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Allora le dissi che gli amici non li vedevo più da un pezzo.
Chi s’era sposato, chi trasferito chi sa dove. - Ti ricordi Martino? si è sposato in un bar.
Ridemmo insieme di Martino. - Succede a tutti, - continuai.
- Si passano insieme dei mesi, degli anni, poi succede. Si perde un appuntamento, si cambia casa, e uno che vedevi tutti i giorni non sai nemmeno più chi sia.
Cate mi disse ch’era colpa della guerra.
- C’è sempre stata questa guerra, - le dissi. - Tutti un bel giorno siamo soli. Non è poi così brutto. Lei mi guardò di sotto in su. - Ogni tanto si ritrova qualcuno.
- E che cosa t’importa? Tu non vuoi fare niente e vuoi star solo.
- Sì, - le dissi, - mi piace stare solo.
Allora Cate mi raccontò di sé. Disse che aveva lavorato, ch’era stata operaia, cameriera in albergo, sorvegliante in colonia. Adesso andava tutti i giorni all’ospedale, a fare servizio. La vecchia casa di via Nizza era crollata e morti tutti, l’anno prima.
- Quella sera, - le dissi, - ti eri offesa, Cate?
Mi guardò con un mezzo sorriso, ambigua. Io, per puntiglio, più che altro, dissi: - Dunque? Sei sposata, sì o no?
Scosse il capo adagio.
«C’è stato qualcuno più villano di me», pensai subito, e dissi:
- È tuo figlio il ragazzo?
- E se fosse, - lei disse.
- Ti fa vergogna?
Alzò le spalle, come un tempo. Credevo ridesse. Invece disse a voce rauca, piano: - Corrado, lasciamola lì. Non ho voglia. Posso ancora chiamarti Corrado?
In quel momento fui tranquillo. Capii che Cate non pensava a riprendermi, capii che aveva una sua vita e le bastava. Quel che avevo temuto era che facesse la violenta e l’umiliata di un tempo e volesse gridare. Le dissi: - Scema. Puoi chiamarmi come vuoi -. Mi venne Belbo sottomano e lo presi alla nuca.
In quel momento dalla casa buia uscivano tutti, chiacchierando e vociando.
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