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LA NOTTE
I.
LA NOTTE
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la
pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio
di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di
ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee:
sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il
barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di
adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un
tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la
palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del
tempo fu sospeso il corso.
*
*
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*
Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che
dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto
intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per
visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito,
anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente.
Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo
splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la
campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle
acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui
carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e
dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra
delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli
accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella
dolcezza trionfale del ricordo.
*
* *
Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato
verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni
dell’adolescenza. Saliva al
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silenzio delle straducole antichissime
lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei
suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre
mute: a lato in un balenio enorme la torre, otticuspide rossa
impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva
inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino.
Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città.
*
* *
Fu scosso da una porta che si spalancò. Dei vecchi, delle
forme oblique ossute e mute, si accalcavano spingendosi coi
gomiti perforanti, terribili nella gran luce. Davanti alla faccia
barbuta di un frate che sporgeva dal vano di una porta sostavano
in un inchino trepidante servile, strisciavano via mormorando,
rialzandosi poco a poco, trascinando uno ad uno le loro ombre
lungo i muri rossastri e scalcinati, tutti simili ad ombra. Una
donna dal passo dondolante e dal riso incosciente si univa e
chiudeva il corteo.
*
* *
Strisciavano le loro ombre lungo i muri
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rossastri e scalcinati:
egli seguiva, automa. Diresse alla donna una parola che cadde
nel silenzio del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno
sguardo assurdo lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di
un sorriso molle nell’aridità meridiana, ebete e sola nella luce
catastrofica.
*
* *
Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la
mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade
male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai
confini della campagna una porta incisa di colpi, guardata da una
giovine femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse:
entrai. Una antica e opulente matrona, dal profilo di montone,
coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale
barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma
nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie
infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un
mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti
re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale,
profon
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da e melodrammatica mi rispose insieme ad un grazioso
sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancella che dormiva colla
bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il
bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano.
467
*
* *
La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona ai miei
orecchi. Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sul tavolo
untuoso. L’agile forma di donna dalla pelle ambrata stesa sul
letto ascoltava curiosamente, poggiata sui gomiti come una
Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra i muri rosseggianti: noi soli tre
vivi nel silenzio meridiano.
*
* *
Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suo oro il
luogo commosso dai ricordi e pareva consacrarlo. La voce della
Ruffiana si era fatta man mano più dolce, e la sua testa di
sacerdotessa orientale compiaceva a pose languenti. La magia
della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre
anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno
misterioso. E la sac
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erdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua
ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde
inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera
scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.
*
* *
Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo
corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a
tratti la rivelazione dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono
una fantastica vicenda. Mentre più dolce, già presso a spegnersi
ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona
suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue
grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato
sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che
piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno
umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare
travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di
Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono
foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea
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la pena eterna
dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e
dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile e
dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo
mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.
*
* *
Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le
antiche immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi
ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza.
Si aprivano le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli
specchi all’infinito, apparendo le immagini avventurose delle
cortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loro
attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era arido e dolce,
sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul panorama
scheletrico del mondo.
*
* *
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Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimi clangori,
vedevo le antichissime fanciulle della prima illusione profilarsi a
 
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mezzo i ponti gettati da la città al sobborgo ne le sere dell’estate
torrida: volte di tre quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si
accentua annunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete
a trivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche: ora addolcite:
nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite di un velo: così
come Santa Marta, spezzati a terra gli strumenti, cessato già sui
sempre verdi paesaggi il canto che il cuore di Santa Cecilia
accorda col cielo latino, dolce e rosata presso il crepuscolo antico
ne la linea eroica de la grande figura femminile romana sosta.
Ricordi di zingare, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di
luci: stanchezze d’amore, stanchezze improvvise sul letto di una
taverna lontana, altra culla avventurosa di incertezza e di
rimpianto: così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le
rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama scheletrico del
mondo.
*
* *
Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e
bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i
nostri occhi erano stanchi de le
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girandole di fuoco, de le stelle
multicolori che avevano lasciato un odore pirico, una vaga
gravezza rossa nell’aria, e il camminare accanto ci aveva
illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo diversa bellezza, lei
fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il barbaglio
della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inesperta
stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua
vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa,
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ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia
notturna dei suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati,
rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi,
profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto
era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici di
città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una
odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva attorno
gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i passi
e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero.
«È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Mukden». Noi
guardavamo intor
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no: doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste
per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno!
Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera
mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna
dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’amarezza
tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque
come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a
un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti
al panorama scheletrico del mondo.
*
* *
Ero sotto l’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce
sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una
porta si era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava
nello sfarzo di un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa,
poggiava il gomito reggendo la testa una matrona, gli occhi bruni
vivaci, le mammelle enormi: accanto una fanciulla inginocchiata,
ambrata e fine, i capelli recisi sulla fronte, con grazia giovanile,
le gambe lisce e ignude dalla vestaglia
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smagliante: e sopra di lei,
sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una tenda, una
tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle
immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide
sopra di lei pensierosa negli occhi giovani. Sbattuto a la luce
dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna
io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di
quella scena. Già era tardi, fummo soli e tra noi nacque una
intimità libera e la matrona dagli occhi giovani poggiata per
sfondo la mobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo
peccato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per lei di
curiosità irraggiungibili. «La femmina lo picchiettava tanto di
baci da destra: da destra perchè? Poi il piccione maschio restava
sopra, immobile? dieci minuti, perchè?» Le domande restavano
ancora senza risposta, allora lei spinta dalla nostalgia ricordava
ricordava a lungo il passato. Fin che la conversazione si era
illanguidita, la voce era taciuta intorno, il mistero della voluttà
aveva rivestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime agli
occhi io in faccia alla tenda bianca
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di trina seguivo seguivo
ancora delle fantasie bianche. La voce era taciuta intorno. La
ruffiana era sparita. La voce era taciuta. Certo l’avevo sentita
passare con uno sfioramento silenzioso struggente. Avanti alla
tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle ginocchia
ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo.
*
* *
Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi
somigliavano allora a medaglie siracusane e il taglio dei loro
occhi era tanto perfetto che amavano sembrare immobili a
contrastare armoniosamente coi lunghi riccioli bruni. Era facile
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incontrarle la sera per le vie cupe (la luna illuminava allora le
strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case che nella
luce della luna sembravano punti interrogativi e restava
pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano. Dalla
vecchia taverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva
udire tra i calmi conversari dell’inverno bolognese, frigido e
nebuloso come il s
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uo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della
fiamma sull’ocra delle volte i passi frettolosi sotto gli archi
prossimi. Amava allora raccogliersi in un canto mentre la giovine
ostessa, rosso il guarnello e le belle gote sotto la pettinatura
fumosa passava e ripassava davanti a lui. Faust era giovane e
bello. In un giorno come quello, dalla saletta tappezzata, tra i
ritornelli degli organi automatici e una decorazione floreale,
dalla saletta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno.
Oh! ricordo! ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a
sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza.
Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose,
consacrate dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della
mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la
mia fede, la mia vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle,
tutta un chinarsi sull’abisso». Ero bello di tormento, inquieto
pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi
persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali
levarsi congerie enorme di fede e di sogno
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colle mille punte nel
cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e
piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia
dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno.
Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille
ticchettìi le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i
tronchi, per sentieri di chiarie salivo: salivo alle Alpi, sullo
sfondo bianco delicato mistero. Laghi, lassù tra gli scogli chiare
gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiare gore i laghi estatici
dell’oblio che tu Leonardo fingevi. Il torrente mi raccontava
oscuramente la storia. Io fisso tra le lance immobili degli abeti
credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure
triste forse fissavo le nubi che sembravano attardarsi curiose un
istante su quel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le
lance immobili degli abeti. E povero, ignudo, felice di essere
povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio quale un
ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e
giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il
cammino. Una fanciulla nel torrente
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lavava, lavava e cantava
nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi
amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel
mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce
della sera d’amore.
*
* *
Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? 0
i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella
neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al
ricordo). Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando
antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo
un saccheggio. Un calore dorato nell’ombra della stanza
presente, una chioma profusa, un corpo rantolante procubo nella
notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancella
dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come
un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della
tenda.
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*
* *
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/29]]==
E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi
miti solari, di stragi di orge si crearono avanti al mio spirito.
Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la
forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti
vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo
vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue
mammelle estinte. Credetti di udire fremere le chitarre là nella
capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi della città, mentre una
candela schiariva il terreno nudo. In faccia a me una matrona
selvaggia mi fissava senza batter ciglio. La luce era scarsa sul
terreno nudo nel fremere delle chitarre. A lato sul tesoro
fiorente di una fanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata
come un ragno mentre pareva sussurrare all’orecchio parole che
non udivo, dolci come il vento senza parole della Pampa che
sommerge. La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue
tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce era più scarsa sul
terreno nudo nell’alito metallizzato delle chitarre.
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A un tratto la
fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua
grazia selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle
spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei
capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò
nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano
sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare
di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo
scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della
porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza:
l’ombra delle selvagge nell’ombra.
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IL
IL VIAGGIO E IL RITORNO
Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i
ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra
dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano
sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento
mesceva
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il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor
lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava
colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della
fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la
fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludi
erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della notte era
calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di
mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro
si insenava di stelle. Solitaria troneggiava ora la notte accesa in
tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una
mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle
porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso
poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo
e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di
giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle
mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli
scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era
affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/32]]==
l’amore
evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli
di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come
un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le
innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva
fra le mani rosse il mio antico cuore.
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*
* *
Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velari della
luce io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolo la mia pristina
lampada instella il mio cuor vago di ricordi ancora. Volti, volti
cui risero gli occhi a fior del sogno, voi giovani aurighe per le vie
leggere del sogno che inghirlandai di fervore: o fragili rime, o
ghirlande d’amori notturni... Dal giardino una canzone si rompe
in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido rosso e
dolce è il panorama scheletrico del mondo.
*
* *
0 il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non
vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/33]]==
specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di
viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e
dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce,
e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di
viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide
notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle
mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore
di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi
di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una
melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba
tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono
felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce
le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. 0 non
accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è
il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno
sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una
nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o
resta o resta o resta! Non attristarti o Sole!
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/34]]==
Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come
spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le
chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per
una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque
il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno
ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti
chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che
tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la
nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia
vestaglia dietro la chiesa bizantina.
III.
FINE
Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce
affonda uguale dentro gli specchi aH’infinito fioriscono
sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nello sfarzo smesso di
un giustacuore verde, le rughe del volto più dolci, gli occhi che
nel chiarore velano il nero guarda la porta d’argento. Dell’amore
si s
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/35]]==
ente il fascino indefinito. Governa una donna matura
addolcita da una vita d’amore con un sorriso con un vago
bagliore che è negli occhi il ricordo delle lacrime della voluttà.
Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole
tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa
nell’enigma degli specchi. La portiera guarda la porta d’argento.
Fuori è la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/36]]==
NOTTURNI
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==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/38]]==
LA CHIMERA
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
0 delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
0 Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/39]]==
vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
480
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E Timmobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/40]]==
481
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/41]]==
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto
Ella m’appar, presente.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/42]]==
482
Per Pamor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
0 tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da’ tregua agli amori segreti:
Chi le taciturne porte
Guarda che la Notte
Ha aperte sulPinfinito?
Chinan Tore: col sogno vanito
China la pallida Sorte...
• • •
Per Pamor dei poeti, porte
Aperte de
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/43]]==
la morte
Su Pinfinito!
Per Pamor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/44]]==
483
L’INVETRIATA
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? — c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
484
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/45]]==
IL CANTO DELLA TENEBRA
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare...
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la Sorte:
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/46]]==
Che dice all’orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
Il vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e Tacque è notturno
Il fiume va via taciturno...
Pum! mamma quell’omo lassù!
485
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/47]]==
LA SERA DI FIERA
Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/48]]==
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
486
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
• • •
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/49]]==
487
Me ne vado per le strade
Strette oscure e misteriose:
Vedo dietro le vetrate
Affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando:
Dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando.
• • •
La stradina è solitaria:
Non c’è un cane: qualche stella
Nella notte sopra i tetti:
E la notte mi par bella.
E cammino poveretto
Nella notte fantasiosa,
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/50]]==
Pur mi sento nella bocca
La saliva disgustosa. Via dal tanfo
Via dal tanfo e per le strade
E cammina e via cammina,
Già le case son più rade.
Trovo l’erba: mi ci stendo
A conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/51]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/52]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/53]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/54]]==
488
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
LA VERNA. (Diario)
15 Settembre (per la strada di Campigno)
Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono.
I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco
che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le
rocce e il fiume.
Castagno, 17 Settembre
La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali
rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie
che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia
ha reso cupo il grigio delle montagne.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/55]]==
Davanti alla fonte hanno
stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da
una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza
in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci
porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta
tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della
Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad
Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso
legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli:
contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo
e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente
la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la
490
povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le
stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove
sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e
cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi
luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco
altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il
violetto crepuscolare, arco solitario e magnif
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/56]]==
ico teso in forza di
catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato
dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci
ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto,
le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia,
trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno
petroso le rifondeva allungate, perdute.
Il canto fu breve: una pausa, un commento improvviso e
misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il
canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente
nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano
taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero
solo.
Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore
casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha
un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed
elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi
scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai
vastissimi fianchi della Falterona, sp
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/57]]==
oglia di macchie, che scopre
la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva
bruciano le erbe del camposanto.
491
Sulla Falterona (Giogo)
La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della
Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato,
che lascia dietro a sè una cavalleria di screpolature screpolature
e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline
laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno
disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le
creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi
interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea
occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere
bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi
grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra
ciglio memoria della poesia toscana che fu
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/58]]==
.
(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)
Campigna, foresta della Falterona
(Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena
restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla
solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro
dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno
verde degli abeti.)
Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria
sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i
profondi fruscii del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il
mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la
vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di
rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità
selvagge dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggio
ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti
mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e
fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua
strana faccia
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/59]]==
ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la
tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.
Stia, 20 Settembre
Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi
amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di
bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora
stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho
lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il
corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica
dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente,
ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi
facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho
sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli
selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio
promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca
elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto
della vita felice del paese nuovo: la
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/60]]==
poesia toscana ancor viva
nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello
antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo
languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo
e di oblio.
Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del
cavaliere continua:
493
Comme deux ennemis rompus
Que leur haine ne soutient plus
Et qui laissent tomber leurs armes!
21 Settembre (presso la Verna)
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare
distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio
cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato
misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come
una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne
di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo,
tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa.
Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là
presso. Sudato mi offersero acqua
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/61]]==
. «In un’ora arriverete alla
Verna, se Dio vole.» Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri
un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un
raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a
tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la
ragazzina e i suoi occhi consci e tranquilli sotto il cappellone
monacale.
Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le
torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale
rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.
Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in
cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla
natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi
da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli
urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure
supreme commozioni della mia vita.
22 Settembre (La Verna)
«Francesca B. 0 divino santo Francesco pregate per me
peccatrice. 20 Agost
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/62]]==
o 189...»
Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo
la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia:
forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del
mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce,
lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si
svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco (dalle inferriate
sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure
d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di
passione, così il destino era consumato!
Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si
sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali
bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo,
purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro
azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i
gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e
nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il
ginocchio a terra, lassù così presso al cielo:
• • •
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/63]]==
stradine solitarie tra gli alti colonnari d’alberi contente di
una lieve stria di sole... finché io là giunsi indove avanti a una
vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si
discoprì nel mattino, tutto velato di chiarie il verde, sfumato e
digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate
catene notturne. Caprese, Michelangelo, colei che tu piegasti
sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e
non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le
barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante,
495
regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano...
Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della
leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo,
rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino
nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua
solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor
Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la
sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/64]]==
tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da
Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità
bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto
tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penombra della
cappella. Acquistano allora quei sommari disegni un fascino
bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano
rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui
sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide
enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella
tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel
saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il
tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui
monti prospicienti lontane. Il sogno è al termine e l’anima
improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste
ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette
mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un
grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi
bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/65]]==
corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche
braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno
cavalleresco!
Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure
vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai
496
pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto,
ma non si ode nè il frusciare della massa oscura nè il suo fluire
per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna
nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno
piagner che si muore.
497
IL
RITORNO
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/66]]==
salgo (nello spazio, fuori del tempo)
L’acqua il vento
La sanità delle prime cose —
il lavoro umano sull’elemento
Liquido — la natura che conduce
Strati di rocce su strati — il vento
Che scherza nella valle — ed ombra del vento
La nuvola — il lontano ammonimento
Del fiume nella valle —
E la rovina del contrafforte — la frana
La vittoria dell’elemento — il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/67]]==
La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche.
L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle
nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani
abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia,
felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel
frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio
enorme che si ripiega grottesco su sè stesso, pachiderma a
quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco.
Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno,
mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico
animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne
l’elemento grottesco profila: un gaglioffo, una grossa puttana
fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi,
triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente,
paese notturno, mistico incubo del Caos.
•••
Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta.
Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. 0
pellegrino, o
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/68]]==
pellegrini che pensosi andate! Catrina, bizzarra
figlia della montagna barbarica, della conca rocciosa dei venti,
come è dolce il tuo pianto: come è dolce quando tu assistevi alla
scena di dolore della madre, della madre che aveva morto
l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata
cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei
gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del
Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa
allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie
ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come
nelle favole d’antica poesia: e già dimentica dell’amor del poeta.
Monte Filetto, 25 Settembre
Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello
sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. È
un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del
poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera
d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/69]]==
Ma
le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza
rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due
alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte
sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore
come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi
umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle
danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi
piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi
sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e
il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle
signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla
tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua
cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un
quadretto d’oro nello squittire dei falchi.
Presso Campigno (26 Settembre)
Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a
valle solo riempie del
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/70]]==
suo rumore di tremiti freschi, non basta la
pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile
dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto,
che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in
curve regali: poiché essa è qui veramente la regina del
paesaggio.
•••
Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a
dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del
leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto
scenario pastorale di grandi alberi e colline.
•••
Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria
che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio
500
destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che
ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare
dell’acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità
della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza
ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/71]]==
ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte
fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo
all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il
mio ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza
spirito, dopo l’oro crepuscolare, dolce come il canto
dell’onnipresente tenebra è il canto dell’acqua sotto le rocce: così
come è dolce l’elemento nello splendore nero degli occhi delle
vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna...
Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo
satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra
tua faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore
profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla
sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza
parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra...
•••
Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla
roccia cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e
raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce
crepuscolari una forma nera cornuta
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/72]]==
immobile mi guarda
immobile con occhi d’oro.
•••
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. 0 donna
sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un
ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa
nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari
in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata
pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si
perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce
liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel
ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste
pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza
sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio
di grazia: nobiltà carnale e dorata, profondità dorata degli occhi:
guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica
Romagna.
•••
L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo
un fanciull
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/73]]==
o, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra
dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso
da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima
volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato,
è scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo:
lasciando dietro a sè il silenzio, la gora profonda e uguale:
conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra...
Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia
nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.
Marradi (Antica volta. Specchio velato)
Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di
un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più
lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada
conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a
tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce
trascorre le mura nere (una cupola rossa ride
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/74]]==
lontana con il suo
leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti
al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto
di archi!
Presso Marradi (ottobre)
Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia
stanza che affronta i venti: e la... e il figlio, povero uccellino dai
tratti dolci e dall’anima indecisa, povero uccellino che trascina
una gamba rotta, e il vento che batte alla finestra dall’orizzonte
annuvolato i monti lontani ed alti, il rombo monotono del vento.
Lontano è caduta la neve... La padrona zitta mi rifa il letto
aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale.
Fine del pellegrinaggio.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/75]]==
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/76]]==
IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/77]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/78]]==
[... poi che nella sorda lotta notturna]
... poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzi
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/79]]==
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
505
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino...
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori...
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto.
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
•••
E si distingue il loro verde canto.
Andar, de V acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/80]]==
rar
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
0 se come il torrente che rovina
506
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la prociina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
0 Speranza! 0 Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!...
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/81]]==
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito...
507
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/82]]==
VIAGGIO A MONTEVIDEO
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare...
Lontani tinti dei vari colori
Dai più lontani silenzi
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/83]]==
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolio di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un
giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/84]]==
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune...
509
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/85]]==
FANTASIA SU UN QUADRO
D’ARDENGO SOFFICI
Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfa:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sè.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/86]]==
510
Entro dei ponti tuoi multicolori
L’Arno presago quietamente arena
E in riflessi tranquilli frange appena
Archi severi tra sfiorir di fiori.
•••
Azzurro Varco delVinterco
Trema rigato tra i palazzi
Candide righe nerazzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/87]]==
511
Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quai)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/88]]==
il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/89]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/90]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/91]]==
 
[FIRENZE]
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/92]]==
Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le mattine di
primavera sull’Amo. La grazia degli adolescenti (che non è grazia
al mondo che vinca tua grazia d’Aprile), vivo vergine continuo
alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere
Botticelliana. I pollini del desiderio gravi da tutte le forme
scultoree della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle
colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento
alitata dalle bianche forme della bellezza: mentre pure nostra è
la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di
immagini plastiche!
*
* *
L’Arno qui ancora ha tremiti freschi: poi lo occupa un
silenzio dei più profondi: nel canale
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/93]]==
delle colline basse e
monotone toccando le piccole città etrusche, uguale oramai sino
alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, il duomo prezioso
traversato dalla trave colossale, che chiude nella sua nudità un
così vasto soffio marino. A Signa nel ronzio musicale e
assonnante ricordo quel profondo silenzio: il silenzio di un’epoca
sepolta, di una civiltà sepolta: e come una fanciulla etrusca
possa rattristare il paesaggio...
515
*
* *
Nel vico centrale osterie malfamate, botteghe di rigattieri,
bislacchi ottoni disparati. Un’osteria sempre deserta di giorno
mostra la sera dietro la vetrata un affaccendarsi di figure losche.
Grida e richiami beffardi e brutali si spandono pel vico quando
qualche avventore entra. In faccia nel vico breve e stretto c’è una
finestra, unica, ad inferriata, nella parete rossa corrosa di un
vecchio palazzo, dove dietro le sbarre si vedono affacciati dei visi
ebeti di prostitute disfatte a cui il belletto dà un aspetto tragico
di pagliacci. Quel passaggio deserto, fetido di un orinatoio, della
muffa dei muri corrosi, ha per sola prosp
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/94]]==
ettiva in fondo l’osteria.
I pagliacci ritinti sembrano seguire curiosamente la vita che si
svolge dietro l’invetriata, tra il fumo delle pastasciutte acide, le
risa dei mantenuti dalle femmine e i silenzi improvvisi che
provoca la squadra mobile. Tre minorenni dondolano
monotonamente le loro grazie precoci. Tre tedeschi irsuti sparuti
e scalcagnati seggono compostamente attorno ad un litro. Uno di
loro dalla faccia di Cristo è rivestito da una tunica da prete (!) che
tiene raccolta sulle ginocchia. Fumo acre delle pastasciutte:
tinnire di piatti e di bicchieri: risa dei maschi dalle dita piene di
anelli che si lasciano accarezzare dalle femmine, ora che hanno
mangiato. Passano le serve nell’aria acre di fumo gettando un
richiamo musicale: Pastee. In un quadro a bianco e nero una
ragazza bruna con una chitarra mostra i denti e il bianco degli
occhi appesa in alto. — Serenata sui Lungarni. M’investe un soffio
stanco dalle colline fiorentine: porta un profumo di corolle
smorte, misto a un odor di lacche e di vernici di pitture antiche,
percettibile appena (Mereskowski).
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/95]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/96]]==
[FAENZA]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/97]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/98]]==
Una grossa torre barocca: dietro la ringhiera una lampada
accesa: appare sulla piazza al capo di una lunga contrada dove
tutti i palazzi sono rossi e tutti hanno una ringhiera corrosa (le
contrade alle svolte sono deserte). Qualche matrona piena di
fascino. Nell’aria si accumula qualche cosa di danzante. Ascolto:
la grossa torre barocca ora accesa mette nell’aria un senso di
liberazione. L’occhio dell’orologio trasparente in alto appare che
illumina la sera, le frecce dorate: una piccola madonna bianca si
distingue già dietro la ringhiera colla piccola lucerna corrosa
accesa. E già la grossa torre barocca è vuota e si vede che porta
illuminati i simboli del tempo e della fede.
*
* *
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/99]]==
La piazza ha un carattere di scenario nelle logge ad archi
bianchi leggieri e potenti. Passa la pescatrice povera nello
scenario di caffè concerto, rete sul capo e le spalle di velo nero
tenue fitto di neri punti per la piazza viva di archi leggieri e
potenti. Accanto una rete nera a triangolo a berretta ricade su
una spalla che si schiude: un viso bruno aquilino di indovina,
uguale a la Notte di Michelangiolo.
•••
518
Ofelia la mia ostessa è pallida e le lunghe ciglia le frangiano
appena gli occhi: il suo viso è classico e insieme avventuroso.
Osservo che ha le labbra morse: dello spagnolo, della dolcezza
italiana: e insieme: il ricordo, il riflesso: dell’antica gioventù latina.
Ascolto i discorsi. La vita ha qui un forte senso naturalistico.
Come in Spagna. Felicità di vivere in un paese senza filosofia.
*
* *
Il museo. Ribera e Baccarini. Nel corpo dell’antico palazzo
rosso affocato nel meriggio sordo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/100]]==
l’ombra cova sulla rozza parete
delle nude stampe scheletriche. Diirer, Ribera. Ribera: il passo di
danza del satiro aguzzo su Sileno osceno briaco. L’eco dei secchi
accordi chiaramente rifluente nell’ombra che è sorda. Ragazzine
alla marinara, le lisce gambe lattee che passano a scatti
strisciando spinte da un vago prurito bianco. Un delicato busto di
adolescente, luce gioconda dello spirito italiano sorride, una
bianca purità virginea conservata nei delicati incavi del marmo.
Grandi figure della tradizione classica chiudono la loro forza tra
le ciglia.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/101]]==
519
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/102]]==
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[DUALISMO]
[(Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/103]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/104]]==
Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come
metallo in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di
aria vergine voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano: anima
dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze
del cosmo. Io vi rivedo Manuelita, il piccolo viso armato dell’ala
battagliera del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e
ondulante eroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio
contenuto sopra il terreno delle promesse eroiche! Tutta mi siete
presente esile e nervosa. La cipria sparsa come neve sul vostro
viso consunto da un fuoco interno, le vostre vesti di rosa che
proclamavano la vostra verginità come un’aurora piena di
promesse! E ancora il magnetismo di quando voi chinaste
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/105]]==
il capo,
voi fiore meraviglioso di una razza eroica, mi attira non ostante il
tempo ancora verso di voi! Eppure Manuelita sappiatelo se lo
potete: io non pensavo, non pensavo a voi: io mai non ho pensato a voi.
Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano
verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la
mia infinita solitudine. La prateria si alzava come un mare
argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini
feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie
sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente
nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovine e
feroce, conquistatrice implacabile, ardente di un’acre febbre di
denaro e di gioie immediate. Io vi perdevo allora Manuelita,
perdonate, tra la turba delle signorine elastiche dal viso molle
inconsciamente feroce, violentemente eccitante tra le due bande
di capelli lisci neH’immobilità delle dee della razza. Il silenzio era
scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio
anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi
della sensibilità della vecchia
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/106]]==
Europa e mi si stringeva con
violenza il cuore. Entravo, ricordo, allora nella biblioteca: io che
non potevo Manuelita io che non sapevo pensare a voi. Le
lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine
risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che
oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio
capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a
tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute
per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle
profondità meravigliose del destino. Dei ricordi perduti, delle
immagini si componevano già morte mentre era più profondo il
silenzio. Rivedo ancora Parigi, Place d’Italie, le baracche, i
carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale, dal viso essiccato, dagli
occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza
ardente di un concerto infernale stridente e irritante. Le
bambine dei Bohémiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e
profondi congelati in un languore ambiguo amaro attorno dello
stagno liscio e deserto. E in fine Lei, dimentica, lontana, l’amore,
il suo viso di zingara nell’
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/107]]==
onda dei suoni e delle luci che si colora
di un incanto irreale: e noi in silenzio attorno allo stagno pieno
di chiarori rossastri: e noi ancora stanchi del sogno vagabondare
a caso per quartieri ignoti fino a stenderci stanchi sul letto di una
taverna lontana tra il soffio caldo del vizio noi là nell’incertezza e
522
nel rimpianto colorando la nostra voluttà di riflessi irreali!
000
E così lontane da voi passavano quelle ore di sogno, ore di
profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i
grumi più acri del dolore, ore di felicità completa che aboliva il
tempo e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio! E vi
rivedevo Manuelita poi: che vigilavate pallida e lontana: voi
anima semplice chiusa nelle vostre semplici armi.
So Manuelita: voi cercavate la grande rivale. So: la cercavate
nei miei occhi stanchi che mai non vi appresero nulla. Ma ora se
lo potete sappiate: io dovevo restare fedele al mio destino: era
un’anima inquieta quella di cui mi ricordavo sempre quando
uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta sotto le nubi
in corsa. Essa era per cui solo il so
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/108]]==
gno mi era dolce. Essa era per
cui io dimenticavo il vostro piccolo corpo convulso nella stretta
del guanciale, il vostro piccolo corpo pericoloso tutto adorabile
di snellezza e di forza. E pure vi giuro Manuelita io vi amavo vi
amo e vi amerò sempre più di qualunque altra donna... dei due mondi.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/109]]==
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/110]]==
SOGNO DI PRIGIONE
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/111]]==
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[SOGNO DI PRIGIONE]
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/112]]==
Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il
giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci
che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è
piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi
dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle
deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di
marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio
infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le montagne. Io
al parapetto del cimitero davanti alla stazione che guardo il
cammino nero delle macchine, su, giù. Non è ancor notte;
silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano rimangiano il
nero silenzio nel
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/113]]==
cammino della notte. Un treno: si sgonfia arriva
in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte: dal
parapetto del cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nella
notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga
io? io ch'alzo le braccia nella luce! (il treno mi passa sotto rombando
come un demonio).
525
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/114]]==
 
[LA GIORNATA DI UN NEVRASTENICO]
[(BOLOGNA)]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/115]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/116]]==
La vecchia città dotta e sacerdotale era avvolta di nebbie nel
pomeriggio di dicembre. I colli trasparivano più lontani sulla
pianura percossa di strepiti. Sulla linea ferroviaria si scorgeva
vicino, in uno scorcio falso di luce plumbea lo scalo delle merci.
Lungo la linea di circonvallazione passavano pomposamente
sfumate figure femminili, avvolte in pellicce, i cappelli
copiosamente romantici, avvicinandosi a piccole scosse
automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa
corte. Dei colpi sordi, dei fischi dallo scalo accentuavano la
monotonia diffusa nell’aria. Il vapore delle macchine si
confondeva colla nebbia: i fili si appendevano e si riappendevano
ai grappoli di campanelle dei pali telegrafici che si susseguivano
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/117]]==
automaticamente.
*
* *
Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono
silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia
intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie
silenziose deserte come dopo il saccheggio. Delle ragazze tutte
piccole, tutte scure, artifiziosamente avvolte nella sciarpa
traversano saltellando le vie, rendendole più vuote ancora. E
nell’incubo della nebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un
tratto tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere,
che vadano a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno.
*
* *
Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subito che
siamo in un centro di cultura. Guardano a volte coll’ingenuità di
Ofelia, tre a tre, parlando a fior di labbra. Formano sotto i portici
il corteo pallido e interessante delle grazie moderne, le mie
colleghe, che vanno a lezione! Non hanno l’arduo sorriso
dannunziano palpitante nella gola come le letterate, ma più raro
un sorriso e
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/118]]==
più severo, intento e masticato, di prognosi
riservata, le scienziate.
*
* *
(Caffè) È passata la Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel
suo viso pallido. È venuta ed è passata portando il fiore e la piaga
delle sue labbra. Con un passo elegante, troppo semplice troppo
conscio è passata. La neve seguita a cadere e si scioglie
indifferente nel fango della via. La sartina e l’avvocato ridono e
chiacchierano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal
bavero come bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Oggi risalta
tutto il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la
neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo
dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce
che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo
bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.
C’è uno specchio avanti a me e l’orologio batte: la luce mi
giunge dai portici a traverso le cortine della vetrata. Prendo la
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/119]]==
penna. Scrivo: cosa, non so: ho il sangue alle dita: scrivo:
«l’amante nella penombra si aggraffia al viso dell’amante per
scarnificare il suo sogno... ecc.»
(Ancora per la via) Tristezza acuta. Mi ferma il mio antico
compagno di scuola, già allora bravissimo ed ora di già in belle
lettere guercio professor purulento: mi tenta, mi confessa con un
sorriso sempre più lercio. Conclude: potresti provare a mandare
qualcosa all’Amore Illustrato (Via). Ecco inevitabile sotto i portici
lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali, che ride e fa
giu giu mostrando i denti, in caccia, sembra, di tutti i nemici
della scienza e della cultura, che va a frangere ai piedi della
cattedra. Già è l’ora! vado a infangarmi in mezzo alla via: l’ora
che l’illustre somiero rampa con il suo carico di nera scienza
catalogale...
Sull’uscio di casa mi volgo e vedo il classico, baffuto,
colossale emissario...
Ah! i diritti della vecchiezza! Ah! quanti maram
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/120]]==
aldi!
*
* *
(Notte) Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasmagoria
profonda dello specchio i corpi ignudi avvicendano muti: e i
corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e mute, e come fuori del
tempo i corpi bianchi stupiti inerti nella fornace opaca: bianca,
dal mio spirito esausto silenziosa si sciolse, Èva si sciolse e mi
risvegliò.
 
Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce
sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la
dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo ma dall’ombra
sotto un lampione s’imbianca un’ombra che ha le labbra tinte. 0
Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivi, o tu
che dall’ombra mostri l’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi
pietà della mia lunga miseria!
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/121]]==
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/122]]==
VARIE E FRAMMENTI
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/123]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/124]]==
 
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza
Ne l’ultimo schianto crudele
Le vele le vele le vele
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/125]]==
532
Ed i piedini andavano armoniosi
Portando i cappelloni battaglieri
Che armavano di un’ala gli occhi fieri
Del lor languore solo nel bel giorno:
•••
Scampanava la Pasqua per la via...
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/126]]==
PAMPA
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/127]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/128]]==
Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce,
quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa. — Le tende
si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in
silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni
che doravano l’ignoto della prateria notturna. — Un mistero
grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca
vena profonda il nostro sangue nelle vene: — che noi
assaporavamo con voluttà misteriosa — come nella coppa del
silenzio purissimo e stellato.
Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda
bevanda.
Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io
mi andavo abbandonan
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/129]]==
do tutto ai misteriosi giuochi dei loro
arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco.
I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che
deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti
lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda
e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lentamente
gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle
profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del
cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a
traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare.
Drammi meravigliosi, i più meravigliosi dell’anima umana
535
palpitavano e si rispondevano a traverso le costellazioni. Una
stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa la fine
di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sembrava
risollevarsi lentamente oscillando: — per un meraviglioso attimo
immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini
eterni... Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano
profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria. Il
teschio che si lev
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/130]]==
ava lentamente era l’insegna formidabile di un
esercito che lanciava torme di cavalieri colle lance in resta,
acutissime lucenti: gli indiani morti e vivi si lanciavano alla
riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo. Le erbe
piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio. La
commozione del silenzio intenso era prodigiosa.
Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvole e le
stelle, fuggivano: mentre che dalla Pampa nera scossa che
sfuggiva a tratti nella selvaggia nera corsa del vento ora più forte
ora più fievole ora come un lontano fragore ferreo: a tratti alla
malinconia più profonda dell’errante un richiamo... dalle
criniere dell’erbe scosse come alla malinconia più profonda
dell’eterno errante per la Pampa riscossa come un richiamo che
fuggiva lugubre.
Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa
fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo:
incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato:
selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro
per prendermi
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/131]]==
nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava
con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel
turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente
irresistibile.
•••
Dov’ero? Io ero in piedi. Io ero in piedi: sulla pampa nella
536
corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per
prendermi nel suo mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al
mattino! Io correvo tra le tribù indiane? Od era la morte? Od era
la vita? E mai, mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto
arrestarsi: nel mentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne
commentava incomprensibilmente il destino. Poi la stanchezza
nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il
concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli
argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca
fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e
veementi.
La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e uguale in un
silenzio profondo. Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla
luna, ombre i
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/132]]==
mprovvise correnti per la prateria e ancora una
chiarità immensa e strana nel gran silenzio.
La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla
terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci
aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della
terra selvaggia e buona. Ora assopito io seguivo degli echi di
un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane:
fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora
fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo
nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura
ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e
orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere:
fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto,
misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.
Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra
infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero
tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di
Nessun Dio.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/133]]==
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/134]]==
IL RUSSO
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/135]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/136]]==
 
(Da una poesia
Tombe dans l’enfer
Grouillant d’ètres humains
0 Russe tu m’apparus
Soudain, celestial
Parmi de la clameur
Du grouillement brutal
D’une làche humanité
Se pourrissant d’elle mème.
Je vis ta barbe blonde
Fulgurante au coin
Ton àme je vis aussi
Par le gouffre rejetée
Ton àme dans l’étreinte
L’étreinte désesperée
Des Chimères fulgurantes
Dans le miasme humain.
Voilà que tu ecc. ecc.
539
[in un ampio]
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/137]]==
In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della
società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri
umani ero rigettato come da onde ostili. Camminavano
velocemente come pazzi, ciascuno assorto in ciò che formava
l’unico senso della sua vita: la sua colpa. Dei frati grigi dal volto
sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In un angolo una testa
spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi
segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e
pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente.
*
* *
«Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente
il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse
muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando
ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E
si uccide». Parlava: quando, mentre mi fissava cogli occhi
spaventati e vuoti, io cercando in fondo degli occhi grigio-opachi
uno sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che li
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/138]]==
riempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, come di
meraviglia.
*
* *
Il Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiuso,
affamato, spiato implacabilmente, doveva confessare, aveva
confessato. E il supplizio del fango! Colla loro placida gioia i frati,
540
col loro ghigno muto i delinquenti gli avevano detto quando con
una parola, con un gesto, con un pianto irrefrenabile nella notte
aveva volta a volta scoperto un po’ del suo segreto! Ora io lo
vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di
torrente sassoso del continuo strisciare dei passi.
*
* *
Erano i primi giorni che la primavera si svegliava in Fiandra.
Dalla camerata a volte (la camerata dei veri pazzi dove ora mi
avevano messo), oltre i vetri spessi, oltre le sbarre di ferro, io
guardavo il cornicione profilarsi al tramonto. Un pulviscolo d’oro
riempiva il prato, e poi lontana la linea muta de
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/139]]==
lla città rotta di
torri gotiche. E così ogni sera coricandomi nella mia prigionia
salutavo la primavera. E una di quelle sere seppi: il Russo era
stato ucciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve ad un
tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi
sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto. Chiusi
le palpebre, restai lungamente senza pensiero: quella sera non
chiesi altro. Vidi che intorno si era fatto scuro. Nella camerata
non c’era che il tanfo e il respiro sordo dei pazzi addormentati
dietro le loro chimere. Col capo affondato sul guanciale seguivo
in aria delle farfalline che scherzavano attorno alla lampada
elettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza acuta, una
dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi.
Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La
penna scorreva strideva spasmodica. Perchè era uscito per
salvare altri uomini? Un suo ritratto di delinquente, un
insensato, severo nei suoi abiti eleganti, la testa portata alta con
dignità animale: un altro, un sorriso, l’immagine di un sorriso
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/140]]==
ritratta a memoria, la testa della fanciulla d’Este. Poi teste di
contadini russi teste barbute tutte, teste, teste, ancora teste...
La penna scorreva strideva spasmodica: perchè era uscito per
salvare altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa , il russo
scriveva, scriveva scriveva...
*
* *
Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i
delinquenti politici avevano compito l’ufficio i Frati della Carità Cristiana.
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/141]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/142]]==
PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA
E RITORNO
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/143]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/144]]==
 
Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda
elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili
curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno,
moltiplicato miraggio di enormi palazzi regali e barbari, i
diademi elettrici spenti. Corro col preludio che tremola si
assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo alla
piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si
sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati
d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un
fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce
verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per
rompere la linea dell’orizzonte.
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/145]]==
Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare
rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero
portato lontano nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini
erano scomparsi fusi come in una nebbia. Cresceva l’odore
mostruoso del mare. La lanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio
dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il battito forte nei
fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e ne
svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un
bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi
pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la
luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il
544
tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la
raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto
leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che
pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare
tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa
melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si
indovina solo alle scosse di danza bizzarre che la scuoto
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/146]]==
no!
C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo
della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che
importava in fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a
Buenos Aires: questo dava allegria: e il mare se la rideva con noi
del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità
irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo
riso mi dava... basta: i giorni passavano. Tra i sacchi di patate
avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tramonto che
illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno.
Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando
l’acqua saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul
mare. Volavano uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza
gioia. Poi sdraiato in coperta restavo a guardare gli alberi
dondolare nella notte tiepida in mezzo al rumore dell’acqua...
Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l’arco di
violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono
sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido
odore di catrame e di carbone misto
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/147]]==
al nauseante odor d’infinito.
Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno
di carcasse delle lente file umane, formiche dell’enorme ossario.
Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividisce un fiume che
fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti fugge veloce verso
l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù per
rompere la linea dell’orizzonte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/148]]==
 
[L’INCONTRO DI REGOLO]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/149]]==
Ci incontrammo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/150]]==
nella circonvallazione a mare. La strada era
deserta nel calore pomeridiano. Guardava con occhio
abbarbagliato il mare. Quella faccia, l’occhio strabico! Si volse: ci
riconoscemmo immediatamente. Ci abbracciammo. Come va?
Come va? A braccetto lui voleva condurmi in campagna: poi io lo
decisi invece a calare sulla riva del mare. Stesi sui ciottoli della
spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornato
d’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo
l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e il primo, per la
strada di Pavia, lui scalcagnato, col collettone alle orecchie!
Ancora il diavolo ci aveva riuniti: per quale perchè? Cuori leggeri
noi non pensammo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/151]]==
a chiedercelo. Parlammo, parlammo, finché
sentimmo chiaramente il rumore delle onde che si frangevano
sui ciottoli della spiaggia. Alzammo la faccia alla luce cruda del
sole. La superficie del mare era tutta abbagliante. Bisognava
mangiare. Andiamo!
*
* *
Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e
senza esitazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, il resto o
547
rincidente. Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare
alla mostruosa assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di
sguattero, pasto di rifiuti tra i miasmi della lavatura grassa.
Andiamo!
*
* *
Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore,
scialacquatore, con in cuore il demone della novità che lo gettava
a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi
nervi saturi l’avevano tradito ed era restato per un quarto d’ora
paralizzato dalla parte destra, l’occhio stra
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/152]]==
bico fisso sul
fenomeno, toccando con mano irritata la parte immota. Si era
riavuto, era venuto da me e voleva partire.
*
* *
Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo
irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva
ancora la faccia a destra atona e contratta e sulla guancia destra
il solco di una lacrima ma di una lagrima sola, involontaria,
caduta dall’occhio restato fisso: voleva partire.
*
* *
Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni
tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla
parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la
548
mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per
sè sereno.
*
* *
Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla
mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci
semplicemente
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/153]]==
la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo,
senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi
liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile.
549
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/154]]==
 
[SCIROCCO]
[(Bologna)]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/155]]==
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/156]]==
Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei
vetri. Aprii la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al
fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano
nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo
dorato. Tutto attorno la città mostrava le sue travature colossali
nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida ancora della pioggia
recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine di
un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai dopo la
partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco
sembravano ancora giungere in soffi caldi e lontani di laggiù i
riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/157]]==
varcavano la curva
dell’orizzonte. Si sentiva l’attesa. In un brusio di voci tranquille
le voci argentine dei fanciulli dominavano liberamente nell’aria.
La città riposava del suo faticoso fervore. Era una vigilia di festa:
la Vigilia di Natale. Sentivo che tutto posava: ricordi speranze
anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo laggiù: e l’orizzonte
mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle sue nuvole
mobili all’infinito. Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello
Scirocco mi beavo dei suoi soffi tenui. Vedevo la nebulosità
invernale che fuggiva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano
laggiù sul lastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace
551
chiarità perlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci e
cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti
dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato
nella cadenza lieve ed uguale: poi guardavo le torri rosse dalle
travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte
sull’infinito.
Era la Vigilia di Natale.
*
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/158]]==
**
Ero uscito. Un grande portico rosso dalle lucerne moresche:
dei libri che avevo letti nella mia adolescenza erano esposti a una
vetrina tra le stampe. In fondo la luminosità marmorea di un
grande palazzo moderno, i fusti d’acciaio curvi di globi bianchi ai
quattro lati.
La piazzetta di S. Giovanni era deserta: la porta della prigione
senza le belle fanciulle del popolo che altre volte vi avevo viste.
*
* *
Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti, nella
scia bianca del suo pennacchio una figura giovine, gli occhi grigi,
la bocca dalle linee rosee tenui, passò nella vastità luminosa del
cielo. Sbiancava nel cielo fumoso la melodia dei suoi passi.
Qualche cosa di nuovo, di infantile, di profondo era neH’aria
commossa. Il mattone rosso ringiovanito dalla pioggia sembrava
esalare dei fantasmi torbidi, condensati in ombre di dolore
virgineo, che passavano nel suo torbido sogno (contigui uguali
gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline
fuori della porta): poi una grande linea che apparve passò: una
grandiosa, virginea [testa reclina d’ancella mossa]
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/159]]==
di un
passo giovine non domo alla cadenza, offrendo il contorno della
mascella rosea e forte e a tratti la luce obliqua dell’occhio nero al
disopra dell’omero servile, del braccio, onusti di giovinezza:
muta.
*
* *
(Le serve ingenue affaccendate colle sporte colme di
vettovaglie vagavano pettinate artifiziosamente la loro fresca
grazia fuori della porta. Tutta verde la campagna intorno. Le
grandi masse fumose degli alberi gravavano sui piccoli colli, la
loro linea nel cielo aggiungeva un carattere di fantasia: la luce,
un organetto che tentava la modesta poesia del popolo sotto una
ciminiera altissima sui terreni vaghi, tra le donne variopinte
sulle porte: le contrade cupe della città tutte vive di tentacoli
rossi: verande di torri dalle travature enormi sotto il cielo curvo:
gli ultimi soffi di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità
abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel
verde e il cannone tonò mezzogiorno: solo coi passeri intorno
che si commossero in breve volteggio attorno al lago
Leonardesco).
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/160]]==
CREPUSCOLO MEDITERRANEO
 
 
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/161]]==
 
Crepuscolo mediterraneo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/162]]==
perpetuato di voci che nella sera si
esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più
vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può
dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in
alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel
mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un
mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati
fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che
non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e
palazzi marini e dove il mito si cova? Mentre dalle volte un altro
mito si cova che illumina solitaria
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/163]]==
limpida cubica la lampada
colossale a spigoli verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di
antenne, ecco che sul tuo porto fumoso di molli cordami dorati,
per le tue vie mi appaiono in grave incesso giovani forme, di già
presaghe al cuore di una bellezza immortale appaiono rilevando
al passo un lato della persona gloriosa, del puro viso ove l’occhio
rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre all’incesso
della dea. Profumi vari gravavano l’aria, l’accordo delle chitarre
si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via
che ripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe
promettevano vini d’oriente dal profondo splendore opalino
mentre a me trepidante la vita passava avanti nelle immortali
555
forme serene. E l’amaro, l’acuto balbettio del mare subito spento
all’angolo di una via: spento, apparso e subito spento!
il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite sui
muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a
un più antico ricordo di gloria e di gioia. Un bizzarro palazzo
settecentesco sporge all’angolo di una via, signoril
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/164]]==
e e fatuo, fatuo
della sua antica nobiltà mediterranea. Ai piccoli balconi i
sostegni di marmo si attorcono in sè stessi con bizzarria. La
grande finestra verde chiude nel segreto delle imposte la
capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la via
barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una
chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa
convenzionale mentre che sulla via le perfide fanciulle brune
mediterranee, brunite d’ombra e di luce, si bisbigliano
all’orecchio al riparo delle ali teatrali e pare fuggano cacciate
verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia barocca:
mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute
degli angioli che riempie la via.
 
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[PIAZZA SARZANO]
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A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria
pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena
segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha
tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate
rosea di più rosea estate.
Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle risa,
serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera
che cela una campana: mentre, accanto, una fonte sotto una
cupoletta getta acqua acqua ed acqua senza fretta, nella vetta
con il busto di un savio imperatore: acqua acqua, acqua getta
senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore
romano.
Un vertice colorito dall’altra parte della piazza mette
quadretta, da quattro cusp
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idi una torre quadrata mette
quadretta svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il
tortueggiare, sopra dei vicoli il velo rosso del roso mattone: ed a
quel riso odo risponde l’oblio. L’oblio così caro alla statua del
pagano imperatore sopra la cupoletta dove l’acqua zampilla
senza fretta sotto lo sguardo cieco del savio imperatore romano. 1
Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze
mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a
traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della
luce riempiono il paesaggio di un’immobilità di gioia
inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano
a illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un
ritmico strido: un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente.
Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal
mare dove vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra: in
mezzo alla piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la
cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. È la
notte mediterranea.
*
* *
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Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza
accesa sul corroso mattone su a capo dei vicoli gonfi cupi
tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta
ride svariata di smalto mentre nel fondo bianca e torbida a lato
dei lampioni verdi la lussuria siede imperiale. Accanto il busto
dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un
bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza. La via
si torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleggiano
ancora tra lo svariare del verde e si scorge in fondo il trofeo della
V. M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria.
 
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GENOVA
 
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Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcana-
mente illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udii canto udii voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblio parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscii: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio
Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto
Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande:
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Come le cateratte del Niagara
Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare:
Genova canta il tuo canto!
*
* 2
Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
Fa febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.
Per i vichi marini nell’ambigua
Sera cacciava il vento tra i fanali
 
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Preludi dal groviglio delle navi:
I palazzi marini avevan bianchi
Arabeschi nell’ombra illanguidita
Ed andavamo io e la sera ambigua:
Ed io gli occhi alzavo su ai mille
E mille e mille occhi benevoli
Delle Chimere nei cieli...
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto sale...
Dentro il vico chè rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita...
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
«Come nelVali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì...» —
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca...
Bianca quando nel rosso d
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el fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì...
563
Di già tutto d’intorno
Lucea la sera ambigua:
Battevano i fanali
Il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
Dentro silenzi solenni
Chiedendo: se dal mare
Il riso non saliva...
Chiedendo se l’udiva
Infaticabilmente
La sera: a la vicenda
Di nuvole là in alto
Dentro del cielo stellare.
*
* *
Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di f
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elicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
564
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
 
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Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.
*
* *
Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
II vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
565
Mentre il porto in un dolce scricchiolio
Dei cordami s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.
*
* *
0 Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
Pei grigi rosei della città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
E poi più quieti i rumori dentro la notte sere
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na:
Vedevo alle finestre lucenti come le stelle
Passare le ombre de le famiglie marine: e canti
Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:
Ch’era la notte fonda.
Mentre tu siciliana, dai cavi
Vetri in un torto giuoco
L’ombra cava e la luce vacillante
0 siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
Cigolava cigolava cigolava di catene
La gru sul porto nel cavo de la notte serena:
E dentro il cavo de la notte serena
566
E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena
They were all torn
and cover’d with
the boy’s
blood
567
[Ringrazio i signo
==[[Pagina:Dino Campana - Canti Orfici, Ravagli, Marradi 1914.djvu/181]]==
ri]
Ringrazio i signori sottoscrittori, gli amici che mi hanno
incoraggiato ed anche last not least, il coscienzioso coraggioso e
paziente stampatore sig. Bruno Ravagli —
Dino Campana
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
S. C. — Essendo andata all’aria l’ultima riga della pagina 151 la
riproduciamo qui:
diosa, virginea testa reclina d’ancella mossa
568
Un 'plauso'
di Giovanni Boine
Nota al testo
di Fabio Barricalla
Il testo-base è tratto da Giovanni Boine, «Plausi e botte», in «la
Riviera ligure», Anno XXI, 4a Serie, N. 44, Onegl