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Un silenzio tu dêi. Nè mi fa d’uopo
D’alcun mortal la valevole aita.
830Ciò che far si dovrà, per me con molto
Studio farassi; tu dalla guaina
Del favellar non togliere la spada.
     Avea l’antico re nel suo palagio
Un ameno giardino, esilarante
835Il cor del vecchio prence. Ogni mattina,
Sorgendo al primo albor, per far sue preci
Ei s’apprestava, e in quel giardin la fronte
E le membra lavar nascostamente
In un’onda solea, nè gli recava
840Alcun servo fedel dietro a’ suoi passi
Chiara lampada accesa. Il Devo tristo,
In suo malo consiglio, una profonda
Fossa cavò sul rapido sentiero;
Iblìs malvagio con vilucchi ed erbe
845Coprì a sommo la fossa alto scavata,
E la via ne appianò da tutte parti.
Venne la notte, e l’inclito signore
Dell’arabe contrade al suo giardino
Tacitamente volse il pie. Ma, giunto
850Quand’ei fu all’orlo della cupa fossa,
Precipitò la sorte sua sì lieta
Di prence e di signor, chè dentro ei cadde
All’occulta voragine profonda
E nell’alta caduta infrante e peste
855Ebbe le membra. Là mori quel grande
Fedele a Dio, d’integro cor; quel prence,
Nella propizia e nella rea fortuna
Libero e grande, che gemè pur tanto
Pel giovinetto figlio suo, che un giorno
860L’allevò con carezze e con fatiche,
Per lui fu lieto, e tesori gli porse,
Là si giacque e morì. Ma il figlio suo,
Stolto e malvagio, non cercò del padre