Edgar Poe/Parte decima: differenze tra le versioni

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La fiaccola folle non cadde, a spengersi sopra il freddo suolo, ma fu raccolta da un altro scrittore: Villiers de l'Isle-Adam. E l'opera dell'umorista francese completa quella dell'umorista americano, come la vita dell'uno illumina ancor più la vita dell'altro. "Endurer pour durer", fu il motto di Villiers e il simbolo del suo martirio. Sopportare per rimanere! Non è lo stesso motto di Poe? Ma quale santo o qual poeta scioglierà alla Pazienza un inno degno di questa sublime virtù, che accompagna l'uomo di genio nel suo doloroso calvario e lo accomuna col pensoso asinello, così mal conosciuto e misconosciuto dal mondo? Anche nel mistero cristiano, un profondo simbolismo assegna una parte essenziale al ciuco, fedele amico di Colui, che dalla vita dovea ricevere la maggior somma di delusioni e di dolori e dalla morte la maggior luce di gloria. Pazienza, bordone per i passi stanchi, raggio di sole per l'anima ottenebrata, non a torto tu fosti proclamata prerogativa del più orecchiuto, ma del più disdegnoso fra gli animali, dagli ancor più orecchiuti seguaci della beffa stolida e superficiale! L'assiomatica irritabilità dei poeti, trastullo retorico d'ogni studente di liceo, non è che l'apparenza effimera, sotto la quale si cela, appunto, la pazienza. Ed io so che, salvo poche eccezioni, dovute a capricci della sorte, le creature superiori trangugiano intiera la coppa del fiele prima di sfolgorar dal lor Golgota: io so che Dante dovè, chiusi gli occhi per sempre, attendere che il patrocinio di un Boccaccio gli aprisse la via al trionfo: so che Cervantes dovè veder, vivo, il suo Don Chisciotte interpretato come un libro di amena lettura e, solo dopo morte, sorridere amaro della troppo tarda ammirazione: so che la grande Elisabetta e il buon pubblico londinese doveron considerare Shakespeare come un semplice piacevole istrione, e stupirebbero, oggi, se, tornando al mondo, lo scorgessero circonfuso di gloria. La parodia del "genio incompreso", pur essendo una graziosa burattinata ad uso e consumo degli scrittori mancati, ha profonde radici nella realtà: e gli stentati alberelli dei superuomini in miniatura altro non sono se non i labili segni di una legge eterna.
Come nelle migliori novelle, così nelle poesie di Edgar Poe il vero protagonista è sempre lui. Anche qui, nella lirica, domina la grande nevrosi, col suo strascico d'incubi e di terrori. E, accanto al poeta ossessionato e allucinato dallo spetro della morte, riappaiono le evanescenti figure delle sue eroine predilette, di quelle donne che, pur chiamandosi con i diversi e armoniosi nomi di Ligeia, Berenice, Ulalume, Lenora, Annabel Lee, riproducono sempre un'unica donna illuminata dal più puro amore e idealizzata dall'inesorabile morte. Poe lirico deve esser collocato a fianco di Leopardi, poichè entrambi hanno cantato, come nessun altro, il dolore senza speranza e lacrimato con spasimo uguale per la misteriosa legge, che dà profondità all'amore solo a traverso la morte.
 
Ed ecco ancora un uomo di genio, che trascorse inosservato la propria esistenza e oggi, scomparso da anni dal buffo palcoscenico del mondo, si drizza gigante sovra le più alte vette dell'arte: Villiers de l'Isle-Adam.
L'amore, sulla terra, è impossibile, piange Poe nella lirica Annabel Lee, inspirata dal ricordo di Virginia, la sororale sposa scomparsa: è impossibile, poichè gli stessi angeli del cielo, invidiosi di questa felicità umana, si affrettano a troncarla:
 
Nacque, egli, a Saint Brieuc, in Bretagna, il 7 novembre 1838 e, dopo gli splendori e le gioie di un'adolescenza idoleggiata dai famigliari e sorrisa dalle agiatezze, condusse l'umile miserabile vita del suo fratello spirituale: Edgar Poe. Ma, dentro il cuore, custodiva la rifulgente memoria degli avi crociati e, nell'animo, un sogno, che trascendeva ogni realtà. Gli scapigliati caffè parigini videro questo impenitente nottambulo avvicendare le ebrezze di una sfrenata improvvisazione, in crocchio di amici, con le ebrezze, oh come tremende!, dell'alcool. E gli scrittori mediocri e morigerati storser le labbra sdegnosi; e i cittadini pacifici gridaron l'anatema o volsero altrove gli sguardi. Non sapevan, però, gli uni e gli altri, qual tesoro si celasse in quell'ometto timido e irruento a sbalzi, femmineo a dispetto del pizzo alla moschettiera e dei baffi spavaldi, ingenuo nei chiari occhi azzurri, aspro e doloroso nella piega ironica delle labbra, trasandato nelle vesti, ma nobilmente scrupoloso e accurato in tutto ciò, che toccasse la sua maggiore amica e nemica: l'arte. La chioma lunga e bionda, di continuo rigettata all'indietro da un consuetudinario gesto della mano fine, di donna o di abate d'altri tempi, era così piena di luce, da non dover temere i contatti con le tenebre o, peggio, con la greve atmosfera delle bettole affumicate. Ma gli uomini non vedevan la luce: gli uomini, ancora nauseati ed offesi dalla vita buia di un altro genio luminoso, scorgevano in Villiers, come avevan scorto in Carlo Baudelaire, un inseguitore di nuvole e di chimere, un perdinotti inutile, e forse nocivo, per una società ben ordinata e regolata.
<poem>
" Or sono molti e molti anni
- in un reame accanto al mare -
una fanciulla viveva,
che forse voi conoscete,
di nome Annabel Lee;
e la fanciulla viveva
con quest'unica sete
di amare
e d'essere amata da me.
 
Solo zia Kérinou (o "più che madre" indimenticabile, Maria Clemm di Edgar Poe!) seppe, unica per anni, comprendere gli entusiasmi e le speranze e la fede del poeta. Poi, altri, pochissimi, si avvicinarono, tendendo le mani: primi, Baudelaire e Wagner. Poi, ma col lungo volger del tempo, qualche giovane si soffermò, ammirando: Verlaine, Maeterlinck; grandi nomi! E il poeta maledetto divenne caposcuola delle nuove generazioni. Ma la vita continuò a mostrarglisi dura: lo scoppio della guerra tra Francia e Germania soffocò fragoroso le nascenti voci di simpatia; e un morbo, rampollato dalla miseria e dagli stravizi di un temperamento eccessivo, sopraggiunse a travolgere nei gorghi della morte, il 18 agosto 1889, la spoglia corporea e a consacrare alla gloria l'arte di Giovanni Maria Mattia Filippo Augusto conte di Villiers de l'Isle-Adam.
Bimbi eravamo in quegli anni
- e in quel reame accanto al mare -
ma ci amavamo di un bene
ch'era assai più dell'amore,
io ed Annabel Lee;
era tanto questo bene
che agli angeli fè il cuore
tremare
d'invidia per essa e per me.
 
Un solo amore, da giovinetto; qualche preziosa amicizia; molte ammirazioni seminascoste (in ritardo, quest'ultime); nessun episodio chiassoso, nessun viaggio, se non per udire le opere Wagneriane. Esistenza, che può essere racchiusa in una frase. Ma l'ostinato sedentario, l'uomo che rifuggiva dagli spettacoli così detti poetici ed emozionanti (paesaggi, paesi: natura, mondo), non aveva bisogno di muoversi, non aveva bisogno di varcare la cinta della città per trovare spettacoli, per provare emozioni. Un intiero universo era nel suo cervello: un universo, che già conteneva quello reale, arricchito dalle visioni magnifiche di una immaginazione di poeta.
Ecco perchè, or son tanti anni,
- in quel reame accanto al mare -
una nube alitò un vento
gelido per la mia bella
mia bella Annabel Lee;
e chiuso fu il corpo spento
nella tomba più bella
sul mare,
lontano lontano da me".
</poem>
 
Un altro scrittore di genio viveva, in quei tempi, ignoto e ignorato. Ma, al contrario di Villiers, Ernesto Hello, il formidabile pensatore dal volto ecclesiastico, che passò a traverso Parigi provocando le risa dei molti col suo ingombrante ombrello verde di campagnuolo, balzava, leonino, a chiedere per qual motivo gli fosse contesa la gloria e sbalordiva vedendosi trascurato e non rammentava che le trombe della rinomanza facevano, in quegli anni, risuonare le vie del nome di Teofilo Gautier, un mortale, mentre il nome di Carlo Baudelaire, un immortale, germogliava ancora nell'ombra. Molti libri ho composti, diceva: per chi? per i tarli arabescatori e la polvere divoratrice, becchini e lenzuolo funebre dei volumi invenduti? E non sapeva, Hello, che le quercie tarde sono allo sviluppo, ma resistenti all'insidia dei secoli.
Ma se la felicità non può esser raggiunta in vita, la morte deve apparire come una liberazione dal dolore. Questo è, appunto, il motivo lirico del poemetto Per Annie, che preannuncia I fiori del male di Baudelaire e si scioglie come un inno di gratitudine perchè la crisi, la febbre chiamata Vita, è scomparsa.
 
Villiers no, Villiers sapeva; e già aveva formulata la condanna dei contemporanei e costretto in quattro parole il destino dei proprii rari fratelli nello spazio e nel tempo, ruggendo sarcastico, fra due feroci sghignazzate: "Niente genio, sovra tutto!"
Ma la vita e la morte sono i due personaggi di un'immane tragedia: e dal loro cozzo nasce l'orrore. Ed ecco la raffigurazione di questa tragedia nel poema Il verme conquistatore. Ed ecco, infine, la lirica della disperazione, che non conosce tregua nè parola consolatrice: Ulalume, pellegrinaggio del poeta verso una vaga luce nebulosa, troncato dalla fredda sagoma d'un sepolcro su cui appare inciso, irrevocabile sentenza di dolore eterno, il nome della morta benamata Ulalume. Ed ecco il poema più famoso fra tutti: Il corvo. Qui, Poe si trova faccia a faccia col proprio destino: e il destino è nero corvo che, appollaiato sovra il bianco busto di Pallade, diffonde, nella silenziosa stanza, un'ombra sempre più ampia. I dolori e i desiderii, le speranze e i ricordi parlan con le labbra del poeta, rivolgendo all'uccello infausto l'eterna domanda. Dolori e desiderii avran quiete? E i ricordi potranno trarre conforto dalle speranze? E Lenora, l'amatissima, che riassumeva in sè ogni luce e, morendo, lasciò dietro di sè solo tenebre, rivivrà, in spirito o in carne, accanto all'uomo tormentato dalla solitudine? Ma il corvo risponde, con insistenza gelida: No, mai più! E ogni domanda cade nel vertiginoso abisso del nulla. E l'ombra del corvo si distende sovra tutta la stanza, come la disperazione sull'anima dei poeta.
 
Il vero Villiers non è nelle pagine spirituali, solcate dai barbagli della fede e arroventate dalle fiamme della scienza occulta: non è nè in Isis nè in Asrael nè in Akédysséril. E non è neppure, sebbene, qui, la personalità si affermi con maggior risolutezza, nelle acqueforti della vita: in Le signorine di Bienfilâtre (Guy de Maupassant appare già lì, precorso, per intiero) o nei drammi. Per trovarlo veramente, per rinvenire il filone d'oro puro, un pò soffocato dalla pressione dell'influsso di Poe, maestro d'ogni spiritualità e d'ogni acquafortismo, occorre giungere ai migliori Racconti crudeli, al romanzo L'Eva futura e, sovra tutto, a Tribolato Bonomo.
Il corvo e le migliori poesie di Edgar Poe rappresentano vibrazioni di sensibilità, stati dello spirito, che si manifestano con le parole, ma togliendo a queste ogni peso di materia e aereandole sino a farle divenire lievi come suoni d'arpa. Così, per i colori, l'arcobaleno o un alone lunare, se confrontati con la massiccia fonte luminosa, dalla quale provengono. Lirica, che suggerisce senza spiegare e che, rifuggendo dal definitivo e dal descrittivo, adoprando l'immagine come un semplice ponticello gettato di tempo in tempo fra il sogno e la realtà, s'intesse solo di sfumature e di moti intimi e di musicalità, che è, pur essa, sensibilità. Delirio ebro, simile, per qualche aspetto, al delirio dell'uomo che, fermo sotto una nicchia, ove un mite volto di madonnina di pietra s'anima lievemente roseo al fievol barlume di una pia lanternina, parli e gestisca in un soliloquio altrui incomprensibile. L'uomo è fermo, ma parla veemente, in tòno ora aspro ora ironico, e gestisce violento, manifestando ora sprezzo ora collera. Magnifico d'orgoglio, afferma la propria personalità di fronte alla statuetta di pietra: ma anche di fronte alla notte e al cielo e al mondo creato e al Creatore. Non c'è, forse, entro di lui, tutto un mondo? Non è forse, egli stesso, un Iddio? Inebriato della propria forza, l'uomo attinge da questa l'audacia per ingigantire sino a riempir di sè l'universo. Ed è sublime e grottesco ad un tempo: ma non s'accorge d'esser sublime, e non si preoccupa di apparire grottesco. Sembra intieramente accaparrato dal colloquio con la silenziosa madonnina; eppure, se un'ala di pipistrello gli sfiori la guancia o un alito di brezza s'insinui a giocare tra i ciuffi dei suoi capelli scompigliati, sobbalza e guata bieco d'attorno e a volte urla di terrore come se avesse sentito il freddo fiato della morte. La sua impressionabilità è grande, infatti, al pari della sua personalità: l'una gli riempie il cuore d'ombre, l'altra gli riempie l'anima di luce.
 
Badiamo. Non bisogna chiedere a queste opere la risata di Voltaire o di Pulcinella: risata di letterato che, dal davanzale della finestra, contempli la piccola verità del mondo esteriore, ma ignori la grande verità racchiusa nel nostro mondo interno e, credendo di mostrarsi benefico verso l'umanità, distrugga con l'acido corrosivo dell'ironia i leggeri veli, distesi dall'illusione innanzi agli occhi degli uomini. Il poeta ride ben diversamente. Il poeta sa, per divina intuizione, che la verità obiettiva si risolve in una menzogna e che ogni velo, interposto fra i nostri sguardi e il mondo, ci aiuta a trovare in noi stessi la verità vera e a sopportare con minor disperato accoramento quelle fallaci: e perciò, appunto, se una furia d'uragano laceri le aeree trame tessute dal desiderio e spinga lui, tremebondo, a cozzare contro le deformi membra di una realtà denudata, cuopre gli urli e nasconde i gemiti della propria anima con le sghignazzate di Swift e le risate di Cervantes e le invettive di Dante. Così Villiers. La sua arma è il sarcasmo, non l'ironia; poichè l'ironia è una pallida fiamma di alcool, ma il sarcasmo è il vivo incendio del rogo, ove si straziano la carne stessa e l'anima del poeta. Oh, si sdilinquisca pure, e frema di godimento, la critica, innanzi alla letteratura ironista, frutto di uno scetticismo privo di luce! Arricci pure la bocca, questa occhialuta signora, davanti ad opere, nelle quali il dolore, non potendo pianger liberamente, ha presa la tragica veste del sarcasmo e la spietata maschera della satira: e, non riuscendo a romper con i molli denti la dura scorza, che protegge la mandorla, tacci di grossolanità gli scrittori poeti! La critica è miope: ma la gloria è presbite.
Ma guai s'egli riprenda a camminare. Il suo passo vacillante rivela, subito, che la personalità era artificiosa e che l'impressionabilità era dovuta al demoniaco influsso dell'alcool.
 
Che cosa rappresenta Tribolato Bonomo, se non la personificazione di un dolore, che può rivelarsi solo, tanto è profondo e squassante, per mezzo della profonda satira, del sarcasmo squassante? Il segreto di un'epoca imbevuta di positivismo, desiderosa, al fisico come al morale, di una tranquillità, che non turbi i falsi orgogli per un falso progresso nè le reali gioie di una laboriosa digestione, adoratrice, nella propria mediocrità, del mediocre idoletto Buonsenso; il recondito pensiero moderno, insomma, ha trovato un tremendo porta-voce nell'accorato poeta: e, pur subendo il destino delle età di transizione, travolte irremissibilmente (uomini e cose) dalla lor nullità verso il nulla, si è accaparrato nella storia, incarnandosi in Bonomo, un posto in piena luce.
E, tuttavia, quell'ubriaco avrebbe potuto proclamarsi fratello, almeno per un momento, del poeta lirico puro. Altri elementi concorrono a inspirare la tragedia e la tragicommedia, ma due soli bastana per la lirica: personalità e impressionabilità. Effetto dell'ebrezza nell'uomo alcoolizzato, questa sensibilità, spontanea in un temperamento di poeta, si nobilita divenendo, a sua volta, causa di una ebrezza maggiore e migliore: della ebrezza, piena d'ombre e di luci, che sfocia appunto nell'oceano, or cupo ora fosforescente, del lirismo. Ma nella voce rauca dell'ubriaco, per chi porga attento orecchio, si odon passare a ondate, malinconica parodia, le gioiose sonorità e i disperati singhiozzi del poeta.
 
Umorismo, dunque, rappresentativo di un'epoca: come rappresentativo di una razza è l'umorismo di Poe. Quante affinità, nella vita e nell'arte, fra i due scrittori! E tuttavia il poeta americano, genio più vasto, lasciò anche nella lirica pura, a differenza dell'irrimediabilmente amaro Villiers, una traccia indelebile.
Delicato strumento, barometro spirituale foggiato per registrare i più lievi mutamenti, il poeta lirico accoglie e incanala nella propria personalità il continuo afflusso delle impressioni esteriori come la montagna accoglie le gocce dell'acqua piovana per avviarle, in gorgoglianti rivoletti, verso lo scroscio del fiume. Si chiamava, ieri, Catullo: e cantava i sensuali amori e la purpurea vita di Roma dominatrice; si chiamava Rudel, e cercava turbolento di ghermire la maggior avventura fra il tumulto di un'epoca ricca d'avventure; si chiamava De Musset, e tuffava la propria inquietudine nel gorgo di una generazione inquietissima.
 
Poe era, anch'egli, un lirico. Ma era, anche, l'esule che guarda trasognato le sterili contrade offerte alla sua sete; era il pellegrino che, a piedi nudi, percorre un terreno irto di sassi; era l'orestiade, che fugge ululando, inseguito dalle furie del dubbio.
 
Triste destino, oggi, nascer poeti! L'umanità, straripando, immane fiumana, dagli argini, che la sorte le aveva costruiti, infuria contro tutto ciò, che le sembri d'impaccio al cammino, e travolge con folle gioia ogni opera d'arte, ogni segno di bellezza. Livellatrice feroce, essa scaglia le proprie onde contro ogni cosa, che emerga, e sghignazza sguaiata a ogni crollo. Ma, forse, sa d'infuriare contro sè stessa. Forse, in questa spietata distruzione dei valori, in questa corsa sfrenata verso la volgarità, c'è la febbre alta, la febbre della crisi, che segna il trapasso alla morte o il ritorno alla vita. E la lucida falce, che lavora incessantemente a eguagliare le anime, è, forse, la falce che abbatte l'erba perchè, nella nuova stagione, cresca più rigogliosa.
 
Ma, intanto, il poeta trema udendo giungere, sempre più vicino, sempre più minaccioso, il mugghio dell'acque. Ardito è il suo piede: e potrebbe aiutarlo a scalare vette infranabili, a salvarsi dalla ruina. Ma è un piede chiuso entro una scarpa fabbricata da uomini frettolosi: scarpa dozzinale, che si spacca se tu la costringi a salire.
 
Come poteva questa umanità, l'umanità moderna, comprendere l'ebro delirio del poeta? Solitario visse, dunque, Edgar Poe: tra grandi sogni. Ma, sebbene il suo temperamento di romantico lo spingesse a disincagliarsi da ogni tradizione e da ogni dogma, la sua raffinata natura di artista lo ricondusse sempre entro i confini della poesia pura che è, essenzialmente, armonia. Isolato nel mondo, egli fu e seppe rimanere un solitario, anche in arte. Per questo, la letteratura americana e il popolo degli Stati Uniti, così rifuggenti, l'una e l'altro, da ogni raffinatezza, poterono avere l'imperial dono di una lirica aristocraticamente eccezionale. Ma per questo, anche, la lirica di Poe è intraducibile. Il paziente bulino di Mallarmé ne rese, in parte, la squisita musicalità; l'intuitivo genio di Baudelaire ne riprodusse, in parte, l'intimo brivido. Ma nessuna versione rispecchia 1'ebro delirio del poeta, che definiva la poesia come una ritmica creazione della bellezza e dichiarava il ritmo e la musica unici mezzi, a traverso i quali si possan provare le gioie estatiche di un mondo superiore a quello terreno.
 
Più tardi, il concetto di una sensibilità lirica espressa nei modi più impalpabili e inafferrabili sarà ripreso da Verlaine e formulato definitivamente nel verso
 
"De la musique avant toute chose".
 
Ma quanti anni dovevan trascorrere prima che il sublime poeta di La dormiente fosse proclamato principe della Lirica. E quanti più ne sarebbero occorsi se, a toglier Poe dalla bolgia dei poeti maledetti, non fosse intervenuto un altro scrittore di genio: Baudelaire!
 
E come incompleta e monca sarebbe la biografia dell'uno, se non parlassimo dell'altro: di colui che, sventurato e sublime del pari, dimenticò i propri crucci e nobilmente umiliò il proprio ingegno per tradurre e rivelare al mondo l'opera del maggior fratello nel tempo!
 
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