Pagina:Il Baretti - Anno I, n. 1, Torino, 1924.djvu/2: differenze tra le versioni

Nessun oggetto della modifica
Nessun oggetto della modifica
 
Corpo della pagina (da includere):Corpo della pagina (da includere):
Riga 33: Riga 33:
Contavano forse gli accenti nudi e lo scherno e il disprezzo — talvolta urtanti fino a una sensazione fisica, violenti quasi carnalmente? Quelle illazioni che non capivamo, quelle ripetute interferenze con la vita pratica quale, più o meno, si facevan tutti, con la nostra casa e gl’insegnamenti paterni e la nostra religione? Ma chiunque, s’è detto, a una cert’ora è nemico della casa, e non c’era davvero per noi ragazzi l’assillo della vita logica. Si deve dire che anche negli attacchi più poderosi, o nelle parole oscure (come oscure quand’erano, mettiamo, del limpido Croce e filosofiche noi si trovava molta sodisfazione. Il formato del giornale, la spigliatezza de’ suoi consigli e delle sue note, quell’aria di brevità provvisoria, il suo gusto elastico, la sua caparbietà giovanile (quando non c’era di meglio; e cioè le pagine di lirica e d’autobiografia) ci facevano da ottimo condimento, da appetitoso invito per gli altri scritti più sostanziosi; e c’inducevano in tale spensieratezza d’umore che si sarebbe giurato di capirli. Si camminava, bendati, sull’orlo di caotici abissi, e ci s’illudeva dì veder smagliare, sotto un bel sole d’oro, i prati più freschi. Se, come accadeva, si cominciava a scoprirla, ci si beava di questa contraddizione; in piena avventura spirituale ci si manteneva candidi e allegri.
Contavano forse gli accenti nudi e lo scherno e il disprezzo — talvolta urtanti fino a una sensazione fisica, violenti quasi carnalmente? Quelle illazioni che non capivamo, quelle ripetute interferenze con la vita pratica quale, più o meno, si facevan tutti, con la nostra casa e gl’insegnamenti paterni e la nostra religione? Ma chiunque, s’è detto, a una cert’ora è nemico della casa, e non c’era davvero per noi ragazzi l’assillo della vita logica. Si deve dire che anche negli attacchi più poderosi, o nelle parole oscure (come oscure quand’erano, mettiamo, del limpido Croce e filosofiche noi si trovava molta sodisfazione. Il formato del giornale, la spigliatezza de’ suoi consigli e delle sue note, quell’aria di brevità provvisoria, il suo gusto elastico, la sua caparbietà giovanile (quando non c’era di meglio; e cioè le pagine di lirica e d’autobiografia) ci facevano da ottimo condimento, da appetitoso invito per gli altri scritti più sostanziosi; e c’inducevano in tale spensieratezza d’umore che si sarebbe giurato di capirli. Si camminava, bendati, sull’orlo di caotici abissi, e ci s’illudeva dì veder smagliare, sotto un bel sole d’oro, i prati più freschi. Se, come accadeva, si cominciava a scoprirla, ci si beava di questa contraddizione; in piena avventura spirituale ci si manteneva candidi e allegri.


Sarebbe segno di una molto illusoria saggezza mettersi ora a rimpiangere un’educazione sciupata, e siano forse tratti ormai a sopravalutare, per rancore, la coltura, gl’interessi che ci mancano. Certo il nostro tipo dello scolaro di licèo, che ci rimane in cuore come l’unico tipo che si sia giunti finora a vivere, come una dolce e ilare parte che s’è rappresentata consumandovi tutta il nostro fervore, stacca di molto dai precedenti e dai seguenti. S’era assunta, e per sentimento intimo, non per istigazione dei pedagoghi riformatori di cui non leggevamo le pagine, un’aria da autodidatti, ci si faceva critici e concorrenti dei nostri professori. E’ raro il caso che le loro lezioni trovassero in noi un animo vergine; ci si armava di mille pregiudizi, si sfoggiavano decise opinioni su le materie che non si conoscevano ancóra. Può darsi che qualche volta si riuscisse così a collaborare, che certi argomenti, per un nostro disordinato interesse preventivo, si riuscisse a possederli un po’ meglio che a fil di logica, o di cronologia; ma come spesso si pigliavan le cose sotto gamba, e non si stava nemmeno a ascoltare, perchè ci si sentiva «superiori»! Questa era la fine dei latino, non parliamo di Cicerone, che a ammirarlo ci sarebbe sembrato una colpa morale, ma di Tacito e di Virgilio, e, ahimè, anche del greco — ché le nostre passioni letterarie stavano confinate in una certa «modernità» dove entravano Dante o Leopardi, Michelangiolo e Campanella; ma ne erano banditi Petrarca, Ariosto e Foscolo; non che li considerassimo maestri cattivi e pericolosi, ci parevan soltanto inutili, incapaci di darci un fremito, di rispondere ai nostri bisogni d’espressione.
Sarebbe segno di una molto illusoria saggezza mettersi ora a rimpiangere un’educazione sciupata, e siano forse tratti ormai a sopravalutare, per rancore, la coltura, gl’interessi che ci mancano. Certo il nostro tipo dello scolaro di licèo, che ci rimane in cuore come l’unico tipo che si sia giunti finora a vivere, come una dolce e ilare parte che s’è rappresentata consumandovi tutta il nostro fervore, stacca di molto dai precedenti e dai seguenti. S’era assunta, e per sentimento intimo, non per istigazione dei pedagoghi riformatori di cui non leggevamo le pagine, un’aria da autodidatti, ci si faceva critici e concorrenti dei nostri professori. E’ raro il caso che le loro lezioni trovassero in noi un animo vergine; ci si armava di mille pregiudizi, si sfoggiavano decise opinioni su le materie che non si conoscevano ancóra. Può darsi che qualche volta si riuscisse così a collaborare, che certi argomenti, per un nostro disordinato interesse preventivo, si riuscisse a possederli un po’ meglio che a fil di logica, o di cronologia; ma come spesso si pigliavan le cose sotto gamba, e non si stava nemmeno a ascoltare, perchè ci si sentiva «superiori»! Questa era la fine del latino, non parliamo di Cicerone, che a ammirarlo ci sarebbe sembrato una colpa morale, ma di Tacito e di Virgilio, e, ahimè, anche del greco — ché le nostre passioni letterarie stavano confinate in una certa «modernità» dove entravano Dante o Leopardi, Michelangiolo e Campanella; ma ne erano banditi Petrarca, Ariosto e Foscolo; non che li considerassimo maestri cattivi e pericolosi, ci parevan soltanto inutili, incapaci di darci un fremito, di rispondere ai nostri bisogni d’espressione.


Eppure, si faceva figura d'essere e ci si stimava buoni scolari. S’era anzi convinti che la vera scuola cominciasse con noi, e che i metodi, la pazienza, la dottrina dei maestri fossero roba superflua e di noi non degna, quasi un impiccio alla nostra voglia e al nostro ardore. Si aveva quindi bisogno di testi differenti da quelli ufficiali, d’un dopo-scuola che fosse un contro-scuola. Anche per questo ufficio la ''Voce'' era perfetta. C’insegnava a odiare la gente meticolosa e studiosa, a diventar arroganti con quei, diciamo, scienziati che incuton terrore e stizza ai ragazzi perchè hanno descritta sulla faccia una vita di stenti senza successi e senza nemmeno orgoglio. C’erano davvero già a quell’ora in noi i germi d’un avvenire disastroso; capaci di sognare a occhi aperti e di immaginarci d’esser grandi, soltanto fra di noi si manteneva un tono equilibrato e da bravi figliuoli; di fronte agli altri s’era sempre con l’animo in battaglia, col desiderio della prepotenza. Sdegnavamo i rapporti soliti: non ci si contentava più delle beffe ai professori, degl’immaturi disordini e delle momentanee pazzie; ogni cosa portavamo su un piano tragico, da ogni infantile prodezza volevamo trarre ragione d’orgoglio e di dignità. Alle suggestioni più semplici e più naturali si voleva restar sordi, chissà quale miracolo ci pareva di sentirci inappagati, di, a poco a poco, escludere e svalutare l’azione, come cosa inutile, o quasi a noi ostile. S’era spostato il campo delle difficoltà e degli stimoli per quell’ebbrezza che ci toglieva di vedere le cose rettamente; ci si pasceva di questioni teoriche che quasi non si capivano, o la vita pratica ci affliggeva con fantastiche imaginarie ombre paurose. Di qui anche nasceva il desiderio delle riforme, sebbene in questo si andasse un po’ cauti; e uno fede tutta astratta nell’avvenire, come un’attesa di cosa straordinarie.
Eppure, si faceva figura d'essere e ci si stimava buoni scolari. S’era anzi convinti che la vera scuola cominciasse con noi, e che i metodi, la pazienza, la dottrina dei maestri fossero roba superflua e di noi non degna, quasi un impiccio alla nostra voglia e al nostro ardore. Si aveva quindi bisogno di testi differenti da quelli ufficiali, d’un dopo-scuola che fosse un contro-scuola. Anche per questo ufficio la ''Voce'' era perfetta. C’insegnava a odiare la gente meticolosa e studiosa, a diventar arroganti con quei, diciamo, scienziati che incuton terrore e stizza ai ragazzi perchè hanno descritta sulla faccia una vita di stenti senza successi e senza nemmeno orgoglio. C’erano davvero già a quell’ora in noi i germi d’un avvenire disastroso; capaci di sognare a occhi aperti e di immaginarci d’esser grandi, soltanto fra di noi si manteneva un tono equilibrato e da bravi figliuoli; di fronte agli altri s’era sempre con l’animo in battaglia, col desiderio della prepotenza. Sdegnavamo i rapporti soliti: non ci si contentava più delle beffe ai professori, degl’immaturi disordini e delle momentanee pazzie; ogni cosa portavamo su un piano tragico, da ogni infantile prodezza volevamo trarre ragione d’orgoglio e di dignità. Alle suggestioni più semplici e più naturali si voleva restar sordi, chissà quale miracolo ci pareva di sentirci inappagati, di, a poco a poco, escludere e svalutare l’azione, come cosa inutile, o quasi a noi ostile. S’era spostato il campo delle difficoltà e degli stimoli per quell’ebbrezza che ci toglieva di vedere le cose rettamente; ci si pasceva di questioni teoriche che quasi non si capivano, o la vita pratica ci affliggeva con fantastiche imaginarie ombre paurose. Di qui anche nasceva il desiderio delle riforme, sebbene in questo si andasse un po’ cauti; e uno fede tutta astratta nell’avvenire, come un’attesa di cosa straordinarie.