Senso/Il demonio muto/1: differenze tra le versioni

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Nipote mio, ho compiuto quest'oggi i miei novant'anni, e ho fatto il mio testamento. Lascio quasi tutti i miei soldi, circa un centinaio di mila lire, a tua sorella Maria, che ha sette figliuoli ed è vedova, con il patto di passare tremila lire l'anno alla mia buona Menica, la quale è troppo vecchia e stanca per attendere agli affari. Vero è che la mia buona Menica mi fa arrabbiare tutte le sante sere. Non vuole andare a letto prima di me, per quanto io la preghi e scongiuri; e mentre scrivo al lume di questa lucerna e ne smoccolo i lucignoli, ecco lì la tua zia, dall'altra parte di questa tavola, che dorme col gatto nero sulle ginocchia. Da mezzo secolo si fa la stessa vita placida e dolce e tanto rapida che le settimane volano come giorni; e la mia cara vecchietta tutta linda, con la sua cuffia bianca inamidata, quando si sveglia e, alzando il capo, fissa a un tratto gli occhi ne' miei, e mi chiama: - Carlo! - mi fa ribollire nelle vene un sangue da giovinotto.
Ho trovato, nipote mio, quel che ti devo lasciare. È una cosa che mi salvò quasi la vita.
 
Per conto tuo non hai bisogno di nulla. Sei solo, agiato e non avido. Ma sai che, sebbene io non ti veda troppo di rado in queste montagne, pure ho sempre sentito un grande affetto per te, e lo meriti; e mi rincrescerebbe che, quando sarò volato via da questa terra, tu non avessi nessuna occasione di rammentarti dell'antico parente. Da parecchi giorni vado dunque intorno in questa casa mezzo diroccata per trovare un oggetto che possa non dispiacerti. Ma ogni cosa è logora, sbeccucciata, sbiadita, sconnessa: corrisponde insomma ai capelli canuti ed alle rughe dei padroni. Da trent'anni non sono neanche più andato a Brescia: si può dire ch'io non abbia più comperato nulla. Le cose più belle in questo polveroso palazzo, dove le finestre mostrano ancora i loro vetri tondi, ondulati dal centro alla periferia, come fa un sasso quando si butta nell'acqua, dove i pavimenti paiono un mare in burrasca, sono le cose più vecchie. Sai che ho quattro di quelle casse di legno intagliato, che si mettevano a' piedi del letto degli sposi, tutte a putti che giuocano, ad amorini alati, a ninfe nude; e vi stanno gli antichi stemmi della nostra famiglia. Poi ho dei seggioloni enormi a grossi fogliami nei bracciuoli e nella spalliera, che punzecchiano le mani e la schiena, e certe lettiere spropositate a colonne ed a timpani, che paiono monumenti sepolcrali. Poi ho quegli otto grandissimi ritratti nelle loro massicce cornici d'un oro diventato nero: memoria dei nostri augusti antenati, che Dio li abbia in gloria: quei ritratti che, quando da bambino venivi qui a passare i mesi delle vacanze, ora ti facevano ridere ed ora ti mettevano paura.
Prima che tu nascessi, i medici di Brescia e di Milano mi avevano spacciato. Una maledetta malattia nervosa del ventricolo s'era ostinata a volermi spingere al mondo di là, ed ero ridotto, per tutto pasto, a nutrirmi di pezzettini di cacio lodigiano che tenevo in bocca, e di cui a poco a poco succhiavo la sostanza. Pigliai questo malanno, il primo e l'ultimo della mia vita, cacciando nelle valli, quando, dopo avere mal dormito qualche ora in un casolare, alle tre della notte mi alzavo, camminavo fino alle sei in cerca del miglior sito della palude, con il freschetto del dicembre o del gennaio ed una sottile umidità che entrava nelle ossa, e poi dall'alba al tramonto mi piantavo immobile nell'acqua e nella nebbia ad aspettare una folaga, la quale molto spesso non voleva mostrarsi. Mi scordavo di mangiare. Bevevo, io che sono sempre stato mezzo astemio, de' larghi sorsi di acquavite. Vedi bestia che è l'uomo! Amando le montagne e le balze, cacciarsi con tanta fatica e con sì misero fine dentro ai pantani! Tornavo a casa, dopo qualche giorno, affranto, sfinito. La Menica mi dava brodi, petti di pollo, latte di gallina, vino vecchio e il suo sorriso tutta bontà; ma io non avevo fame e digerivo male. Pensa che malinconia m'era venuta addosso!
 
La dama, ti ricordi? con il guardinfante verdone e con una piramide rossa per acconciatura, che pare una bottiglia sigillata; il cavaliero con il grande cappellaccio alla spagnuola, il tabarro bruno, la mano sull'elsa e l'occhio truce, e poi il Beato Antonio, il santo Missionario, il grande onore della Val Trompia, che ti faceva scappar via. È pallido come un fantasma, magro stecchito, con gli occhi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare il sangue.
Non potevo uscire di camera: andavo dal letto al lettuccio. Se per caso giravo gli occhi allo specchio, vedendo un coso allampanato con le guance smunte, gli occhi spenti, il quale non somigliava affatto al mio signor io, non sapevo vincere l'ombra di un tristissimo sorriso, che mi correva sulle labbra e si trasmutava tosto in due lagrime lente. Da quindici giorni, all'aprirsi della primavera, mangiavo, non ostante, un pochino di più, dicevo qualche parola volentieri, cavavo qualche accordo flebile con meno stento dalla mia amata chitarra, la quale mi stava accanto sul sofà o sul letto. Quand'ecco a un tratto, una sera, mi sento esinanire. La Menica si spaventa. Era un gran pezzo ch'ella non dormiva sotto le coltri, non andava nel brolo a respirare una boccata d'aria, non faceva altro che starmi intorno sollecita, sempre attenta ad un'allegria fiduciosa e serena, che non le veniva dal cuore, ma che ella simulava virtuosamente per il suo povero infermo. Ell'aveva pensato fino allora al mio corpo: pensò in quel punto alla mia anima.
 
In mano ha due cilicii spaventosi, l'uno a scudiscio pieno di terribili punte, l'altro a ruote dentate. Mi raccontava Giovanni (sai? devo avertene parlato, il servitore che in gioventù assisteva il Beato Antonio, quand'era infermo, e da vecchio aveva cura di me e mi conduceva alla scuola) Giovanni mi raccontava, ed io tremavo di spavento, che una mattina, essendo entrato all'improvviso nella nuda camera del Santo, vide in un angolo una camicia, che stava in piedi da sé sola e ch'era di color pavonazzo. Guarda, tocca: il sangue, di cui appariva inzuppata, raggrumandosi e indurando, aveva ridotto la tela rigida come un legno.
Mezz'ora dopo entrò il curato e, sottovoce, mi chiese s'io volessi confessarmi. Gli occhi della Menica m'imploravano. La camera era buia, silenziosa, sepolcrale. Mi confessai a spizzico, quasi senza fiato; ma non fu cosa lunga, poiché non credo in mia vita di avere mai desiderato male a nessuno. Toccai la mano alla mia buona infermiera, che mi ringraziò con effusione angelica e mi baciò sulla fronte.
 
Don Antonio aveva le mani così scarne e le dita così slogate, che con le unghie poteva toccar l'avambraccio. Era un miracolo di eloquenza, un miracolo di abnegazione. Parlava a dodici a quattordicimila persone, che correvano a udirlo dalle valli, dai monti lontani, e si faceva sentire da tutti. Eppure, se tu vai a Brescia, puoi vedere nella chiesa di San Filippo, appesa all'altare del Santo, una lingua d'argento, voto di Don Antonio, quando per intercessione di Filippo Neri guarì dalla balbuzie. A Roma, poco prima di morire, predicando nella chiesa del Gesù, fece piangere il Papa. Aveva per consuetudine, ne' siti dove egli andava, di parlare contro i vizii che più dominavano in paese. A Desenzano tuonò contro l'ubbriachezza. Il dì dopo tutte le osterie, tutte quante le bettole erano chiuse, e l'Autorità dovette farne aprire alcune per forza a servizio dei forestieri. All'ultimo sermone non voleva altro che i miserabili: era la predica sulla ''Povertà''. Dopo avere mostrato la vanità delle ricchezze, dopo avere eccitato gli animi al disprezzo degli agi, chiamava ad uno ad uno i suoi ascoltatori, e divideva con essi tutto intiero il guadagno del Quaresimale e i pochi panni che gli restavano.
Mi sentivo sollevato. Il prete stava sempre in piedi a sinistra del letto, duro duro, brontolando le sue preghiere. Negl'infermi le impressioni son rapide come il lampo. Guardai fisso il volto del prete, e nell'osservarlo provai dentro un irrefrenabile impeto di riso.
 
Senti questa. Giovanni stava dietro al pulpito, mentre Don Antonio predicava un dì sull'''Inferno''. Dopo una pausa, il Beato Antonio con voce rimbombante grida: - Pentitevi, figliuoli, tornate nella via della virtù; giacché per voi, o perversi, che continuate a vivere nel peccato, che state duri nel vizio, i sepolcri - e gridava sempre più alto, come ispirato dal cielo - i sepolcri si spalancheranno, e, precipitando sulle ossa degli antichi scheletri, nella notte e nel gelo, sarete a poco a poco rosicchiati vivi dai vermi -. Allora Giovanni udì come un fruscìo, un muoversi improvviso, ma sordo, lamenti soffocati, singhiozzi repressi. Guarda dal parapetto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco - diceva Giovanni tabaccone - non avrebbe potuto cadere in terra, vede il pavimento nudo in larghi spazii, vede scoperte di popolo tutte le grandi lapidi delle tombe. La gente, spaventata dalle parole del Missionario, s'era ritirata dai sepolcri, e, sempre in ginocchio, piangendo e picchiandosi il petto, si pigiava, si schiacciava, si accatastava a gruppi, e implorava sotto voce il perdono di Dio.
Bisogna che tu sappia come quel curato, uomo di mezza età, rubicondo, tarchiato, panciuto, ottimo di cuore, ma un po' beone e mangiatore insaziabile, era il più gioviale matto di questa terra. Cantava certe canzonette da fare sbellicare dalle risa, faceva certi giuochi di prestigio con i bussolotti da maravigliare un mago, scriveva sonetti buffoneschi, imitava con la sola varietà dei fischi la predica del Vescovo biascicone e con la sola varietà delle inflessioni di voce tutte le lingue, compresa la turca; faceva dietro una tela bianca le ombre chinesi con le mani, figurando cigni, lepri, porci, elefanti, gatti e una pantomima di burattini, in cui Arlecchino era innamorato di Rosaura e bastonava Pantalone; finalmente con la faccia rappresentava il temporale, agitando ora lenti, ora impetuosi tutti i muscoli delle gote, del naso, della bocca, del fronte, persino le orecchie, così che pareva proprio di vedere i primi lampi, di sentire il rombo dei primi tuoni, e poi via via crescere la tempesta e scrosciare la pioggia e scoppiare le folgori, finché un po' alla volta, con qualche ritorno di vento e d'acqua, la bufera si dileguava e, rinata la calma, tornava a splendere la viva luce del giorno. Tu avessi visto come a questo punto il viso del prete sbocciava, come s'irradiava, come brillava: era il sole tale e quale.
 
Di questi ritratti neri e di questi mobili tarlati tu non sapresti che cosa fare.
Il gaio curato veniva, prima della mia malattia, tutte le domeniche a desinare da noi, e di quando in quando, bevuta una bottiglia di quel vecchio, ci dava lo spettacolo esilarante del suo temporale. Ora, al vedere il muso tondo, comicamente solenne, a cui neanche l'aspetto della morte avrebbe potuto cancellare l'impronta della giovialità, borbottare le orazioni fra i denti agitando le labbra, battendo le ciglia ed increspando la fronte, mi tornò alla memoria il temporale, e scoppiai in una fragorosa e interminabile risata. Il prete, che era lesto di cervello, capì in un attimo la ragione delle mie risa e, scordando il suo ministero, non potendosi più tenere cominciò a sghignazzare a crepapelle. La Menica e la serva, che erano presenti, ci credettero impazziti; ma, giacché il riso è contagioso ed il prete riesciva tanto bizzarro nei suoi contorcimenti, si misero a ridere anch'esse. La solennità dell'olio santo s'era trasformata così in una farsetta da carnevale.
 
Qui invece stanno bene, così impietriti al loro posto. Dopo tanti anni che le pareti, le masserizie, i quadri si guardano, e forse nel loro linguaggio si parlano sommessamente, lo strappare qualcosa parrebbe un'amputazione, sarebbe una crudeltà. Quando i figliuoli di tua sorella, diventati forti giovinotti, vorranno passare alcune settimane cacciando sui monti, uccellando nelle valli o pescando le trote rosee nel lago d'Idro o nel Chiese, troveranno intatta l'antichità di questo palazzaccio. Si scalderanno al fuoco del caminone di marmo giallo, in cui dodici uomini possono stare comodamente seduti; guarderanno i soffitti a travature sagomate e dipinte, e cammineranno su e giù nella galleria dove, tra gli stucchi sgretolati, il vento gavazza. Tu sentissi che musiche sa comporre il vento in queste gole alpestri e in queste muraglie rovinose: sono tripudii o spaventi, fischii lieti e trilli e scale e accordi sonori e poi il finimondo, e sempre continua il pedale, come dicono gli organisti, del romore sinistro, che le acque del Chiese fanno nel loro letto sassoso ed erto.
Allora io pigliai da lato la mia chitarra e cominciai gli accordi, e il prete intonò una canzone delle sue più sguaiate; ed egli cantava con pazza gioia ed io accompagnavo con tanto felice ardore, che mi pareva di essere il dio della contentezza. Ma la saggia Menica mi fece smettere per forza, e mandò via il curato bislacco, che si sentiva ridere ancora sulle scale e in istrada di questo suo penitente mezzo morto, resuscitato.
 
Il dì seguente mi svegliai con un rabbioso appetito. Due giorni dopo giravo tutta la casa; quattro giorni appresso andavo nel brolo e nel paese, e, passata una settimana, mi arrampicavo sui monti e avrei mangiato i gusci delle ostriche.
 
La mia guarigione fu cominciata dalle smorfie del prete, ma fu compiuta dalla chitarra. Tu non puoi pensare quale beatitudine fosse la mia nel potere di nuovo agitare fieramente le corde di quello strumento, che amo sin da fanciullo, e che mi è sempre stato una grande consolazione nelle traversìe della vita giovanile e ne' piccoli fastidii della vecchiaia.
 
Tu mi hai sentito suonare. Sono un buon chitarrista, non è vero? Ho le mie ambizioncelle anch'io, caro nipote. Quando andavo sotto il balcone della Menica, settant'anni addietro, e suonavo dolce dolce un minuetto del Monteverde, la gente stava ad ascoltarmi a bocca aperta, e il cuore batteva forte alla mia fidanzata, che mi scoccava dalle imposte socchiuse delle occhiate assassine.
 
Adesso ancora mi diverto a cercare nelle antiche melodie le antiche memorie. Vado nella cappella del palazzo, che è, come tu sai, all'angolo della galleria, ed ha l'altare tutto di legno ad angeli paffuti e a cartocci barocchi, i quali mostrano ne' luoghi più riposti i segni delle scomparse dorature: e vi sono i vetri a figure colorate, qua e là rotti e restaurati con pezzi di vetri bianchi, sicché ad un Santo manca la testa, all'altro un braccio o una gamba: e non ostante la chiesetta ha qualcosa di severo e di sacro nella sua mezza oscurità. Non c'è neanche un quadro; le pareti son nude; solo da una parte si vede appesa ad un chiodo la mia chitarra, che è quasi una reliquia. Stacco lo strumento, e, salendo dallo scalone interno, quello scalone lungo e diritto, che ha i suoi dugento gradini tutti sconnessi, vado pian piano nel giardino alto, da cui si domina il villaggio e la valle, e mi metto a sedere sui graticci, i quali, servendo solo per i bachi da seta, restano quasi tutto l'anno accatastati nel padiglione delle feste. Questo magazzino, gioia dei topi e dei ragni, era una piccola reggia tre secoli addietro. I nostri antenati vi godevano le loro orgie, che non invidio: donne, balli, buffoni, cene, le quali non terminavano prima dell'alba e lasciavano uomini e femmine arrotolati per terra. Col vino scorreva qualche volta il sangue. I muri portano ancora, quasi cancellati dal tempo, i nomi ed i motti di qualcuno dei violenti e gaudenti cavalieri. V'è, tra le altre, sotto al disegno rozzo di un cuore trafitto, l'impresa: ''Dopo il bacio il pugnale''.
 
Così, seduto al fresco ne' bei giorni d'estate, strappo alle corde i miei vecchi ricordi in questi ultimi anni, che sono i più tranquilli e i più lieti della mia vita. Lascio morire flebilmente le armonie sotto la vòlta della sala, seguendo attentissimo con l'orecchio le ultime oscillazioni, che si dileguano nel brontolìo lontano del Chiese. Poi, sentendomi ringalluzzito, picchio forte su tutte quante le corde e comincio un allegro amoroso, una gavotta saltellante; ma pur troppo la mia mano sinistra ha perduto un poco di agilità, e la mia destra è scemata un poco di vigore. Oggi son più valente negli adagi, nelle ariette patetiche: ai vecchi s'addice meglio il rimpianto.
 
La mia chitarra ha cinque corde doppie; sale dal ''la'' al ''mi'', due ottave e mezzo. È uno strumento ammirabile per la sonorità e l'eleganza. La rosa, intagliata a minuti intrecci e trafori di cerchi, di triangoli, di foglioline, pare un'opera in filigrana. Il manico, intarsiato di avorio e di ebano con dei filetti d'oro, rappresenta una caccia in figure alte un'oncia: cavalcatori, dame, falconieri, con cani, cavrioli, lepri, cignali e ogni sorta di selvaggina.
 
Al basso della cassa armonica s'ammira poi una figuretta d'argento, un Apollo sdraiato che suona la cetra, cosa che più graziosa al mondo non si potrebbe vedere. Oltre a ciò, accomodate in vago ornamento, stanno un centinaio di perle, alcune assai grosse, e così bene incastonate, che sette soltanto si sono rotte o perdute. Insomma questa chitarra magnifica desidero, dopo la mia morte, lasciarla al mio caro nipote. Fors'è un'ubbia dello zio quasi rimbambito, ma non vorrei che la chitarra uscisse dalla nostra famiglia. C'è sotto una storiella. Te la racconterò, prima perché giova che tu la sappia, e poi per amore di me medesimo. Non posso dormire, come accade ai vecchioni, più di due o tre ore la notte, e ho gli occhi sani, e non cavo troppo gusto a leggere libri per cagione della memoria, che mi serve benissimo nelle cose lontane, ma pochissimo nelle vicine, sicché alla fine di un volume rischio di non rammentarmi il principio. Bisogna dunque ch'io metta un poco di nero sul bianco per occupar la sera in qualcosa, mentre la Menica, tenendo in grembo il suo micio, pisola nel seggiolone.
 
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