I suicidi di Parigi/Episodio secondo/IV: differenze tra le versioni

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Una settimana passò.
 
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Il principe non uscì dai suoi appartamenti. Altri che Ivan non vi fu ammesso. A Maud e ad Alessandro, che andavano ogni giorni a chiedere nuove di lui, il laconico guardiano rispondeva invariabilmente:
 
- Meglio, ma non ancora in istato di ricevere.
 
Infine, un mattino, quando il conte si presentò per udire il bollettino ordinario sulla salute di suo fratello, Ivan gli disse:
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- Il principe sta bene. Egli è uscito or ora a cavallo, e vi prega, padrone, di andarlo a raggiungere nello sboscato del lago.
 
- Non à detto altro?
 
- No, padrone.
 
Alessandro uscì, preoccupato.
 
Qualche minuto dopo saliva a cavallo.
 
Era una bella giornata in sul finire di maggio. Faceva ancor freddo come in febbraio a Palermo, ma la neve aveva fuso. Gli alberi delle foreste si coprivano di giovani foglie. Il sole svestiva le sue ultime nuvole e si alzava sereno e pomposo. Le viole smaltavano le macchie. Gli uccelli, disgelati, provavano melodie - per accertarsi che il freddo del verno non li aveva arraucati. Il cielo era puro, ma di un turchino grigiastro, ove una brezza tagliente ed uggiosa sforzavasi a connettere dei lembi di nuvole bianche.
 
Le bestie, magre e sporche, che aveano passato l’inverno negli stabbi, covavano i campi e la foreste di uno sguardo gaudioso, tosando qui un ciuffo di giovani erbe, decapitando là le cime degli arbusti. Il contadino, la contadina, sollecitavansi a dimandare alla terra la sussistenza del nuovo anno. Tutto spirava la giovinezza, la gioia, la pletora della vita che spandesi al di fuori. Un soffio di amore avviluppava la creazione, che sembrava palpitare e sorridere.
 
Un uomo solo trascinavasi quivi, tetro e freddo come le notti della Siberia: il principe di Lavandall.
 
Egli aveva legato il suo cavallo ad un cespo, ed erasi assiso sur un tronco di albero, alle sponde del lago.
 
Il lago azzurro corruscava, sotto i raggi del sole, come un monile di diamanti alle faci di una festa. Il principe contemplava il respirare delle onde; ma non scorgeva nulla. Imbaccucato in ampia pellicia, egli meditava, o piuttosto continuava il vaneggiamento che l’assorbiva da otto giorni. E’ non si accorse neppure dell’arrivo di suo fratello.
 
Il conte Alessandro, da che scorselo da lontano, accelerò il passo, discese da cavallo, ed avanzò verso il principe, gridando:
 
- Eccomi qui, Pietro.
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Il principe fece una mossa come qualcuno che si risveglia di soprassalto, e fissò il suo sguardo freddamente violento e acuto sul sembiante aperto del giovane.
 
Il conte gli aveva tesa la mano.
 
E’ non toccolla.
 
- Pietro - disse il conte un po’ sconcertato dell’attitudine sinistra di suo fratello - mi avete fatto avvertire di venirvi a trovar qui. Sono felice di vedervi.
 
E stese di nuovo la destra, cui il principe si astenne dallo stringere.
 
- Conte Alessandro di Lavandall - sclamò egli infine di una voce lenta e cavernosa - avevate desiderato di conoscere il mistero della mia vita. L’avete conosciuto; l’avete visto.
 
- Fratello - mormorò il conte mettendosi le mani sul volto - io ne sono annientato.
 
- Io pure - continuò il principe senza porre mente alle parole del fratello - io pure, io, voleva sapere. O’ saputo; ò visto.
 
Alessandro impallidì e traballò.
 
- Ebbene - soggiunse il principe - poichè vi aveste il malanno di avvicinare le vostre labbra a questa coppa di fango e di lagrime, cioncatela tutta, fino alla belletta. Sappiatevi il resto.
 
Alessandro incrocciò le braccia sul petto, e restò impiedi, lo sguardo al suolo, l’aria costernata.
 
- Io sono un misero - sclamò il principe di una voce sorda e concentrata. A venticinque anni, colmo di tutti i favori della fortuna, io desidero la morte. Mi dicono avvenente; son di gran nascimento; sono ricco... e fo orrore! Io invidio la sorte del mendicante ebreo, cui i cani mordono all’uscio nostro: e’ non è che povero! Io mi ebbi bello ad interrogare la scienza. Questa cortigiana, non à sorriso per la sventura. Essa civetta con le piccole malattie. Biascica nonsensi, in presenza di quei castighi fatali che si addimandano tisi, apoplessia, epilessia, gotta, ed il resto. Mi son tuffato nello studio, nelle feste, nei viaggi, nei pericoli i più insensati, onde, almeno, obliare. In capo a tutto ò trovato quest’orrido spettro... Ed il mondo sclama sul mio passaggio: che à dunque fatto quest’uomo alla Provvidenza per strapparlo lo scrigno delle felicità?!
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- Ah! se sapessero!... - mormorò Alessandro.
 
- Proprio così; perocchè, quando si seppe, il ritornello cangiò. Il tempo delle prove arrivò. Pensai ad ammogliarmi.
 
Alessandro abbrividì.
 
Il principe avvertì quel sussulto.
 
- Incontrai nei saloni di Parigi una stolidella, figlia di un conte mendicante, debosciato, spia della corte di Roma, strumento dei gesuiti. Io non avrei voluto toccare della punta delle dita la donzella, della punta dei piedi il padre. La chiesi in matrimonio<ref>Nell’originale "matrimoni".</ref> e feci la corte al sacripante. Tutto vola sulle ali di oro, cui io appicco all’affare, e gli sponsali si fissano. Io condussi il padre nel suo gabinetto, e gli dissi:
 
" - Conte, ò un segreto a rivelarvi.
 
" - Che dunque? - sclamò il facchino - Sareste voi che avete ucciso l’imperatore Alessandro?
 
" - E se ciò fosse? - risposi io, facendomi violenza per non schiaffeggiarlo - mi rifiuteresti voi la vostra figliuola?
 
" - Io direi - replicò il conte - uccidete lo tzar Nicola.... Questo cancella quello. E vi consegnerei mia figlia.
 
" - Voi mi confortate - ripresi io con un sorriso di sprezzo non dissimulato. Ma io sono meno colpevole di così. Il mio segreto è questo: io sono epilettico.
 
Il conte si alzò e salutò.
 
" - Principe mio - diss’egli - se io avessi a fare ad un borghese arricchito, ad un plebeo liscivato alla savonnette à vilain, a cui io avessi promesso mia figlia per ragione dei suoi scudi, io direi: Puah! - E chiamerei il mio lacchè per ordinargli: Riconduci il signore!
 
" - Bene - sussurai io fremendo - ed a me che dite voi, signor conte?
 
" - Principe - continuò egli - voi sapete che io non amo mica mia figlia alla follia. Malgrado ciò, io ò la coscienza di dirvi: principe, permettetemi che io ritiri la mia parola. L’epilessia in Francia fa orrore. Essa è considerata come una malattia ridicola ad un tempo che sordida."
 
- Noi non seppimo mai nulla di codesto - osservò Alessandro.
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- Vel celarono. Tutta Parigi conobbe che io aveva toccato un rifiuto da quel conte alle piccole limosine. Viaggiai. Conobbi a Roma un’altra giovinetta. Ella era bella, figlia del popolo, artista, senza pregiudizi, povera, piana di spirito.... Al posto mio, altri avrebbe provato di farsi di lei una ganza. E perchè no? Kaunitz diceva a Maria Teresa: che ogni donna diviene ganza dell’uomo che può sborsarne il prezzo. Io aveva il prezzo di Aurora Mortier. La dimandai, al contrario, in matrimonio. Questa volta non mi diressi ai parenti, ma a lei stessa, alla persona interessata:
 
" - Mio bell’angelo - le dissi - questo fiore, che vi sembra sì bello, à un intacco; esso è stato morsicato da un bruco. Io sono epilettico.
 
"Aurora rinculò all’altra estremità dello studio, e gridò:
 
" - Giammai, principe, giammai! Io non mi caccierò mai in fra le braccia di un uomo che, volendomi dare un bacio, può spezzarmi la spina dorsale in un accesso di convulsione."
 
- Insolente! - sclamò Alessandro.
 
- Ella aveva ragione - riprese il principe sospirando. Non è mancato di un mezzo secondo che codesto non sia capitato alla mia ultima.
 
- Alla principessa Maud? - sclamò Alessandro rabbrividendo.
 
- Sai tu ove ò io raccolto codesta principessa, conte Alessandro? Io mi dissi: l’aristocrazia non vuol di me; la borghesia non vuol di me; scandagliamo il nulla. Proviamo di una di quelle creature che non ànno nè padre, nè madre, che sono figlie della deboscia, della miseria, dell’onta, dell’adulterio, del delitto... chi lo sa? L’è la schiuma delle sentine delle grandi città. Ebbene, io discesi in un ospizio di trovatelli e ne cavai questo cencio.
 
- Quella stella! - gridò Alessandro con fermezza.
 
Il principe non fece attenzione a questo grido, e continuò.
 
- Con costei fui più generoso che con le altre. Le dissi che una grande sventura pesava sul capo mio. Le dissi che io era stato repulso due volte. Mi offersi a rivelarle tutto. La supplicai ginocchioni di non giudicarmi innanzi
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di udirmi... Io l’ò amata... io l’amo... Le ò offerto la libertà, la ricchezza... Le ò detto di fuggirmi, di andar a vivere ove ella volesse, dove la vita potesse essere per lei un cielo stallato di gioie... Ella à voluto restare.
 
- Ed è questo il suo delitto? obbiettò Alessandro. Ella à fatto il suo dovere.
 
- Ella à voluto restare, ma la cortina di velluto della sua camera è per me più intraversabile che il mare dei poli. Essa ci separa, come un cratere, dall’ora prima. Maud à voluto restare, ma come uno scherno, come una provocazione, come un rimorso, come un rimprovero, come una vendetta, come un supplizio. Ella à voluto restare per scavare a questo dannato un inferno più profondo dell’inferno - gridò il principe, alzandosi. Voi avete spaventata la mia agonia col rumor dei vostri baci... Ed io rivivo per punire.
 
Egli aspettava forse una risposta, poichè si fermò, essendo tremante per tutte le membra.
 
Il conte Alessandro, pallido come un chiaro di luna, si tacque.
 
Il principe riprese, di voce solenne:
 
- Io ti fo giudice adesso. Se io sono colpevole verso quella donna, vendicala ed uccidimi. Se non lo sono, tu mi oltraggiasti. Ti aspetto dunque domani, qui. L’uno di noi debbe restarvi.
 
E terminando queste parole, il principe Pietro di Lavandall snodò la briglia del suo cavallo, lo montò e partì al galoppo.
 
Il conte Alessandro rimase per qualche istante immerso nella più profonda preoccupazione, poi si allontanò.
 
 
 
Il principe Pietro aveva tutto preparato per lo scioglimento di questo lugubre dramma.
 
Maud partirebbe l’indomani, a mezzodì, precedendolo sempre di una tappa. La sua cameriera ed il suo intendente inglese l’accompagnerebbero. Ivan resterebbe presso di lei, fino a che il principe non li avesse raggiunti al villaggio d’Imazoff, a quattro leghe dal castello.
 
- Ivan - gli disse il principe - con te io non ò, fortunatamente, bisogno di parafrasi per spiegarmi, nè di
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rettorica per persuadere. Da quindici anni da che vivi meco, ti sei identificato alla mia persona. Tu provi i miei dolori. Tu comprendi le mie sofferenze. Tu indovini i miei pensieri. Tu udisti come me ciò che occorse nel boudoir di mia moglie, mentre io mi torceva negli artigli del male, Ivan, io mi batto domani con mio fratello... Se io muoio... ella non deve vivere.
 
- Padrone, codesto duello è desso inevitabile?
 
- Inevitabile! Noi non possiamo più vivere insieme in questo mondo.
 
- La vostra decisione è dessa irrevocabile, padrone?
 
- Irrevocabile! Se sarà dunque mio fratello e non io che andrà a raggiungervi al villaggio d’Imazoff, apri la berlina di mia moglie, annunziale la mia morte, e bruciale le cervella di un colpo di pistola. Tu non avrai in seguito a presentare ai tuoi giudici che la lettera cui ti dò. L’imperatore ti farà grazia. Io ti fo ricco e libero.
 
- Padrone, tutto codesto è inutile: io avrò due pistole. I vostri ordini saranno compiuti.
 
Il principe l’abbracciò e sclamò:
 
- Sii benedetto, figlio! Perchè Dio, che le à dato tante cose, non le dette altresì la metà della tua anima?
 
Ivan uscì.
 
Il principe passò la sera a scrivere, a bruciare, a mettere in ordine carte. E’ non volle ricevere sua moglie - a cui Ivan aveva trasmesso l’ordine della partenza per l’indomani.
 
Tutto ciò erasi passato presso il principe con una semplicità spaventevole. Nè la sua voce nè quella di Ivan non sembravano più commosse in quei preparativi di omicidio, che se si fosse trattato di una caccia ai colombi. Non quesiti, non discussioni, non dubbi, non esitamento, non rimorso: uccidila; sì!
 
Il conte Alessandro - il quale aveva compreso, alla voce di suo fratello, ch’ei si trovava in faccia di una fatalità inesorabile - non provò neppure di distornarla o di rimpicciolirla. Egli indovinò che ogni sforzo cui avrebbe fatto per piegare il destino, lo avrebbe anzi aggravato. Ritornò dunque al castello, pranzò nel suo appartamento e si coricò.
 
Il sonno non si presentò al suo primo appello. Ma il conte l’invocò con un bol di punch: ed il sonno obbedì.
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Il giovane, d’altronde, aveva la coscienza in pace.
 
E’ non fu mica lo stesso della principessa Maud.
 
Parecchie circostanze avevano concorso a cangiare in un’angoscia mortale l’ansietà in cui l’aveva gittato l’ordine di quella partenza precipitata. - Suo marito gliel’aveva fatto ingiungere dal suo maggiordomo.
 
Ivan, che aveva l’attaccamento il più vivo per Maud, dopo aver compiuto la commissione del suo padrone, le era caduto a ginocchio ai piedi, e baciandole la mano, con un intenerimento profondo aveva soggiunto:
 
- Voi mi perdonerete, padrona: io debbo obbedire.
 
Poi soffocato dai singhiozzi, si era precipitato fuori della camera.
 
Maud avendo mandato la sua cameriera a dimandare a suo marito se la poteva recarsi da lui, Sarah aveva visto sur un canapè, nella biblioteca del principe, una scatola a pistole, e due spade. Tom Barcley, il suo intendente, trovandosi nel cortile quando il conte Alessandro era rientrato, aveva rimarcato che la figura di lui era estremamente pallida, disfatta, stravolta. E Maud avendo, su questa osservazione, mandato questo stesso intendente a dimandare al conte se egli non fosse malato, Alessandro aveva risposto, di una voce interrotta dalla commozione:
 
- Dite a mia cognata di pregare per me!
 
A tutte queste circostanze arrogevasi quella voce interna che addimandasi presentimento, e che in certi organismi nervosi acquista la lucidità della profezia.
 
Maud, natura sognatrice, possedeva questo attributo di seconda vista, e la era affatto donna, come quasi tutte le inglesi.
 
Le donne del Continente àn tutte, più o meno, delle fibre virili!
 
Maud comprese che qualche cosa di terribile aleggiava nell’aria; e la sua disperazione aumentavasi, avendo coscienza di non poter nulla scongiurare.
 
Ah! se ella avesse potuto veder suo marito ed aprirgli il suo cuore!
 
Ella passò dunque la notte impiedi, ora a piangere ora a pregare - mentre Sarah compieva qualche preparativo di viaggio.
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L’alba la sorprese accovacciata sur un canapé, in uno stato di annientamento completo.
 
Sara supplicolla di andare a prendere qualche ora di riposo, prima della partenza.
 
Maud si slanciò ad un balcone che sporgeva sulla grande spianata del castello, ed incollò ai vetri il suo viso allividito dal freddo.
 
Alle dieci, ella vide uscire la briska del conte Alessandro, e dirigersi verso la foresta.
 
Al punto stesso, Ivan, eccessivamente pallido ed agitato, venne a ricordarle, in nome del di lei marito, che a mezzodì una berlina di viaggio sarebbe nel cortile, e che ella doveva recarsi ad aspettare il principe nel villaggio d’Imazoff.
 
La vettura del conte Alessandro portava i due fratelli allo sboscato.
 
Poco dopo usciva Ivan, conducendo due cavalli sellati, carichi di un fascio avvilupato in una coverta da viaggio. Tutte le disposizioni erano state prese dal principe.
 
 
 
Giunta ad un certo punto della foresta, la vettura si fermò, ed i due fratelli discesero.
 
- Aspettate qui - disse Alessandro al lacchè.
 
Ed andò a raggiungere il principe che precedettelo a piedi.
 
Essi non scambiarono una parola.
 
Non una parola si erano detto nella briska.
 
Spuntando sullo sboscato, scorsero Ivan che vi spuntava da un altro viale, galoppando a briglia sciolta.
 
Alessandro sospirò.
 
Pietro fece un ghigno di sprezzo.
 
Quando Ivan ebbe raggiunto il luogo indicato dal principe, e’ discese e legò i cavalli ad un vecchio abete morto, dai rami scorticati, imbianchiti, senza foglie, che tremavano e risuonavano alla brezza come le ossa di uno scheletro, a cui l’abete somigliava.
 
Due cavalli! uno per Ivan, l’altro per il sopravvivente. La briska, pel cadavere!
 
Poi Ivan svolse la coverta, e pose sur essa le due pistole e le due spade.
 
I due fratelli si approssimarono.
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Il primogenito, le mani conserte dietro il dorso. Il cadetto, le braccia incrociate sul petto.
 
Quando furono giunti al sito dove Ivan li aspettava, fermaronsi, e si trovarono l’uno rimpetto all’altro.
 
Erano in una specie di aia di qualche centinaio di piedi di diametro, circondata da un gruppo di rocce bianche, arrotondate - le quali di lontano si sarebbero prese per una mandria di vacche della Campania che fa la siesta, tosando viole e bruiere; o per dei cranii di Titani, seminati sur un campo.
 
Gli era quasi un circo. Ed il vecchio abete, che avea l’aria di una forca, gli dava un aspetto sinistro.
 
Nonpertanto, il sole svegliava tutt’i canti della natura: terra e cielo palpitavano di vita!
 
Ivan risalì a cavallo, ed andò a costituirsi carceriere di Maud, aspettando di esserne l’assassino.
 
I due fratelli restarono un momento a squadrarsi, in silenzio; poi il principe proruppe:
 
- Ebbene, m’ài tu giudicato, conte di Lavandall?
 
- No - rispose Alessandro.
 
- No? - riprese il principe. Pertanto tu ài avuto tutta una notte per deliberare.
 
- È vero. Epperò non è il tempo che mi è mancato.
 
- E che dunque?
 
- Non si giudica ascoltando il solo accusatore.
 
- Chi ti à impedito di ascoltare altresì l’accusata?
 
- La paura di trovarti colpevole e di condannarti.
 
- Grazie. Io non ti aveva mica dimandata mercè - sclamò il principe con disprezzo.
 
- Ed io non dimando mica ad essere giudice - rispose il conte con calma. Amo meglio rimettermene al giudizio di Dio.
 
- Scegli le armi allora - replicò il principe.
 
- Principe, voi siete stato malato, la vostra mano trema. Io non posso scegliere la pistola: avrei troppi vantaggi.
 
- Che ciò non ti sconcerti. La mia malattia mi riguarda.
 
- Scelgo dunque la spada - disse Alessandro, prendendo quella che gli era dinanzi.
 
- Sia - sclamò il principe. Dammi l’altra.
 
- Le condizioni? - dimandò Alessandro.
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- Alcuna. La morte d’uno dei due.
 
- Pietro, vuoi tu ascoltarmi un minuto?
 
- In guardia - gridò il principe mettendosi in guardia. Nella nostra famiglia non v’àn vigliacchi.
 
- Un solo minuto - replicò il conte - una sola parola...
 
- In guardia, ti dico - gridò il principe di nuovo, fendendosi.
 
Alessandro si pose in guardia, e lasciò l’assalto al principe.
 
Questi era destro, lesto, abile; ma la sua mano vacillava per debolezza. Alessandro parò. Avrebbe potuto disarmare a piacere ed uccidere suo fratello: nol volle. Non volle neppur troppo stancarlo. Fece una finta di coupé, ma assai larga, per lasciare il suo petto scoverto. Il principe allungò un colpo dritto, e forò suo fratello da banda a banda.
 
Alessandro cadde.
 
Il principe abbandonò la guardia della spada, volse le spalle, salì a cavallo e mormorò:
 
- All’altra, adesso.
 
E disparve.
 
Un minuto dopo, chiamava i famigliari del conte con la briska.
 
Venti minuti dopo, giungeva al villaggio d’Imazoff, dove Maud l’aspettava nella berlina.
 
Quando ella vide arrivar suo marito, il sembiante stravolto, lo sguardo feroce, gli occhi fuori dell’orbita, tremante di tutte le membra, comprese che un avvenimento tragico erasi compiuto, e svenne.
 
Il principe, avvicinandosi alla berlina ed aprendola, per annunziare a sua moglie l’assassinio cui veniva di commettere, non trovò che un corpo agghiacciato nelle braccia della cameriera.
 
Egli rinchiuse precipitosamente la vettura, e gridò ai postiglioni:
 
- Guida tripla: strada di Francia.
 
Poi entrò nell’altra berlina con Ivan, e seguì.
 
 
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