroso
Tidìde, e rispettò del venerando
rege il rabbuffo; ma rispose il figlio{{R|495}}
del chiaro Capanèo, dicendo: Atride,
non mentir quando t'èt’è palese il vero.
Migliori assai de'de’ nostri padri a dritto
noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette
porte espugnammo: e nondimen più scarsi{{R|500}}
eran gli armati che guidammo al sacro
muro di Marte, ne'ne’ divini auspìci
fidando e in Giove. Per l'oppostol’opposto quelli
peccâr d'insanod’insano ardire e vi periro.
Non pormi adunque in onor pari i padri.{{R|505}}
Gli volse un guardo di traverso il forte
Tidìde, e ripigliò: T'acchetaT’accheta, amico,
ed obbedisci al mio parlar. Non io,
se il re supremo Agamennóne istiga
Riga 538:
Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.{{R|515}}
Orrendamente risonâr sul petto
l'armil’armi al re concitato, a tal che preso
n'avrìan’avrìa spavento ogni più fermo core.
Siccome quando al risonante lido,
di Ponente al soffiar, l'unol’uno sull'altrosull’altro{{R|520}}
del mar si spinge il flutto; e prima in alto
gonfiasi, e poscia su la sponda rotto
orribilmente freme, e intorno agli erti
scogli s'arriccias’arriccia, li sormonta, e in larghi
sprazzi diffonde la canuta spuma:{{R|525}}
incessanti così l'unal’una su l'altral’altra
movon l'acheel’achee falangi alla battaglia
sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba
marcia sì cheta, che di voce priva
la diresti al vederla; e riverenza{{R|530}}
era de'de’ duci quel silenzio; e l'armil’armi
di varia guisa, di che gìan vestiti
tutti in ischiera, li cingean di lampi.
Ma simiglianti i Teucri a numeroso
gregge che dentro il pecoril di ricco{{R|535}}
padron, nell'oranell’ora che si spreme il latte,
s'ammucchianos’ammucchiano, e al belar de'de’ cari agnelli
rispondono belando alla dirotta;
così per l'ampiol’ampio esercito un confuso
mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno{{R|540}}
era di tutti il grido né la voce,
Riga 572:
poi mette il capo tra le stelle, e immensa
passeggia su la terra. Essa per mezzo{{R|550}}
alle turbe scorrendo, e de'de’ mortali
addoppiando gli affanni, in ambedue
le bande sparse una rabbiosa lite.
Poiché l'unl’un campo e l'altrol’altro in un sol luogo
convenne, e si scontrâr l'astel’aste e gli scudi,{{R|555}}
e il furor de'de’ guerrieri, scintillanti
ne'ne’ risonanti usberghi, e delle colme
targhe già il cozzo si sentìa, levossi
un orrendo tumulto. Iva confuso
Riga 585:
Qual due torrenti che di largo sbocco
devolvonsi dai monti, e nella valle
per lo concavo sen d'unad’una vorago
confondono le gonfie onde veloci:{{R|565}}
n'oden’ode il fragor da lungi in cima al balzo
l'atterritol’atterrito pastor: tal dai commisti
eserciti sorgea fracasso e tema.
Primo Antiloco uccise un valoroso
Teucro, alle mani nelle prime file,{{R|570}}
il Taliside Echèpolo, il ferendo
nel cono del chiomato elmo: s'infisses’infisse
la ferrea punta nella fronte, e l'ossol’osso
trapanò: s'abbuiârs’abbuiâr gli occhi al meschino,
che strepitoso cadde come torre.{{R|575}}
Ghermì pe'pe’ piedi quel caduto il prence
de'de’ magnanimi Abanti Elefenorre
figliuol di Calcodonte, e desïoso
di spogliarlo dell'armidell’armi, lo traea
fuor della mischia: ma fallì la brama;{{R|580}}
ché mentre il morto ei dietro si strascina,
Riga 606:
offrìa nudati di pavese i fianchi,
tale un colpo assestò, che gli disciolse
le forze, e l'almal’alma abbandonollo. Allora{{R|585}}
tra i Troiani e gli Achei surse una fiera
zuffa sovr'essosovr’esso: s'affrontârs’affrontâr quai lupi,
e in mutua strage si metteano a morte.
Qui fu che Aiace Telamonio il figlio
d'Antemiond’Antemion percosse il giovinetto{{R|590}}
Simoesio, cui scesa dall'Ideedall’Idee
cime la madre partorì sul margo
del Simoenta, un giorno ivi venuta
co'co’ genitori a visitar la greggia;
e Simoesio lo nomâr dal fiume.{{R|595}}
Misero! Ché dei presi in educarlo
dolci pensieri ai genitor diletti
rendere il merto non poteo: la lancia
d'Aiaced’Aiace il colse, e il viver suo fe'fe’ breve.
Al primo scontro lo colpì nel petto{{R|600}}
su la destra mammella, e la ferrata
Riga 626:
Cadde il garzone nella polve a guisa
di liscio pioppo su la sponda nato
d'acquidosad’acquidosa palude: a lui de'de’ rami{{R|605}}
già la pompa crescea, quando repente
colla fulgida scure lo recise
Riga 633:
onde poscia foggiarne di bel cocchio{{R|610}}
le volubili rote: così giacque
l'Antemidel’Antemide trafitto Simoesio,
e tale dispogliollo il grande Aiace.
Contro Aiace l'acutal’acuta asta diresse
d'infrad’infra le turbe allor di Priamo il figlio{{R|615}}
Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse
nell'inguinenell’inguine il fedel d'Ulissed’Ulisse amico
Leuco che già di Simoesio altrove
traea la salma; e accanto al corpo esangue,
che di man gli cadea, cadde egli pure.{{R|620}}
Forte adirato dell'uccisodell’ucciso amico
si spinse Ulisse tra gl'innanzigl’innanzi, tutto
scintillante di ferro, e più dappresso
facendosi, e dintorno il guardo attento
rivolgendo, librò l'astal’asta lucente.{{R|625}}
Si misero a quell'attoquell’atto in guardia i Teucri,
e lo cansâr; ma quegli il telo a vôto
non sospinse, e ferì Democoonte,
Priamide bastardo che d'Abidod’Abido
con veloci puledre era venuto.{{R|630}}
A costui fulminò l'iratol’irato Ulisse
nelle tempie la lancia; e trapassolle
la ferrea punta. Tenebrârsi i lumi
al trafitto che cadde fragoroso,
e cupo gli tonâr l'armil’armi sul petto.{{R|635}}
Rinculò de'de’ Troiani, al suo cadere,
la fronte, rinculò lo stesso Ettorre;
dier gli Argivi alte grida, ed occupati
i corpi uccisi, s'avanzârs’avanzâr di punta.
Dalla rocca di Pergamo mirolli{{R|640}}
sdegnato Apollo, e rincorando i Teucri
con gran voce gridò: Fermo tenete,
valorosi Troiani, ed agli Achei
non cedete l'onorl’onor di questa pugna,
ché né pietra né ferro è la lor pelle{{R|645}}
da rintuzzar delle vostr'armivostr’armi il taglio.
Non combatte qui, no, della leggiadra
Tétide il figlio: non temete; Achille
stassi alle navi a digerir la bile.
Così dall'altodall’alto della rocca il Dio{{R|650}}
terribile sclamò. Ma la feroce
Palla, di Giove glorïosa figlia,
discorrendo le file inanimava
gli Achivi, ovunque li vedea rimessi.
Qui la Parca allacciò l'Amarancìdel’Amarancìde{{R|655}}
Dïore. Un'aspraUn’aspra e quanto cape il pugno
grossa pietra il percosse alla diritta
tibia presso il tallone, e feritore
fu l'Imbrasidel’Imbraside Piro che de'de’ Traci
condottiero dall'Enodall’Eno era venuto.{{R|660}}
Franse ambidue li nervi e la caviglia
l'improbol’improbo sasso, ed ei cadde supino
nella sabbia, e mal vivo ambo le mani
ai compagni stendea. Sopra gli corse
il percussore, e l'astal’asta in mezzo all'epaall’epa{{R|665}}
gli cacciò. Si versâr tutte per terra
le intestina, e mortale ombra il coperse.
All'irruenteAll’irruente Piro allor l'Etòlol’Etòlo
Toante si rivolge; e lui nel petto
con la lancia ferendo alla mammella{{R|670}}
nel polmon gliela ficca. Indi appressato
gliela sconficca dalla piaga; e in pugno
stretta l'acutal’acuta spada glie l'immersel’immerse
nella ventraia, e gli rapìo la vita;
l'armil’armi non già, ché intorno al morto Piro{{R|675}}
colle lungh'astelungh’aste in pugno irti di ciuffi
affollârsi i suoi Traci, e il chiaro Etòlo,
benché grande e gagliardo, allontanaro
sì che a forza respinto si ritrasse.
Così l'unol’uno appo l'altrol’altro nella polve{{R|680}}
giacquero i due campioni, il tracio duce,
e il duce degli Epei. Dintorno a questi
molt'altrimolt’altri prodi ritrovâr la morte.
Chi da ferite illeso, e da Minerva
per man guidato, e preservato il petto{{R|685}}