Eneide (Caro)/Libro undecimo: differenze tra le versioni

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{{opera
Sono un ragazzo di 30 anni, moro, alto 1.75, muscoloso, con un po' di pancetta e molto peloso. Sono amante del cazzo in tutte le sue forme. Spesso ho vissuto esperienze occasionali molto eccitanti.
|NomeCognome=Publio Virgilio Marone
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Passò la notte intanto, e già dal mare<br />
sorgea l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,<br />
l'officio e la pietà piú lo stringesse<br />
a seppellire i suoi, quantunque offeso<br />
da tante morti il cor funesto avesse;<br />
tosto che 'l sole apparve, il vóto sciolse<br />
de la vittoria. E sovra un picciol colle<br />
tronca de' rami una gran quercia eresse;<br />
de l'armi la rinvolse, e de le spoglie<br />
l'adornò di Mezenzio, e per trofeo<br />
a te, gran Marte, dedicolla. In cima<br />
l'elmo vi pose, e 'n su l'elmo il cimiero,<br />
ancor di polve e d'atro sangue asperso.<br />
L'aste d'intorno attraversate e rotte<br />
stavan quai secchi rami; e 'l tronco in mezzo<br />
sostenea la corazza che smagliata<br />
e da dodici colpi era trafitta.<br />
Dal manco lato gli pendea lo scudo:<br />
al destr'omero il brando era attaccato,<br />
che 'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.<br />
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,<br />
che liete gli gridâr vittoria intorno,<br />
in cotal guisa a confortar si diede:<br />
<br />
«Compagni, il piú s'è fatto. A quel che resta<br />
nulla temete. Ecco Mezenzio è morto<br />
per le mie mani, e queste che vedete,<br />
l'opime spoglie e le primizie sono<br />
del superbo tiranno. Ora a le mura<br />
ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi<br />
s'accinga: ognun s'affidi, e si prometta<br />
guerra e vittoria. In punto vi mettete,<br />
ché quando dagli augúri ne s'accenne<br />
di muover campo, e che mestier ne sia<br />
d'inalberar l'insegne, indugio alcuno<br />
non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura<br />
non ci ritardi. In questo mezzo a' morti<br />
diam sepoltura, e quel che lor dovuto<br />
è sol dopo la morte, eterno onore.<br />
Itene adunque, e quell'anime chiare<br />
che n'han col proprio sangue e con la vita<br />
questa patria acquistata e questo impero,<br />
d'ultimi doni ornate. E primamente<br />
al mesto Evandro il figlio si rimandi,<br />
che, di virtú maturo e d'anni acerbo,<br />
cosí n'ha morte indegnamente estinto».<br />
<br />
Ciò detto, lagrimando il passo volse<br />
vèr la magione, u' di Pallante il corpo<br />
dal vecchierello Acete era guardato.<br />
Era costui già del parrasio Evandro<br />
donzello d'armi; e poscia per compagno<br />
fu (ma non già con sí lieta fortuna)<br />
dato al suo caro alunno. Avea con lui<br />
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani<br />
una gran turba. Scapigliate e meste<br />
le donne d'Ilio, sí com'era usanza,<br />
gli piangevano intorno; e non fu prima<br />
Enea comparso che le strida e i pianti<br />
si rinnovaro. Il batter de le mani,<br />
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi<br />
n'andâr fino a le stelle. Ei poi che vide<br />
il suo corpo disteso, e 'l bianco volto,<br />
e l'aperta ferita che nel petto<br />
di man di Turno avea larga e profonda,<br />
lagrimando proruppe: «O miserando<br />
fanciullo, e che mi val s'amica e destra<br />
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,<br />
se te m'ha tolto? Or che, vincendo, ho fatto?<br />
Che, regnando, farò, se tu non godi<br />
de la vittoria mia, né del mio regno?<br />
Ah! non fec'io queste promesse allora<br />
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni<br />
di questo impero. E ben temette il saggio,<br />
e ben ne ricordò che duro intoppo,<br />
e d'aspra gente, avremmo. E forse ancora<br />
il meschino or fa vóti e preci e doni<br />
per la nostra salute, e vanamente<br />
vittoria s'impromette. E noi con vana<br />
pompa gli riportiam questo infelice<br />
giovine di già morto, e di già nulla<br />
piú tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato<br />
padre! vedrai tu dunque una sí cruda<br />
morte del figlio tuo? Questo ritorno,<br />
questo trionfo ohimè! d'ambi aspettavi?<br />
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,<br />
no 'l vedrai già di vergognose piaghe<br />
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso<br />
(se con infamia a te vivo tornasse)<br />
a desïar la morte. Ahi, quanto manca<br />
al sussidio d'Italia, e quanto perdi,<br />
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto fine,<br />
ordine diè che 'l miserabil corpo<br />
via si togliesse; e del suo campo tutto<br />
scelse di mille una pregiata schiera<br />
che scorta gli facesse e pompa intorno,<br />
e d'Evandro a le lagrime assistesse,<br />
e le sue gli mostrasse, a tanto lutto<br />
assai debil conforto, e pur dovuto<br />
al suo misero padre. Altri al suo corpo,<br />
altri a la bara intenti, avean di quercia,<br />
d'àrbuto e di tali altri agresti rami<br />
fatto un ferètro di virgulti intesto<br />
e di frondi coperto, ove altamente<br />
del giovinetto il delicato busto<br />
composto si giacea qual di vïola,<br />
o di giacinto un languidetto fiore<br />
còlto per man di vergine, e serbato<br />
tra le sue stesse foglie, allor che scemo<br />
non è del tutto il suo natio colore<br />
né la sua forma; e pur da la sua madre<br />
punto di cibo o di vigor non ave.<br />
<br />
Enea due prezïose vesti intanto,<br />
l'una d'òr fino e l'altra di scarlatto,<br />
addur si fece, ambe ornamenti e doni<br />
de la sidonia Dido, e da lei stessa<br />
con dolce studio e con mirabil arte<br />
ricamate e distinte. E l'una indosso<br />
gli pose, e l'altra in capo, ultimo onore<br />
con che dolente la dorata chioma<br />
allor velogli, ch'era additta al foco.<br />
De le prede oltre a ciò di Laürento<br />
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza<br />
spiegar l'armi, i cavalli e l'altre spoglie<br />
tolte a' nimici. Gli fa gir legati<br />
con le man dietro i destinati a morte<br />
per ordinanza del funereo rogo.<br />
Portar gli fa davanti a' duci loro<br />
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti<br />
degli occisi e de' vinti. Il vecchio Acete<br />
che, sí com'era afflitto e d'anni grave,<br />
gli era appresso condotto, or con le pugna<br />
si battea 'l petto, ed or con l'ugna il volto<br />
si lacerava, e tra la polve e 'l fango<br />
si volgea tutto. Ivano i carri aspersi<br />
del sangue de' Latini, iva lugúbre,<br />
e d'ornamenti ignudo, Eto, il piú fido<br />
suo caval da battaglia, che gemendo<br />
in guisa umana e lagrimando andava.<br />
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi<br />
e gli Arcadi, con l'armi e con l'insegne<br />
rivolte a terra. Or poi ch'oltrepassata<br />
con quest'ordine fu la pompa tutta,<br />
Enea fermossi, e verso il morto amico<br />
ad alta voce sospirando disse:<br />
<br />
«Noi quinci ad altre lagrime chiamati<br />
dal medesimo fato, altre battaglie<br />
imprenderemo. E tu, magno Pallante,<br />
vattene in pace, e con eterna gloria<br />
godi eterno riposo». Indi partendo<br />
vèr l'alte mura, al campo si ritrasse.<br />
<br />
Eran nel campo già co' rami avanti<br />
di pacifera oliva ambasciatori<br />
de la città latina a lui venuti,<br />
che tregua a' vivi e sepoltura a' morti,<br />
pregando, gli mostrâr che piú co' vinti<br />
né co' morti è contrasto, e che Latino<br />
gli era d'ospizio amico, e che chiamato<br />
l'avea genero in prima. Il buon Troiano<br />
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,<br />
che di grazia eran degni, incontinente<br />
grazïoso mostrossi; e da vantaggio<br />
cosí lor disse: «E qual indegna sorte<br />
contra me, miei Latini, in tanta guerra<br />
cosí v'intrica? Che pur vostro amico<br />
son qui venuto: né venuto ancora<br />
vi sarei, se da' fati e dagli dèi<br />
mandato io non vi fossi. E non pur pace,<br />
siccome voi chiedete, io vi concedo<br />
per color che son morti, ma co' vivi<br />
ve l'offro, e la vi chieggo. E la mia guerra<br />
non è con voi; ma 'l vostro re s'è tolto<br />
da l'amicizia mia: s'è confidato<br />
piú ne l'armi di Turno, e Turno ancora<br />
meglio e piú giustamente in ciò farebbe,<br />
s'a questa guerra sol con suo periglio<br />
ponesse fine. E poiché si dispose<br />
di cacciarmi d'Italia, il suo dovere<br />
fôra stato che meco, e con quest'armi<br />
difinita l'avesse. E saria visso<br />
cui la sua propria destra, e dio concesso<br />
piú vita avesse; e i vostri cittadini<br />
non sarian morti. Or poiché morti sono,<br />
io me ne dolgo, e voi gli seppellite».<br />
<br />
Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti<br />
i latini oratori, e l'un con l'altro<br />
si guardarono in volto. Indi il piú vecchio,<br />
Drance nomato, a cui Turno fu sempre<br />
per sua natura e per sua colpa in ira,<br />
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:<br />
«O di fama e piú d'arme eccelso e grande<br />
troiano eroe, qual mai fia nostra lode<br />
che 'l tuo gran merto agguagli? e di che prima<br />
ti loderemo? ch'io non veggio quale<br />
in te maggior si mostri, o la giustizia,<br />
o la gloria de l'armi. A questa tanta<br />
grazia che tu ne fai, grati saremo:<br />
rapporto ne faremo; e s'al consiglio<br />
nostro è fortuna amica, amico ancora<br />
ti fia Latino. E cerchisi d'altronde<br />
Turno altra lega. A noi co' sassi in collo<br />
gioverà di trovarne a fondar vosco<br />
questa vostra fatal novella Troia».<br />
<br />
Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi<br />
tutti gli altri fremendo acconsentiro,<br />
e per dodici dí commercio e pace<br />
fur tra l'un oste e l'altro. E senza offesa<br />
entrambi si mischiaro, e per gli monti<br />
e per le selve a lor diletto andaro.<br />
Allor sonare accette e strider carri<br />
per tutto udissi. In ogni parte a terra<br />
ne gîro i cerri e gli orni e gli alti pini<br />
e gli odorati cedri al funebre uso<br />
svèlti, squarciati e tronchi. E già la Fama,<br />
che di Pallante a Pallantèo volata<br />
dicea pria le sue prove, e vincitore<br />
l'avea gridato, or d'ogni parte grida<br />
che morto si riporta. In ciò commossa<br />
la città tutta in vedovile aspetto<br />
di funeste facelle e d'atri panni<br />
si vide piena; e vèr le porte ognuno<br />
gli usciro incontro. Si vedea di lumi<br />
e di genti una fila che le strade<br />
e i campi in lunga pompa attraversava.<br />
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto<br />
piangendo ne venian da l'altra parte,<br />
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti<br />
tutti vèr la città, non pria fûr giunti,<br />
che di pianti di donne e d'ululati<br />
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.<br />
Né forza, né consiglio, né decoro<br />
fu ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo<br />
di tutta gente; e la funerea bara<br />
fermando, addosso al figlio in abbandono<br />
si gittò, l'abbracciò, stretto lo tenne<br />
lunga fïata, e da l'angoscia oppresso<br />
pria lagrimando, e sospirando, tacque.<br />
Poscia, la strada al gran dolore aperta,<br />
cosí proruppe: «O mio Pallante, e queste<br />
fûr le promesse tue, quando partendo<br />
il tuo padre lasciasti? In questa guisa<br />
d'esser guardingo e cauto mi dicesti<br />
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,<br />
ben sapev'io quanto ne l'armi prime<br />
fosse, in cor generoso, ardente e dolce<br />
il desio de la gloria e de l'onore.<br />
Primizie infauste, infausti fondamenti<br />
de la tua gioventú! vane preghiere,<br />
vóti miei non accetti e non intesi<br />
da nïun dio! Santissima consorte,<br />
che morendo fuggisti un dolor tale,<br />
quanto sei tu di tua morte felice!<br />
Quanto infelice e misero son io,<br />
che vecchio e padre al mio diletto figlio<br />
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni<br />
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso<br />
uscito co' Troiani a questa guerra!<br />
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe<br />
me cosí riportato, e non Pallante.<br />
Né per questo di voi, né de la lega,<br />
né de l'ospizio vostro io mi rammarco,<br />
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza<br />
questa sorte dovuta. E se dovea<br />
cader mio figlio, perché tanta strage<br />
io vedessi de' Volsci, e perché Lazio<br />
fosse a' Teucri soggetto, in pace io soffro<br />
che sia caduto. E piú compíto onore<br />
non aresti da me, Pallante mio,<br />
di questo che 'l pietoso e magno Enea<br />
e i suoi magni Troiani e i toschi duci<br />
e tutte insieme le toscane genti<br />
t'han procurato. Con sí gran trofei<br />
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,<br />
e de' vinti da te. Né fôra meno<br />
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,<br />
Turno, stato d'età pari il mio figlio,<br />
e par de la persona e de le forze<br />
che ne dan gli anni. Ma che piú trattengo<br />
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte<br />
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo<br />
dopo Pallante, è sol perché l'invitta<br />
sua destra, come vede, al figlio mio<br />
ed a me deve Turno. E questo solo<br />
gli manca per colmar la sua fortuna<br />
e 'l suo gran merto; ché per mio contento<br />
no 'l curo; e contentezza altra non deggio<br />
sperare io piú che di portare io stesso<br />
questa novella di Pallante a l'ombra».<br />
<br />
Avea l'Aurora col suo lume intanto<br />
il giorno e l'opre e le fatiche insieme<br />
ricondotte a' mortali. Il padre Enea<br />
e 'l buon Tarconte, ambi, in su 'l curvo lito<br />
i cadaveri addotti, a' suoi ciascuno<br />
com'era l'uso, un'alta pira eresse,<br />
la compose e l'incese. E mentre il foco<br />
di fumo e di caligine coverto<br />
tenea l'aëre intorno, in ordinanza<br />
tre volte, armati, a piè la circondaro,<br />
e tre volte a cavallo, in mesta guisa<br />
ululando, piangendo, e l'armi e 'l suolo<br />
di lagrime spargendo. Infino al cielo<br />
penetrâr de le genti e de le tube<br />
i dolorosi accenti. Altri gridando<br />
le pire intorno, elmi, corazze e dardi<br />
e ben guernite spade e freni e ruote<br />
avventaron nel foco, e de' nemici<br />
armi d'ogni maniera, arnesi e spoglie;<br />
altri i lor propri doni, e degli occisi<br />
medesmi vi gittâr l'aste infelici,<br />
e gl'infelici scudi, ond'essi invano<br />
s'eran difesi. A le cataste intorno<br />
molti gran buoi, molti setosi porci,<br />
molte fûr pecorelle occise ed arse.<br />
A sí mesto spettacolo in sul lito<br />
stavan altri piangendo, altri osservando<br />
ciascuno i suoi piú cari, infin che 'l foco<br />
gli consumasse. E questi l'ossa, e quelli<br />
le ceneri accogliendo, il giorno tutto<br />
in sí pietoso officio trapassaro:<br />
né se ne tolser finché, spenti i fochi,<br />
non s'acceser le stelle. In altra parte<br />
i miseri Latini ai corpi loro<br />
fêr cataste infinite. Altri sotterra<br />
ne seppelliro; altri a le ville intorno,<br />
ed altri a la città ne trasportaro.<br />
E quei che senza numero confusi<br />
giacean nel campo, senza onore a mucchi<br />
furon combusti: onde i villaggi insieme<br />
e le campagne di funesti incendi<br />
lucean per tutto. E tre luci e tre notti<br />
durâr gli afflitti amici e i dolorosi<br />
parenti a ricercar le tiepid'ossa,<br />
e ne l'urne riporle e ne' sepolcri.<br />
<br />
Ma la confusïone e 'l pianto e 'l duolo<br />
era ne la città per la piú parte,<br />
e ne la reggia al re Latino avanti.<br />
Qui le madri, le nuore, le sorelle<br />
e i miseri pupilli, che de' padri,<br />
de' figli, de' mariti e de' fratelli<br />
erano in questa guerra orbi rimasi,<br />
la guerra abbominavano e le nozze<br />
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -<br />
dicendo, - ei che d'Italia al regno aspira,<br />
e le grandezze e i primi onori agogna,<br />
con l'armi e col suo sangue le s'acquisti,<br />
e non col nostro». In ciò Drance aggravando<br />
vie piú le cose, come a Turno infesto,<br />
attestando dicea che sol con Turno<br />
volea briga il Troiano, e che sol esso<br />
era a pugna con lui cerco e chiamato.<br />
Altri d'altro parere, altre ragioni<br />
dicean per Turno: e 'l gran nome d'Amata<br />
e 'l suo favore e di lui stesso il merto<br />
con la fama de' suoi tanti trofei<br />
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto<br />
che cosí si tumultua e si travaglia,<br />
mesti sopravvenir gl'imbasciadori<br />
ch'in Arpi a Dïomede avean mandati;<br />
e riportar, che le fatiche e i passi<br />
avean perduti: che né dono alcuno,<br />
né promesse, né preci, né ragioni<br />
furon bastanti ad impetrar soccorso<br />
né da lui né da' suoi: ch'era d'altronde<br />
di mestiero a' Latini avere altr'armi,<br />
o trattar co' nemici accordo e pace.<br />
<br />
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco<br />
ne fece il re Latino. E ben conobbe<br />
che manifestamente Enea da' fati<br />
era portato; e via piú manifesta<br />
si vedea degli dèi l'ira davanti<br />
in tanta che de' suoi negli occhi avea<br />
strage recente. Il gran consiglio adunque,<br />
e de' suoi primi, ne la regia corte<br />
chiamar si fece. In un momento piene<br />
ne fûr le strade; e di già tutti accolti<br />
ne la gran sala, il re, di grado e d'anni<br />
il primo, a tutti in mezzo, in non sereno<br />
sembiante, comandò che primamente<br />
i legati che d'Arpi eran tornati,<br />
fossero uditi; ed a lor vòlto disse:<br />
«Esponete per ordine il seguíto<br />
de la vostra ambasciata, e la risposta<br />
che ritratta n'avete». A tal precetto<br />
tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,<br />
cosí pria incominciò: «Noi dopo molti<br />
superati pericoli e fatiche,<br />
egregi cittadini, al campo argivo<br />
ne la Puglia arrivammo; e Dïomede<br />
vedemmo alfine; e quell'invitta destra<br />
toccammo, ond'è 'l grand'Ilio arso e distrutto.<br />
In Iapigia il trovammo a le radici<br />
del gran monte Gargàno, ove fondava,<br />
già vincitore, Argíripa, una terra<br />
che dal patrio Argirippo ha nominata.<br />
Intromessi che fummo, il presentammo;<br />
gli esponemmo la patria, il nome e 'l fatto<br />
de la nostra imbasciata, e la cagione,<br />
onde a lui venivamo. Il tutto udito,<br />
cosí benignamente ne rispose:<br />
<br />
"O fortunate genti, o di Saturno<br />
felice regno, o degli antichi Ausoni<br />
famosa terra! E quale iniqua sorte<br />
da la vostra quïete or vi sottragge?<br />
Qual consiglio, qual forza vi costringe<br />
di nemicarvi e guerreggiar con gente<br />
che non v'è nota? Noi quanti già fummo<br />
col ferro a vïolar di Troia i campi<br />
(non parlo degli strazi e de le stragi<br />
di quei che vi rimasero, ché pieni<br />
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco<br />
n'uscimmo con la vita, in ogni parte<br />
siam poi giti del mondo tapinando,<br />
con nefandi supplíci, e con atroci<br />
morti pagando il fio, come d'un grave<br />
e scellerato eccesso. E non ch'altrui,<br />
Prïamo stesso a pietà mosso avrebbe<br />
il fiero, che di noi s'è fatto, scempio.<br />
Di Palla il sa la sfortunata stella;<br />
sallo il vendicator Cafàreo monte<br />
e gli euboïci scogli: il san di Proteo<br />
le longinque colonne, insino a dove,<br />
dopo quella milizia, andò ramingo<br />
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi<br />
ne vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi<br />
ne lasciò Pirro. Idomeneo cacciato<br />
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,<br />
condottier degli Argivi, il piede a pena<br />
nel suo regno ripose, che del regno,<br />
del letto e de la vita anco privato<br />
fu da la scellerata sua consorte.<br />
Né gli giovò che doma l'Asia e spento<br />
l'uno adultero avesse; ché de l'altro<br />
scherno e preda rimase. A me l'invidia<br />
ha degli dèi di piú veder disdetto<br />
la mia bella città di Calidóna,<br />
e la mia cara e desïata donna.<br />
Né di ciò sazi, orribili spaventi<br />
mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli<br />
conversi i miei compagni (o miseranda<br />
lor pena!) van per l'aura e per gli scogli<br />
di lacrimosi accenti il cielo empiendo.<br />
Questi sono i profitti e le speranze<br />
ch'io fin qui ne ritraggo, da che, folle!<br />
stringer contro a' celesti il ferro osai,<br />
e che di Citerea la destra offesi.<br />
Or ch'io di nuovo una tal pugna imprenda<br />
testé con voi? No, no, ch'io co' Troiani,<br />
dopo Troia espugnata, altra cagione<br />
non ho di guerra; e de' passati mali<br />
volentier mi dimentico, e dolore<br />
ancor ne sento. E, quanto a' doni, andate,<br />
riportateli vosco, e 'l magno Enea<br />
ne presentate. E solo a me credete<br />
del valor suo, che fui con esso a fronte<br />
con l'armi in mano; e so di scudo e d'asta<br />
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.<br />
Se due tali altri avea la terra idèa,<br />
d'Ida fôra piuttosto ita la gente<br />
ai danni de la Grecia; e 'l troian fato<br />
piangerebb'ella. Enea sol con Ettorre<br />
fu la cagion che tanto s'indugiasse<br />
la ruina di Troia, e che diece anni<br />
durammo a conquistarla. Ambedue questi<br />
eran di cor, di forze e d'arme uguali,<br />
ma ben fu di pietate Enea maggiore.<br />
Io vi consiglio che, comunque sia,<br />
lega seco, amicizia e pace aggiate,<br />
e l'incontro fuggiate e l'armi sue".<br />
Questa è la sua risposta; e quinci avete,<br />
ottimo re, qual sia di questa guerra<br />
il suo parere e 'l nostro». A pena uditi<br />
furo i legati, che bisbiglio e fremito<br />
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa<br />
che di rapido fiume un chiuso gorgo<br />
mormora allor che fra gli opposti sassi<br />
s'apre la strada, e gorgogliando cade,<br />
e frange e rugghia, e le vicine ripe<br />
ne risuonan d'intorno. Or poiché un poco<br />
restò 'l tumulto, e gli animi acquetârsi,<br />
gli dèi prima invocando, un'altra volta<br />
il re da l'alto seggio a dir riprese:<br />
<br />
«Latini miei, lo mio parere e 'l meglio<br />
sarebbe stato, che d'un tanto affare<br />
si fosse prima consultato, e fermo<br />
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,<br />
quando il nimico in su le porte avemo.<br />
Una importuna e perigliosa guerra<br />
s'è, cittadini, impresa, e per nimica<br />
tolta una gente, che dal ciel discesa,<br />
da' celesti e da' fati è qui mandata;<br />
feroce, insuperabile, indefessa,<br />
ne l'armi invitta, che né vinta ancora<br />
cessa dal ferro. Se speranza alcuna<br />
negli esterni soccorsi e ne l'aíta<br />
aveste degli Etòli, ora del tutto<br />
la deponete: e sia speme a se stesso<br />
ciascun per sé. Ma noi per noi, che speme<br />
e che possanza avemo? Ecco davanti<br />
agli occhi vostri, e fra le vostre mani<br />
vedete la strettezza e la ruina<br />
in che noi siamo. Né però ne 'ncolpo<br />
alcun di voi. Tutto 'l valor s'è mostro<br />
che mostrar si potea: con tutto 'l corpo,<br />
e con quanto ha di forza il nostro regno<br />
s'è combattuto. Or quale in tanto dubbio<br />
sia la mia mente, udite. È nel mio stato<br />
vicino al Tebro un territorio antico,<br />
che in vèr l'occaso per lunghezza attinge<br />
fin dove de' Sicani era il confine.<br />
Dagli Rutuli è cólto e dagli Aurunci,<br />
che i duri colli e i piú deserti paschi<br />
ne tengon da l'un canto: a questo aggiungo<br />
quella piaggia di pini e quella costa<br />
de la montagna; e tutto è mio disegno<br />
che si ceda a' Troiani e ch'amicizia,<br />
accordo e patti e lega e leggi eguali<br />
abbiam con essi; e qui, s'a qui fermarsi<br />
sono o da' fati o dal desire indotti,<br />
ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura<br />
fondino a lor diletto. E s'altra parte<br />
cercano e d'altre genti (se pur ponno<br />
tôrsi da noi) quando di venti navi,<br />
o di piú sovvenir ne gli bisogni,<br />
su la stessa marina apparecchiata<br />
è la materia. Essi de' legni il modo<br />
e 'l numero diranno: e noi le selve,<br />
la maestranza, i ferramenti e tutto<br />
che fia lor di mestiero appresteremo.<br />
Con questa offerta io manderei de' primi<br />
de la nostra città cento oratori<br />
co' rami de la pace, col mandato<br />
di contrattarla, co' presenti appresso<br />
d'avorio e d'oro e col seggio e col manto<br />
del nostro regno. Consultate or voi,<br />
ed a l'afflitte e mal condotte cose<br />
d'aíta provvedete e di soccorso».<br />
<br />
Surse allor Drance, quei che già s'è detto<br />
avversario di Turno. Era costui<br />
del regno de' Latini un de' piú ricchi<br />
e de' piú reputati cittadini:<br />
di fazïon, di sèguito e di lingua<br />
possente assai; ne le consulte avuto<br />
di qualche stima; nel mestier de l'armi<br />
codardo, anzi che no. La sua chiarezza<br />
e 'l suo fasto venia da la sua madre<br />
ch'era d'alto legnaggio. Il padre a pena<br />
era noto a le genti. Or questo, infesto<br />
a la gloria di Turno, asperso il core<br />
d'amarezza e d'invidia, in questa guisa<br />
il suo fatto aggravando, e l'ire altrui<br />
irritando, parlò: «Chiaro, evidente<br />
e necessario, ottimo re, n'è tanto<br />
quel che tu ne consigli, che bisogno<br />
d'altro non ha che di comune assenso.<br />
Ognun vede, ognun sa quel che conviene<br />
in sí dura fortuna: e nullo ardisce<br />
pur d'aprir bocca. Libertate almeno<br />
di parlar ne si dia. Scemi una volta<br />
tanta sua tracotanza e tanto orgoglio<br />
chi co' suoi male avventurosi auspíci,<br />
co' sinistri suoi modi (io pur dirollo,<br />
benché d'armi e di morte mi minacci)<br />
n'ha qui condotti, e per cui tanti duci,<br />
tanta gente è perita, e tutta in pianto<br />
questa cittade e questo regno è vòlto;<br />
mentre ne la sua furia, o ne la fuga<br />
confidando piuttosto, il troian campo<br />
ha d'assalire osato, e fin nel cielo<br />
posto ha con l'armi sue téma e scompiglio.<br />
Solo un dono, signor, fra tanti doni<br />
che si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;<br />
né consentir che vïolenza altrui<br />
tel proibisca. Da', buon padre, ancora<br />
questa tua figlia a genero sí degno<br />
e con sí degno maritaggio eterna<br />
fa questa pace. E se 'l terrore è tanto<br />
che s'ha di lui, da lui stesso impetriamo<br />
grazia e licenza che la patria sua,<br />
che 'l suo re prevaler si possa almeno<br />
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,<br />
tu di tanta ruina autore e capo,<br />
a che pur tante volte, a tanti strazi,<br />
a tanti rischi, a manifesta morte<br />
questi tuoi meschinelli cittadini<br />
esponi indarno? e qual è ne la guerra<br />
piú salute e speranza? A te noi tutti<br />
pace, Turno, chiedemo, e de la pace<br />
quel ch'è sol fermo e 'nviolabil pegno;<br />
ed io prima di tutti, io cui tu fingi<br />
che nimico ti sia (né tal mi curo<br />
che tu mi tenga) a supplicar ti vegno<br />
umilemente. Abbi pietà de' tuoi;<br />
pon giú la stizza; e poi che sei cacciato,<br />
vattene. Assai di strage, assai di morti<br />
s'è visto: assai ne son le genti afflitte;<br />
vedovi i tetti e desolati i campi;<br />
ma se l'onor ti muove, e se concepi<br />
di te tanto in te stesso, e tanto agogni<br />
o la donna o la dote, a che non osi<br />
contro a chi te ne priva? A Turno adunque<br />
regno col nostro sangue e regia moglie<br />
procureremo: e noi vili alme, e turba<br />
non sepolta e non pianta, a' cani in preda<br />
giaceremo in su' campi? Or tu, tu stesso,<br />
se tanto hai d'ardimento e di valore<br />
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,<br />
a lui ti volgi, che ti sfida e chiama».<br />
<br />
Turno, ch'impetuoso e vïolento<br />
era da sé, questo parlare udito,<br />
alto un gemito trasse, e d'ira acceso<br />
cosí proruppe: «Usanza tua fu sempre,<br />
Drance, allor che di mani è piú bisogno,<br />
oprar la lingua; essere in corte il primo,<br />
l'ultimo in campo. Ma non piú parole<br />
in questo loco, ché già pieno troppo<br />
ne l'hai; pur troppo grandi e troppo gonfie<br />
l'avventi, e senza rischio or ch'i nemici<br />
son lunge, e buone fosse e buone mura<br />
ci son di mezzo, e non c'inonda il sangue.<br />
Apri qui bocca al solito, e rintuona<br />
con la facondia tua. Tu, che se' Drance,<br />
me, che son Turno, imbelle e vile appella;<br />
tu la cui dianzi sanguinosa destra<br />
pieni i campi di morti, e pieni i colli<br />
ha di trofei. Ma che non pruovi ancora<br />
questa tua gran virtú? Forse, ch'avemo<br />
a cercar de' nemici? Ecco d'intorno<br />
ci sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?<br />
Che badi? Ov'è la tua tanta prodezza?<br />
sempre è nel vento, sempre è ne la fuga<br />
de la lingua e de' piè? tu mi rinfacci<br />
ch'io sia cacciato? tu, vituperoso,<br />
di dirlo osasti? e chi meritamente<br />
sarà che 'l dica? Oh! non s'è visto il Tebro<br />
fatto gonfio da me del frigio sangue?<br />
non s'è vista la casa e 'l seme tutto<br />
spento d'Evandro, e gli Arcadi spogliati<br />
d'armi e di vita? Io non fui già da Pandaro<br />
cacciato, né da Bizia, né da mille<br />
che in un dí vincitore a morte io diedi,<br />
circondato da loro e cinto e chiuso<br />
da le lor mura. Nulla è ne la guerra<br />
piú salute o speranza: al teucro duce,<br />
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose<br />
fa' questo annunzio. E non tutto in soqquadro<br />
por con tanta paura, e tanta stima<br />
che fai de la prodezza e de le forze<br />
d'una gente che già due volte è vinta;<br />
e non tanto avvilir da l'altro canto<br />
l'armi del re Latino. Ai Mirmidóni<br />
son ora, al gran Dïomede, al grande Achille<br />
i Teucri formidabili e tremendi;<br />
e dal mar se ne torna per paura<br />
l'Àufido indietro. E forse che non finge<br />
temer di me, perché il mio fallo aggravi?<br />
Malvagia astuzia! Ma non piú per nulla<br />
vo' che ne tema. Un'anima sí vile<br />
non ti torrà la mia destra già mai.<br />
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,<br />
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,<br />
gran padre, e 'l tuo parer discorro, e dico:<br />
Se tu piú non t'affidi, e piú non credi<br />
ne l'armi tue; s'abbandonati affatto<br />
siam d'ogni parte; se una volta rotti,<br />
siam per sempre perduti; e se fortuna,<br />
varïando le veci, unqua non cangia,<br />
signor, pace imploriamo; e l'armi in terra<br />
gittando, a giunte mani accordo e vènia<br />
impetriam dai nemici. Ancorché, quando<br />
oh! del nostro valor punto in noi fosse!<br />
sopra tutti felice, riposato,<br />
e glorïoso spirito sarebbe<br />
chi, per ciò non veder, morto si fosse!<br />
Ma se le nostre forze ancor son verdi,<br />
la nostra gioventú florida, intatta,<br />
disposta e pronta a l'armi; e per sussidio<br />
i popoli d'Italia e le cittadi<br />
son con noi tutte; e s'a' nemici ancora<br />
sanguinosa, dannosa e poco lieta<br />
è questa gloria; ed han de' morti anch'essi<br />
la parte loro; e la tempesta è pari<br />
d'ambe le parti; a che nel primo intoppo<br />
con tanto scorno, a noi stessi mancando,<br />
gittarne a terra? a che tremare avanti<br />
che la tromba si senta? A la giornata<br />
il tempo stesso, il varïar de' casi,<br />
l'industria, le vicende, il moto e 'l giuoco<br />
potria de la fortuna in molte guise,<br />
come suol l'altre cose, ancor le nostre,<br />
cangiando, risarcire, e porre in saldo.<br />
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;<br />
avrem Messapo; avremo il fortunato<br />
Tolunnio; avrem tant'altri incliti duci<br />
di tant'altre città. Né di men gloria,<br />
né di minor virtú saranno i nostri<br />
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,<br />
la gran volsca virago, che n'addusse<br />
di cavalieri e di caterve armate<br />
sí bella gente. E se me solo appella<br />
il nemico a battaglia, e se v'aggrada<br />
che sol io gli risponda ed io sol osto<br />
al ben comune, io solamente assumo<br />
sopra me questa impresa. E già non credo<br />
che le mie man sí la vittoria abborra,<br />
che per tanta ch'io n'aggia, e speme e gioia,<br />
accettar non la deggia. Androgli incontro<br />
con l'animo, se fosse anco maggiore<br />
del magno Achille, e come Achille, anch'egli<br />
l'armi di Mongibello indosso avesse.<br />
Io Turno, io che non punto a qual si fosse<br />
mai degli antichi di valor non cedo,<br />
questa mia vita stessa a voi, Latini,<br />
ed a Latin mio suocero consacro<br />
solennemente. Enea me solo invita;<br />
l'accetto, il bramo e 'l prego, anzi che Drance,<br />
s'ira è questa di dio, con la sua morte<br />
la purghi, o che la gloria me ne tolga,<br />
s'è pur gloria o vertute». In cotal guisa<br />
consultando i Latini avean tra loro<br />
dispareri e tenzoni. Usciti a campo<br />
erano i Teucri intanto. Ed ecco un messo<br />
venir volando, che la reggia tutta<br />
e tutta la città pose in tumulto,<br />
annunzïando che dal tosco fiume<br />
già mosso de' Troiani e de' Tirreni<br />
se ne venia l'esercito in battaglia<br />
in vèr Laurento; e che di genti e d'armi<br />
si vedean piene le campagne e i colli.<br />
<br />
Gli animi incontinente si turbaro;<br />
sgomentossene il volgo: ai valorosi<br />
s'acceser l'ire. Trepidando ognuno<br />
discorrea per le strade; arme fremea<br />
la gioventú; dolenti e lagrimosi<br />
i padri discordando, e chi per Turno<br />
sentendo e chi per Drance, avean tra loro<br />
vari bisbigli. E tutto il corpo insieme<br />
facea de la città tale un trambusto,<br />
e tal ne l'aura unitamente un suono,<br />
qual è se spaventata esce d'un bosco<br />
torma di rochi augelli, o qual talora<br />
da le pescose rive di Padusa<br />
van per gli stagni schiamazzando a schiere<br />
turbati i cigni. In tale occasïone<br />
gridava Turno: «Or questo è, padri, il tempo<br />
di seder a consiglio: or consigliate<br />
agiatamente: aggiate sopra tutto<br />
cura a la pace, or ch'i nemici armati<br />
ne son già sopra». E, cosí detto a pena,<br />
saltò fuor de la reggia; e vòlto a torno:<br />
«Arma, - disse, - tu, Vòluso, i tuoi Volsci,<br />
e tu, Messapo, i rutuli cavalli.<br />
Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:<br />
va tu con la tua gente a la muraglia<br />
incontinente; e tu dispensa i tuoi<br />
fra le porte e le torri. Ite voi meco,<br />
che rimanete; e ciascuno armi i suoi».<br />
<br />
Per tutta la città si va scorrendo<br />
a le mura. A l'insegne, ai capitani<br />
ognun s'adduce. I padri irresoluti<br />
se n'escon dal consiglio. Il re turbato<br />
si ritira, e si pente che non aggia<br />
per sé, senza consulta, il frigio duce<br />
per amico e per genero accettato.<br />
Dansi tutti a munire, a cavar fosse,<br />
tutti a somministrar chi sassi e travi,<br />
e chi dardi e chi strali. E già la roca<br />
tromba ne va per la città squillando<br />
de la battaglia il sanguinoso accento.<br />
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno<br />
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado<br />
a l'ultimo periglio, al gran bisogno<br />
corrono a la muraglia. E d'altra parte<br />
da gran corteo di donne accompagnata<br />
con doni e preci di Minerva al tempio<br />
va la regina, ed ha Lavinia seco,<br />
la vergine sua figlia, onde venuta<br />
era tanta ruina: e di ciò mesta,<br />
porta i begli occhi lagrimosi e chini.<br />
Seguon le madri e d'odorati incensi<br />
vaporando il delúbro, in flebil voce<br />
pregano in su la soglia: «Armipotente<br />
Tritonia, tu che puoi, la possa e l'armi<br />
frangi al frigio ladrone, e di tua mano<br />
anciso in su la porta me lo stendi».<br />
<br />
Esso re Turno da la furia spinto<br />
ricorre a l'armi; e di squamoso acciaro<br />
e d'òr già tutto orribile e splendente,<br />
cinto di brando, e sol del capo ignudo<br />
lieto mostrossi, e di speranza altiero<br />
di vedere il nemico. E 'n quella guisa<br />
da la ròcca scendea che da' presepi<br />
sciolto destriero esce ruzzando in campo,<br />
o ch'amor di giumente, o che vaghezza<br />
di verde prato, o pur desio lo tragga<br />
del noto fiume; che sbuffando freme,<br />
e ringhia e drizza il collo e squassa il crine.<br />
<br />
A l'uscir de la porta ecco davanti<br />
gli si fa co' suoi volsci cavalieri<br />
la vergine Camilla: e sí com'era<br />
non men gentil che valorosa e bella,<br />
tosto che l'incontrò con tutti i suoi<br />
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:<br />
«Turno, se degnamente uom forte ardisce,<br />
io mi rincoro, e ti prometto io sola<br />
di gire ai cavalier toscani incontro.<br />
Lascia me col mio stuolo assalir prima<br />
la troiana oste, e che primiera io tragga<br />
di questa pugna e de' suoi rischi un saggio;<br />
e tu qui co' pedoni a piè rimanti<br />
a guardia de la terra». A tal proposta<br />
Turno ne la terribile virago<br />
gli occhi fissando: «O de l'Italia, - disse -<br />
ornamento e sostegno, e di che lode,<br />
e di che premio al tuo gran merto uguale<br />
ristorar ti poss'io? Ma (poiché cosa<br />
non è che la pareggi) abbi, famosa<br />
guerriera, in grado ch'io con te comparta<br />
questa fatica. Enea, come dal grido<br />
avemo e da le spie fin qui ritratto,<br />
spinte ha le schiere de' cavalli avanti<br />
per batter la campagna: ed egli altronde<br />
presa la via del monte, per alpestro<br />
sentiero a la città di sopra al giogo<br />
vien con l'altre sue genti. Il mio disegno<br />
è fargli agguato, e collocarmi appresso<br />
là, 've sopra la foce il doppio bosco<br />
del curvo monte ambe le strade accoglie.<br />
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti<br />
nostri cavalli, i suoi nel piano assagli<br />
a spiegate bandiere. Il fier Messapo<br />
sarà con te: saranvi de' Latini,<br />
vi saran di Corace e di Catillo<br />
le squadre tutte; e tu con essi il carco<br />
prendi di comandarle». Indi esortando<br />
parimente Messapo e gli altri duci<br />
a la lor fazïone, egli a la sua<br />
tostamente si volse. È tra due branche<br />
del monte una vallea che d'ambi i lati<br />
ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,<br />
a l'insidie de l'armi accomodati.<br />
Ha ne l'imo una sèmita per mezzo<br />
angusta, malagevole e scontorta<br />
che d'ogn'intorno è da le ripe offesa.<br />
In cima, in su l'uscita, è tra le selve<br />
ascosa una pianura, con ridotti<br />
acconci a ritirarsi, ed opportuni<br />
a spingersi o dal destro o dal sinistro<br />
lato, che si rincontri o che s'aspetti<br />
nemica gente, o pur che di gran sassi<br />
si tempesti di sopra. A questo loco,<br />
di cui ben era pratico, in agguato<br />
Turno si pose, e i suoi nimici attese.<br />
<br />
Dïana intanto timorosa e mesta<br />
favellando con Opi, una del coro<br />
de le sue Ninfe, in tal guisa le disse:<br />
«Vedi a che perigliosa e mortal guerra<br />
a morir se ne va la mia Camilla,<br />
ne le nostr'armi ammaestrata invano.<br />
E pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo.<br />
Né questo è nuovo, o repentino amore.<br />
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre<br />
di lei, fu per invidia e per soverchia<br />
potenza da Priverno, antica terra,<br />
da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto,<br />
che gli fece il suo popolo, fuggendo,<br />
nel suo misero esiglio ebbe in campagna<br />
questa sola bambina che, mutato<br />
di Casmilla sua madre il nome in parte,<br />
fu Camilla nomata. Andava il padre<br />
con essa in braccio per gli monti errando<br />
e per le selve, e de' nemici Volsci<br />
sempre d'intorno avea l'insidie e l'armi.<br />
Ecco un giorno assalito con la caccia<br />
dietro, fuggendo, a l'Amasèno arriva.<br />
Per pioggia questo fiume era cresciuto,<br />
e rapido spumando, infino al sommo<br />
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;<br />
tal che, per téma de l'amato peso<br />
non s'arrischiando di passarlo a nuoto,<br />
fermossi; e poiché a tutto ebbe pensato,<br />
con un súbito avviso entro una scorza<br />
di salvatico súvero rinchiuse<br />
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo<br />
d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo<br />
tèlo, ch'avea per avventura in mano,<br />
legolla acconciamente; e l'asta e lei<br />
con la sua destra poderosa in alto<br />
librando, a l'aura si rivolse, e disse:<br />
<br />
"Alma latonia virgo, abitatrice<br />
de le selve e de' monti, io padre stesso<br />
questa mia sfortunata figlioletta<br />
per ministra ti dedico e per serva.<br />
Ecco ch'a te devota, a l'armi tue<br />
accomandata, dal nimico in prima<br />
sol per te la sottraggo. In te sperando<br />
a l'aura la commetto; e tu per tua<br />
prendila, te ne prego, e tua sia sempre".<br />
<br />
Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,<br />
oltre il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento<br />
e 'l dardo ne fêr suono e fischio e rombo.<br />
Mètabo, da la turba sopraggiunto<br />
de' suoi nemici, a nuoto alfin gettossi<br />
e salvo a l'altra riva si condusse.<br />
Ivi d'un verde cespo, ove piantato<br />
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei<br />
divelse, e via fuggissi; e piú mai poscia<br />
non fu da tetti o da cittadi accolto;<br />
ché per natia fierezza a legge altrui<br />
non si fôra unqua additto. Il tempo tutto<br />
de la sua vita, di pastore in guisa,<br />
menò per monti solitari ed ermi;<br />
e per grotte e per dumi e per orrende<br />
selve e tane di fere ebbe ricetto<br />
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo<br />
ferino latte, e balia una d'armento<br />
ancor non doma e pavida giumenta.<br />
Ne le tenere labbra il padre stesso<br />
de la fera premea l'orride mamme;<br />
né pria tenne de' piè salde le piante,<br />
che d'arco, di faretra e di nodosi<br />
dardi le mani e gli omeri gravolle.<br />
Non d'òr le chiome, o di monile il collo,<br />
né men di lunga, o di fregiata gonna<br />
la ricoverse; ma di tigre un cuoio<br />
le facea veste intorno, e cuffia in capo.<br />
Il fanciullesco suo primo diletto<br />
e 'l primo studio fu lanciar di palo,<br />
e trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora<br />
facea strage di gru, d'oche e di cigni.<br />
Molte la desiâr tirrene madri<br />
per nuora indarno. Ed ella di me sola<br />
contenta, intemerata e pura e casta,<br />
la sua verginità, l'amor de l'armi<br />
sol ebbe in cale. Or mio fôra disio<br />
che di questa milizia e de la pugna,<br />
che presa ha co' Troiani e co' Tirreni,<br />
fosse digiuna; per sí cara io l'aggio,<br />
e tale or mi saria grata compagna.<br />
Ma poi che acerbo fato la persegue,<br />
scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese<br />
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,<br />
che per Lazio e per lei mal s'apparecchia.<br />
Prendi quest'arco e prendi questa mia<br />
stessa faretra, e di qui traggi il tèlo<br />
per vendicarmi di qualunque ardito<br />
sarà di vïolar quest'a me sacra<br />
e devota virago, Italo, o Teucro<br />
che sia. Poscia io verrò di nube involta<br />
a provveder che 'l miserabil corpo<br />
non sia d'armi spogliato, e che raccolto<br />
sia ne la patria, e seppellito e pianto».<br />
<br />
Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,<br />
da' mortali occhi non veduta, a terra<br />
lievemente calossi. I teucri intanto<br />
e i toschi duci le lor genti avanti<br />
spingendo, a la città s'avvicinaro.<br />
Piena d'armi, d'insegne, di cavalli<br />
e di schierati fanti e di squadroni<br />
si vedea la campagna. Eran per tutto<br />
gualdane, giramenti, scorribande<br />
di cavalieri: in secche selve i colli<br />
parean conversi: ardea la terra e 'l cielo<br />
di ferrigni splendori, e d'ogni parte<br />
s'udian fremer cavalli e squillar trombe.<br />
<br />
Incontro a lor da l'altra parte usciro<br />
il fier Messapo, i cavalier latini,<br />
Corace col suo frate, e di Camilla<br />
la bellicosa banda. Era il concorso<br />
tuttavia de le genti, e de' cavalli<br />
il fremito maggiore. E già la massa<br />
ristretta, e già vicine ambe le parti<br />
a tiro d'asta, a fronte si fermaro<br />
l'una de l'altra; e con le lance in resta,<br />
con saette e con dardi incominciaro<br />
primamente da lunge a salutarsi.<br />
Poi di subite grida udito un tuono<br />
al ciel levossi; e due contrari nembi<br />
da la terra sorgendo, armi fioccaro<br />
di neve in guisa, e coprîr d'ombra il sole.<br />
Alfin da ciascun lato i destrier punti<br />
andâr tutti con tutti a rincontrarsi.<br />
<br />
Era Tirreno al fiero Aconte opposto<br />
ne la battaglia; e questi primamente<br />
s'urtaro, e per la furia e per la forza<br />
de l'urto ambe le lance, ambi i cavalli,<br />
ed ambi i corpi infranti, stramazzati,<br />
l'un da l'altro disgiunti, quai percossi<br />
da fulmine o da macchine avventati,<br />
caddero a terra. E pria ne l'aura Aconte<br />
lasciò la vita. Conturbate e sparse<br />
le schiere de' Latini, incontinente<br />
con le targhe rivolte a tutta briglia<br />
vèr le mura spronando in fuga andaro.<br />
Gli seguiro i Troiani; e primo Asila<br />
gli assalse e gli cacciò fin su le porte.<br />
Qui fermi e rincorati alzan le grida,<br />
volgon le teste, e si rifan lor sopra,<br />
ch'eran lor contra. Cosí quando questi,<br />
e quando quelli or cacciano, or cacciati<br />
tornano: in quella guisa ch'a vicenda<br />
il mare or d'alto a riva i flutti increspa,<br />
e ne l'ultima arena ondeggia e spuma;<br />
or da la riva indietro se ne torna,<br />
e le stess'onde, e la commossa ghiara<br />
sorbendo e voltolando, si ritragge.<br />
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro<br />
fino a le mura; e i Rutuli due volte<br />
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto<br />
mischiârsi ambe le schiere, e l'un con l'altro<br />
vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi<br />
si sentîr de' cadenti: allor si vide<br />
il pian tutto di sangue, e tutto d'armi<br />
e d'uomini coverto e di cavalli<br />
feriti e morti. Orsíloco a rincontro<br />
di Rèmolo trovossi; e non osando<br />
di star seco a le mani, al suo cavallo<br />
trasse del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.<br />
Del colpo impazïente e per sé fiero<br />
si scosse, s'avventò, col petto in alto<br />
e con le zampe il corridor levossi,<br />
e 'n su l'arena il cavalier distese.<br />
Catillo Iola e 'l grande Erminio occise;<br />
Erminio, che di corpo e d'armi e d'animo<br />
era de' piú robusti, de' piú chiari<br />
e de' piú riguardevoli guerrieri<br />
de' Toschi tutti. Avea la chioma stessa<br />
per sua celata; avea gli omeri ignudi<br />
di ferro al ferro esposti, e di ferite<br />
ampio bersaglio. In su l'aperte spalle<br />
Catillo il colse; e tremolando il tèlo<br />
passogli il petto, e raddoppiogli il duolo.<br />
Per tutto si fa sangue; in ogni parte<br />
si tragge, si ferisce, si stramazza;<br />
e chi cede e chi segue. In varie guise<br />
ne van tutti a morir morte onorata.<br />
<br />
In mezzo a tanta occisïone, ignuda<br />
da l'un de' lati infurïando esulta<br />
la vergine Camilla; ed or di dardo<br />
fulminando, or di lancia, or di secure<br />
non mai stanca percuote. E qual Dïana<br />
di sonora faretra e d'arco aurato<br />
gli omeri onusta, ancor che si ritragga,<br />
saettando, ferite e morti avventa.<br />
D'intorno ha per compagne e per guerriere<br />
d'archi, di mazze e di bipenni armate,<br />
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri<br />
italiche donzelle, a suo decoro<br />
scelte da lei per sue degne ministre<br />
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza<br />
Termodoonte il bellicoso stuolo<br />
de l'Amazzoni sue vide in battaglia<br />
attorneggiare Ippolita, o col carro<br />
gir di Pentesilèa le schiere aprendo<br />
con feminei ululati. Or chi fu prima,<br />
chi poi, cruda virago, e quali e quanti<br />
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti<br />
mandasti a l'Orco? Eumenio primamente<br />
di Clizio il figlio, da costei trafitto<br />
fu d'un colpo di lancia in mezzo al petto.<br />
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,<br />
sopra cui voltolandosi, e mordendo<br />
il sanguigno terren, di vita uscio.<br />
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso<br />
quasi in un tempo, a l'un mentre, inciampando<br />
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro<br />
mentre a lui, che trabocca, il braccio stende<br />
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi<br />
precipitaro. A cui d'Ippòta il figlio<br />
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpàlico<br />
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.<br />
Quanti dardi lanciò, tanti Troiani<br />
gittò per terra. Orníto, un cacciatore,<br />
gli gia davanti, e stranamente armato<br />
cavalcava di Puglia un gran destriero:<br />
per sua corazza avea d'ispido toro<br />
un duro tergo; per celata un teschio<br />
di lupo, che dal capo insino al mento<br />
sbarrava le mascelle, e digrignando<br />
mostrava i denti. In man portava, ad uso<br />
di contadini, un nodoroso palo<br />
di grave ronca armato. Egli nel mezzo<br />
degli altri suoi con le due teste andava<br />
sovrano a tutti, e le ferine orecchie<br />
ergea di cresta e di pennacchi in vece.<br />
Camilla il giunse, lo fermò, l'occise<br />
senza contrasto, già che vòlta in fuga<br />
era la schiera sua. Sovra al suo corpo<br />
disse rimproverando: «E che pensasti,<br />
Tosco insolente? di venire a caccia<br />
in qualche selva, e seguir damme imbelli?<br />
Venuto sei là 've una dama armata<br />
col ferro amaramente vi rintuzza<br />
la superbia e la lingua. Oh pur non poco<br />
ti fia di vanto, referendo a l'ombre<br />
de' tuoi: per man fui di Camilla occiso».<br />
<br />
Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,<br />
due corpi de' maggiori e de' piú forti<br />
del troian oste. A Bute un colpo trasse<br />
che 'l giunse ove tra l'elmo e la corazza<br />
si scopre il collo, onde lo scudo appeso<br />
sta da sinistra. Orsíloco, fuggendo<br />
e gridando, gabbò; ch'al giro interno<br />
s'attenne e strinse; e là 've era seguita,<br />
seguitò lui. Gli fu sopra in un tempo<br />
a colpi di secure, e l'armi e l'ossa<br />
gli pestò sí che per suo scampo a' prieghi<br />
si volse. Alfine un tal sopra la testa<br />
ne gli piantò, che le cervella infrante<br />
gli schizzâr da la fronte e da le tempie.<br />
<br />
D'Àüno montanar de l'Appennino<br />
il bellicoso figlio a l'improvviso<br />
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,<br />
che per ordire inganni (in fin che 'l fato<br />
gliel concedé) non degli estremi avuto<br />
era tra' suoi. Costui nel primo incontro<br />
sbigottito fermossi. E poiché vide<br />
non poter con la fuga a lei sottrarsi,<br />
che gli era sopra, a la malizia usata<br />
ricorrendo: «Oh! gran prova, - a dir comincia -<br />
sarà la tua, se ben femina sei,<br />
di sfidar me, quando a un caval t'affidi<br />
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio<br />
rinunzia de la fuga e meco a piede<br />
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi<br />
a cui questa ventosa tua bravura<br />
onore acquisti». A cotal dir Camilla<br />
di furia, di dolor, di sdegno ardendo<br />
ratto dismonta; e 'l corridor deposto<br />
in man de la compagna, a piè si pianta;<br />
stringe la spada, imbracciasi lo scudo,<br />
e con pari armi intrepida l'attende.<br />
Il giovine, che vinto si credette<br />
aver con quello avviso, incontinente<br />
la groppa le mostrò del suo cavallo,<br />
e via spronando a tutta briglia il pinse.<br />
«Ligure vano, vano orgoglio in prima<br />
ti mosse: or vana astuzia e vana fuga<br />
sarà la tua; ché l'arte del fallace<br />
tuo padre, e di tua patria, a far non basta<br />
che vivo da le man mi ti ritolga».<br />
Disse la virgo, e qual da cocca strale<br />
dietro gli si spiccò: ratto l'aggiunse,<br />
passollo, attraversollo, al fren di piglio<br />
diedegli; lo ferí, l'ancise alfine.<br />
Cosí d'un alto sasso agevolmente<br />
sparvier grifagno al timido colombo<br />
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo<br />
sangue e piuma dal ciel neviga e piove.<br />
<br />
In questa, de' mortali e de' celesti<br />
l'eterno regnator, che pur talvolta<br />
alcun de' raggi suoi vèr noi rivolge,<br />
non con lieve disdegno o picciol'ira<br />
mosse Tarconte a sovvenir le schiere<br />
de' suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo<br />
va de l'occisïoni e de le mischie,<br />
or il destrier contra i nemici urtando,<br />
or le sue squadre inanimando, insieme<br />
le ristringe, le instiga, le garrisce,<br />
e per nome ciascun chiamando: «Ah, - disse, -<br />
Tirreni, e che timore, e che spavento<br />
è 'l vostro? che viltà, che codardia<br />
v'ha presi? e quando mai fia che vi punga<br />
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga<br />
gite per una femina? Una femina<br />
vi disperde e v'ancide? A che di ferro<br />
invan cosí le destre e i petti armate?<br />
De le donne temete? Or via, campioni<br />
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,<br />
a sacrifizi, allor che ne le sacre<br />
foreste è da l'aruspice intonato<br />
che la vittima e grassa, itene tutti<br />
seco a goder del saginato bue<br />
a piena pancia, ché null'altro amore,<br />
null'altro studio è 'l vostro». E, ciò dicendo,<br />
ne va come devoto a morte anch'egli.<br />
Con Vènolo s'affronta; e sí com'era<br />
turbato, l'aggavigna, e fuor lo tragge<br />
del suo cavallo. Alto levossi un grido<br />
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro<br />
i Latini e i Tirreni. Iva Tarconte<br />
per la campagna con la preda in grembo<br />
del nimico e de l'armi; e 'n mezzo al corso<br />
svelge da l'asta sua medesma il ferro,<br />
e cerca ov'è di piastra il corpo ignudo<br />
per darli morte. E mentre ne la gola<br />
tenta ferirlo, ei con le braccia in alto<br />
si scherma, regge il colpo, e da la forza<br />
quanto può con la forza si districa.<br />
<br />
Come ne l'aria insieme avviticchiati<br />
si son visti talor l'aquila e 'l serpe<br />
pugnar volando, e l'una aver con l'ugne<br />
e col becco ghermito e morso l'altro:<br />
e l'altro co' suoi giri e co' suoi nodi<br />
farle vincigli a' piè, volumi a l'ali;<br />
e questo con la testa alto fischiando,<br />
e quella schiamazzando e dibattendo,<br />
ambedue voltolarsi, ambedue stretti<br />
far di squame e di piume un sol viluppo;<br />
cosí Tarconte per lo campo a volo,<br />
vincitor de le schiere di Tiburte,<br />
Vènolo sen portava. E questo esempio<br />
del suo duce seguendo, e del successo<br />
assecurata, la meonia torma<br />
tutta contr'a Latini impeto fece.<br />
Tra questi Arunte, un che di già dovuto<br />
era al suo fato, con un dardo in mano<br />
Camilla astutamente insidïando,<br />
si diede a seguitarla, a circuïrla,<br />
a cercar destra e comoda fortuna<br />
di darle morte. Ovunque ella o per mezzo<br />
fendea le schiere, o vincitrice indietro<br />
si ritraea, l'era vicino Arunte;<br />
e tutti i moti suoi, tutte le vie<br />
osservando, attendea che netto il colpo<br />
gli rïuscisse; e da fellone intanto<br />
avea l'asta a ferir librata e pronta.<br />
<br />
Giva per avventura a lei davanti<br />
Cloro, un giovine idèo che sacerdote<br />
era già di Cibele. I Frigi tutti<br />
non avean chi di lui fosse ne l'armi<br />
piú riccamente adorno. Un suo corsiero<br />
per lo campo spingea, di spuma asperso,<br />
cinto di barde e d'acciarine lame<br />
come di scaglie e di leggiadre piume<br />
leggiadramente inteste. Un arco d'oro<br />
gli pendea da le spalle, una faretra<br />
a la cretese. In testa, in gambe, in dosso<br />
d'armi e d'arnesi in barbara sembianza,<br />
di peregrina porpora e di seta,<br />
di bisso, di teletta e d'ostro e d'oro<br />
tutto coverto, tutto ricamato,<br />
tutto trinciato; e saettando andava.<br />
<br />
Costui veduto, ogni altra impresa indietro<br />
lasciando, a lui si volse o per vaghezza<br />
di consecrar le sue bell'armi al tempio,<br />
o pur che di sí vago ostile arnese<br />
di gir pomposa cacciatrice amasse.<br />
Basta che per le schiere incauta, ardente,<br />
e, come donna, vogliolosa e folle<br />
de l'amor de la preda e de le spoglie,<br />
contro a lui se ne giva; allor ch'Arunte,<br />
dopo molto appostarla, alfin le trasse<br />
in tal guisa pregando: «O di Soratte<br />
sommo custode, Apollo, a cui devoti<br />
noi fummo in prima, a cui di sacri pini<br />
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi<br />
tra le fiamme saltando e per le brage<br />
securamente e senza offesa andiamo,<br />
dammi, ché tutto puoi, padre benigno,<br />
che questa infamia per mia man si tolga<br />
da l'armi nostre. Io di costei non bramo<br />
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti<br />
mi sian di lode, e pur che questo mostro<br />
caggia spento da me, ne la mia patria<br />
senza piú gloria andrò di questa guerra<br />
pago e contento». Udí Febo del vóto<br />
parte, e parte per l'aura ne disperse.<br />
Udí che morta da quel colpo fosse<br />
la vergine Camilla; e non udio<br />
di lui, ch'ei vivo in patria ne tornasse;<br />
ché ciò per l'aura ne portaro i vènti.<br />
<br />
Tosto che da le man l'asta ronzando<br />
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida<br />
de' Volsci tutti a la regina intenti.<br />
Ed ella né del tèlo, né de l'aura<br />
moto o fischio sentí; né vide il colpo,<br />
mentre giú discendea, finché non giunse.<br />
Giunsele a punto ove divelta e nuda<br />
era la poppa; e del virgineo sangue,<br />
non già di latte, sitibonda scese<br />
sí che 'l petto l'aprí. Le sue compagne<br />
le fûr trepide intorno; e già che morta<br />
cadea, la sostentaro. Arunte in fuga<br />
ratto si volge, di paura insieme<br />
turbato e di letizia; ché ne l'asta<br />
piú non confida, e piú di star non osa<br />
incontro a lei. Qual affamato lupo<br />
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,<br />
o lo stesso pastore, in sé confuso<br />
di tanta audacia, anzi che da' villaggi<br />
gli si levin le grida, infra le gambe<br />
si rimette la coda, e ratto a' monti<br />
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa<br />
Arunte, dopo 'l tratto, impaürito,<br />
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi<br />
si mischiò tra le schiere. Ella, morendo,<br />
di sua man fuor del petto il crudo ferro<br />
tentò svelgersi indarno; ché la punta<br />
s'era altamente ne le coste infissa:<br />
onde languendo abbandonossi, e fredda<br />
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi<br />
scintillavano ardor, grazia e fierezza,<br />
si fêr torbidi e gravi. Il volto, in prima<br />
di rose e d'ostro, di pallor di morte<br />
tutto si tinse. In tal guisa spirando,<br />
Acca a sé chiama, una tra l'altre sue<br />
la piú fida di tutte e la piú cara;<br />
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei<br />
son qui finiti: questa acerba piaga<br />
m'adduce a morte, e già nero mi sembra<br />
tutto che veggio. Or vola, e da mia parte<br />
di' per ultimo a Turno che succeda<br />
a questa pugna e la città soccorra;<br />
e tu rimanti in pace». A pena detto<br />
ebbe cosí, che abbandonando il freno<br />
e l'arme e sé medesma, a capo chino<br />
traboccò da cavallo. Allora il freddo<br />
l'occupò de la morte a poco a poco<br />
le membra tutte. E, dechinato il collo<br />
sopra un verde cespuglio, alfin di vita<br />
sdegnosamente sospirando uscio.<br />
Camilla estinta, per lo campo un grido<br />
levossi che n'andò fino a le stelle,<br />
e surse al cader suo zuffa maggiore;<br />
ché i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo<br />
pinsero avanti. Opi, ministra intanto<br />
di Trivia, che nel monte era discesa<br />
vicino a la battaglia, indi il conflitto<br />
stava mirando intrepida e sicura,<br />
e visto di lontan tra molte genti<br />
nascer nuovo tumulto e nuove grida,<br />
poscia in mezzo di lor caduta e morta<br />
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando<br />
disse, - virgo infelice! troppo, troppo<br />
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,<br />
se d'irritar l'armi troiane osasti.<br />
E di che pro t'è stato a viver nosco<br />
solinga vita, armar de l'armi nostre,<br />
gradire i boschi e venerar Dïana?<br />
Ma te non lascerà la tua regina<br />
giacer disonorata in questa fine<br />
de la tua vita; e la tua morte oscura<br />
non sarà tra le genti; e non dirassi<br />
che non è chi di te vendetta faccia;<br />
ché chïunque di ferro avrà ferito<br />
il corpo tuo, sarà meritatamente<br />
di ferro anciso». Era a Dercenno, antico<br />
re de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,<br />
cui sopra era di terra un monte imposto<br />
e d'elci annosi e folti un bosco opaco.<br />
Qui la veloce dea dal ciel calossi<br />
al primo volo; e di qui visto Arunte<br />
splender ne l'armi, e gir di sua follia<br />
superbo e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -<br />
qui convien che ti fermi, e qui morendo<br />
de la morta Camilla il premio avrai<br />
degno di te, se di perir sei degno<br />
de l'armi di Dïana». E, ciò dicendo,<br />
la buona arciera del turcasso aurato<br />
trasse un acuto strale, e l'arco tese,<br />
e tirò sí ch'ambe le corna estreme<br />
vennero al mezzo, ed ambe parimente<br />
le mani, una tirata e l'altra spinta,<br />
quella toccò la poppa e questa il ferro.<br />
L'arco, l'aura, lo stral sonare udio,<br />
e ferir e morir sentissi Arunte<br />
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio<br />
cosí come spirava, in mezzo al campo<br />
lo lasciâr fra la polve in abbandono;<br />
ed Opi al ciel tornando a volo alzossi.<br />
<br />
Caduta lei, la schiera di Camilla<br />
primieramente in fuga si rivolse.<br />
Indi turbârsi i Rutuli, e diêr volta.<br />
Diè volta il fiero Atina; e i duci tutti,<br />
e tutte fûr le insegne abbandonate.<br />
Cerca ognun di salvarsi, e vèr le mura<br />
ne vanno a tutta briglia, e piú nel campo<br />
alcun non è che di far testa ardisca<br />
contra la strage e contra la ruina<br />
che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi<br />
scarichi in su le terga e spenzoloni;<br />
e piú che di galoppo in vèr Laurento<br />
battono il campo, e fan nubi di polve.<br />
Le madri da' balconi e da' torrazzi<br />
percossi i petti, alzano al ciel le grida<br />
con femineo ululato. E quei che primi<br />
giunti trovâr le porte ancor non chiuse,<br />
mischiati co' nemici, ove piú salvi<br />
si credean ne l'entrata e fra le mura<br />
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi<br />
lor propri e da' nemici e da la morte<br />
fûr sopraggiunti. In cotal guisa in prima<br />
stette la porta agli avversari aperta;<br />
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda<br />
restando de' nemici, ai lor piú cari,<br />
che morir gli vedean, perché s'aprisse<br />
supplicavano indarno. E qui tra quelli<br />
che n'erano a difesa, e quei ch'a forza,<br />
anzi a furia, a ruina incontro a loro<br />
s'avventavan ne l'armi, orrenda strage<br />
si fece e miseranda. E degli esclusi<br />
altri in cospetto degli stessi padri,<br />
e de le madri che dogliose grida<br />
ne facean da le torri e da le mura,<br />
da l'impeto cacciati o da la calca<br />
precipitâr ne' fossi, e giú da' ponti<br />
cadder sospinti; ed altri ne la fuga<br />
da' sfrenati cavalli e da la cieca<br />
lor furia trasportati, a dar di cozzo<br />
gîr ne le chiuse porte. In su' ripari<br />
ancor le donne (che le donne ancora<br />
il vero della patria amore infiamma),<br />
come giunte a l'estremo, allor che morta<br />
vider Camilla, il femminil timore<br />
volgono in sicurezza, e sassi e dardi<br />
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati<br />
pali il ferro imitando, osano anch'elle<br />
per la difesa delle patrie mura<br />
gir le prime a morir morte onorata.<br />
<br />
A Turno intanto ne le selve arriva<br />
Acca, la già spedita messaggiera,<br />
con l'amara novella; un gran tumulto<br />
portando, che l'esercito è sconfitto,<br />
morta Camilla, annichilati i Volsci,<br />
e i Teucri d'ogni cosa impadroniti<br />
stanno in campagna col favor che porta<br />
seco de la vittoria il corso e 'l nome;<br />
assalgon la città. D'ira, di sdegno<br />
e di furore il giovine infiammato<br />
(ché tale era il voler empio di Giove)<br />
da l'insidie si toglie, esce de' boschi<br />
ov'era ascoso, e giú scende da' colli.<br />
Smarriti non gli avea di vista a pena,<br />
a pena era nel piano, allor ch'Enea<br />
prese del monte; e là 'v'era l'agguato,<br />
trovando aperto, senz'offesa anch'egli<br />
superò 'l giogo, e de la selva uscio.<br />
Cosí con passi frettolosi entrambi<br />
con tutte le lor genti, e l'un da l'altro<br />
poco lontani a la città sen vanno.<br />
E 'nsiememente da l'un canto Enea<br />
vide di polverio fumare i campi,<br />
e di Laurento sventolar l'insegne;<br />
Turno da l'altro Enea scoperse, udendo<br />
l'annitrir de' cavalli e 'l calpestio<br />
crescer di mano in mano. Eran vicini<br />
sí, che venuto a zuffa ed a battaglia<br />
si fôra anco quel dí: se non che Febo,<br />
fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri<br />
stava già per tuffar ne l'onde ibère;<br />
onde avanti a le mura ambi accampati<br />
di trincee si muniro e di ripari.
{{capitolo
|CapitoloPrecedente=Libro decimo
|NomePaginaCapitoloPrecedente=Eneide/Libro decimo
|CapitoloSuccessivo=Libro decimosecondo
|NomePaginaCapitoloSuccessivo=Eneide/Libro decimosecondo
}}
 
[[en:Aeneid/Book XI]]
Il mese scorso durante un viaggio verso Roma per un convegno di studi ho avuto necessita' di fermarmi in una piazzola dell' autostrada per un bisogno impellente. Quando arrivo vedo un camion parcheggiato. Solo l' idea di sapere che ci sono dei camionisti mi fa' eccitare.
[[la:Aeneis - Liber XI]]
 
Scendo dall' auto e raggiungo i bagni per scaricarmi.
 
Entrando vedo due camionisti che si svuotano la vescica. Sono emozionato all' idea di poter vivere un' avventura. Scelgo un orinatoio a muro. Mi slaccio i pantaloni e tiro fuori l' uccello. Cerco di concentrarmi, ma il mio sguardo corre nervoso verso i due. Uno e' molto alto e robusto, ma muscoloso. L' altro e' longilineo, ma sempre muscoloso.
 
- Che hai da guardare? Mi dice quello grosso, girandosi e mostrando un cazzone notevole, anche se moscio.
 
- Niente. Dico nervoso.
 
Alla vista di quell' arnese rimango un attimo di troppo a fissarlo.
 
- Ti piace? Lo vuoi?
 
Rimango muto.
 
- Gianni, dice all' amico, mi sa che abbiamo trovato un succhiacazzi.
 
A quelle parole il mio cazzo inizia a indurirsi. I due se ne accorgono. Si avvicinano con le patte ancora aperte e mi circondano.
 
- Dai, facci vedere come sei bravo, quanto ti piace il cazzo. Mi dicono, mentre mi prendono le mani e le posano sulle loro nerchie. Inizio a segarli. Dopo un po' il mio lavoro produce i suoi effetti. I due cazzi si mostrano in tutta la loro maesta'. Mentre continuo a masturbarli, Luca (cosi' si chiama il gigante) mi attira a se e inizia a baciarmi. Iniziamo uníintenso gioco di lingua. Gianni, intanto, mi slaccia i pantaloni e me li fa' cadere. Con una mano inizia a segarmi, mentre con l' altra mi palpa il culo, cercando di raggiungere il buchetto.
 
Sono sempre piu' eccitato. La mia lingua gioca furiosamente nella bocca di Luca. Dopo alcuni minuti Luca si stacca e mi spinge il viso verso il basso. Gli slaccio la camicia e inizio a leccargli le mammelle pelose. Arrivo al capezzolo e lo succhio furiosamente.
 
- Dai succhia che dopo ti disseto. Mi dice Luca.
 
Gianni intanto si piega dietro di me e con la lingua mi insaliva il buco del culo.
 
Il piacere e' grande. Non resisto. Continuando a leccare, scendo verso la fonte del piacere. Inizio a leccare quel magnifico cazzone. La mia lingua scorre fino alle palle, veramente notevoli. Ne prendo una in bocca e l' insalivo ben bene. Inizio a giocare di bocca su quel bel paio di coglioni, immaginando quanto succo potro' bere. Le mie mani non si fermano e raggiungono il culone di Luca. Mentre lo palpo un dito si insinua nel solco e lo infilo nel buco. Luca emette un gemito di approvazione. Gianni, intanto inizia a infilarmi un dito nel culo e a rovistarmi bene, per prepararmi all' inculata.
 
- Basta giocare. Mi fa' Luca, costringendomi a prendere in bocca l' uccello. Inizio a leccare la cappella, soffermandomi sul filetto. Mi concentro nel pompino. Voglio dimostrare la mia bravura di troia navigata. Gianni intanto mi infila un altro dito dietro. Dopo un po' smette. Ma subito sento il suo cazzo premere per entrare. Mi prende per i fianchi e con una spinta poderosa me lo schiaffa tutto nel culo. La spinta mi fa ingoiare il cazzo di Luca. Non posso gridare, ma il dolore e' tanto. Seppur piu' piccolo di Luca, il cazzo di Gianni e' lo stesso grosso. Dopo un attimo di pausa inizia a stantuffarmi, prima lentamente, poi sempre piu' velocemente. Piano piano mi abituo a quella presenza e inizio a succhiare con foga il cazzo di Gianni. Questi mi prende per la testa e inizia a scoparmi in bocca. Intanto la mia lingua gioca con il suo bastone caldo e duro.
 
- Che pompinara che sei. Sei una succhiacazzi coi fiocchi. Mi dice Luca, sempre piu' eccitato.
 
- Ha un culo da sballo. Ribatte Gianni, mentre mi stantuffa il culo. Poi si piega e inizia a leccarmi l'orecchio.
 
Il mio cazzo e' sempre piu' duro. Sto godendo come non mai. Dopo 10 minuti i due si danno ilo cambio. Luca fa fatica a entrare: e' veramente grosso.
 
-Hai un culetto ancora stretto. Fra un po' avrai una caverna. Prendi questa supposta calda. Mi fa sempre piu' infoiato, dandomi una forte sculacciata. Intanto inizio a pompare il cazzo di Gianni, ormai pronto a esplodere. Lo sento crescere in bocca. Lo tiro fuori e lo masturbo con foga.
 
-Prendi troia. Mi fa Gianni inondandomi il viso con un potente getto di sborra. Apro la bocca e gli altri getti mi colpiscono direttamente in bocca, un fiume che sembra non finire. L' assaporo con gusto e piano piano l' ingoio, gustandomela. Veramente buona. Intanto Luca continua a stantuffarmi sempre piu' decisamente, schiaffeggiandomi le chiappe.
 
- Puliscimelo, succhacazzi. Mi fa Gianni. Non me lo faccio ripetere. Lo riprendo in bocca e inizio a leccarlo.
 
Luca e' all' apice del piacere. Me lo toglie dal culo e bruscamente mi gira verso di se e mi inonda la faccia con 5 schizzi potentissimi.
 
- Prendi troia succhiacazzi. Puttana rottainculo bevi la sborra che ti piace.
 
Mentre sborra cerco di prenderne piu' possibile in bocca. Alcuni getti mi hanno ridotto la faccia a una maschera di sborra. Quando finisce inizio a leccargli il cazzo e lo ripulisco per bene.
 
Non contento cerco con la lingua di leccare la sborra vicino alla bocca. Poi con un dito ne raccolgo dal viso e inizio a leccarlo. Intanto mi masturbo. Appena mi tocco inizio a sborrare sul pavimento gridando di gioia.
 
- Brava. Sei una troia splendida. Sei nata per succhiare il cazzo. Mi dice Luca sorridendo compiaciuto, mentre mi da una manata sul culo.
 
Mi pulisco il viso con della carta. Gianni e Luca intanto si sono rivestiti. Mi circondano e iniziano a palparmi con foga. Luca mi bacia con foga. Le nostre lingue si intrecciano. Gianni, intanto mi palpa il culo e mi bacia sul collo.
 
Sentiamo dei rumori di camion in arrivo. Gianni e Luca allora si staccano da me.
 
- Grazie. Sei stata splendida. Se vuoi ogni mese al martedi' noi passiamo qui. Mi dicono salutandomi e tastandomi il culo. Io li saluto toccandogli le patte e leccandomi le labbra.
 
Sono ancora nudo. Mi tocco il buco del culo. Dopo il trattamento subito e' una caverna. Cerco di ricompormi prima che arrivi qualcuno, pensando che il convegno ha avuto un ottimo preludio. Mentre sono piegato per cercare di infilarmi i boxer sento delle voci.
 
- Vedi, vedi, abbiamo un frocetto qui. Sento dire alle mie spalle.
 
Ma questa e' un'altra storia...