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Recherò dell’Albùrz il figlio mio.
     Detto cotesto, il suo leggiadro infante
La mesta a sè raccolse e le cadenti
415Stille del pianto di sua doglia acerba
Si terse con la man. Qual messaggiero
Che ratto corre, il pargoletto infante
Ella via si portò, come gazzella
Che timida si tragge alla montagna
420Alta, inaccessa. Un uomo antico e pio
Stava sul monte, e niun pensier, nessuna
Cura il toccava mai di questa umile
Terra quaggiù. Franèk gli disse allora:
     Uom solitario e pio, dolente e mesta
425Fino al tuo piè vengo d’Irania. E sappi
Che questo infante mio, germe preclaro
D’antichi re, d’un popolo gagliardo
Signor primo sarà. Torrà costui
A Dahàk la corona, e il suo regale
430Cinto, qual pegno di una età più lieta,
Alla terra imporrà. Tu il custodisci,
Padre gli sii, ma padre, che pei giorni
Del picciol figlio suo si affanna e trema.
     E quell’uom generoso al sen l’accolse,
435Nè lasciò mai che aura importuna o grave
Giugnesse fino a lui. Toccò frattanto
Novella certa all’arabo signore,
Prence sciaurato, di que’ paschi ameni
E di Birmàyeh ancor leggiadra e bella;
440Ed ei venne bramoso e orrida fiera
Pareva in suo furor. Tosto atterrava
Birmàyeh al suol, la nobile giovenca,
Tutti atterrava quanti ei là scoverse
Quadrupedi pascenti, e il solitario
445Loco ne disgombrò. Corse affrettato
A l’ostel di Fredùn rapidamente,
Molto cercò, ma non rinvenne alcuno;