Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/52: differenze tra le versioni

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sa quel che si faccia dopo; il tumulto che nasce dalla cosa stessa,
sa quel che si faccia dopo; il tumulto che nasce dalla cosa stessa, i littori che Appio ha dintorno, la previdenza ed accorto coraggio d’Appio medesimo; tutto fa ostacolo; e si principia una seconda tragedia, se si tien dietro ad Appio piú che non bisogni; o si allunga, con grave difetto d’arte, la prima.

i littori che Appio ha dintorno, la previdenza ed accorto coraggio
Parmi d’avere addotto le varie ragioni, che non la passione d’autore per le cose proprie, ma la riflessione imparziale di uomo d’arte mi detta sulle difficoltá varie da lei incontrate nelle mie quattro tragedie. La soluzione di molte di esse sarebbe forse piú giusta, e piú facile, se fossimo all’atto pratico del vederle tutte in teatro: si proverebbe allora una volta in un modo, un’altra in diverso; e dallo schietto e giusto giudizio degli spettatori si verificherebbe qual fosse il migliore. Ma tra le tante miserie della nostra Italia, che ella sí bene annovera, abbiamo anche questa di non aver teatro. Fatale cosa è, che per farvelo nascere si abbisogni d’un principe. Questa stessa cagione porta nella base un impedimento necessario al vero progresso di quest’arte sublime. Io credo fermamente, che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtú, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti, e magnanimi. Tale era il teatro in Atene; e tale non può esser mai un teatro cresciuto all’ombra di un principe qualsivoglia. Se l’amore s’introduce su le scene, deve essere per far vedere fin dove quella passione terribile in chi la conosce per prova, possa estendere i suoi funesti effetti: e a cosí fatta rappresentazione impareranno gli uomini a sfuggirla, o a professarla, ma in tutta la sua estesa immensa capacitá; e da uomini fortemente appassionati, o grandemente disingannati, ne nascono sempre grandissime cose. Tutto questo mi pare escludere il vero teatro da buona parte dell’Europa, ma principalmente dall’Italia tutta; onde non ci va pensato, e non ci penso. Io scrivo con la sola lusinga, che forse, rinascendo degli Italiani, si reciteranno un giorno queste mie tragedie: non ci sarò allora; sicché egli è un mero piacere ideale per parte mia. Del resto, anche ammettendo che i principi potessero far nascere un teatro, se non ottimo, buono, e parlante esclusivamente d’amore, non vedo aurora di tal giorno in Italia. L’aver teatro nelle nazioni moderne, come nell’antiche, suppone da prima l’esser veramente nazione, e non dieci popoletti divisi, che messi insieme non si troverebbero simili in nessuna cosa: poi suppone educazione privata e pubblica, {{Pt|{{Alt|co-|costumi}}|}}
d’Appio medesimo; tutto fa ostacolo; e si principia una seconda
tragedia, se si tien dietro ad Appio più che non bisogni; o si al¬
lunga, con grave difetto d’arte, la prima.
Parmi d’avere addotto le varie ragioni, che non la passione
d’autore per le cose proprie, ma la riflessione imparziale di uomo
d’arte mi detta sulle difficoltà varie da lei incontrate nelle mie quattro
tragedie. La soluzione di molte di esse sarebbe forse più giusta,
e più facile, se fossimo all’atto pratico del vederle tutte in teatro:
si proverebbe allora una volta in un modo, un’altra in diverso; e
dallo schietto e giusto giudizio degli spettatori si verificherebbe
qual fosse il migliore. Ma tra le tante miserie della nostra Italia,
che ella si bene annovera, abbiamo anche questa di non aver
teatro. Fatale cosa è, che per farvelo nascere si abbisogni d’un
principe. Questa stessa cagione porta nella base un impedimento
necessario al vero progresso di quest’arte sublime. Io credo fer¬
mamente, che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser li¬
beri, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni
violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e
in tutte le passioni loro ardenti, retti, e magnanimi. Tale era il
teatro in Atene; e tale non può esser mai un teatro cresciuto al¬
l’ombra di un principe qualsivoglia. Se l’amore s’introduce su le
scene, deve essere per far vedere fin dove quella passione terribile
in chi la conosce per prova, possa estendere i suoi funesti effetti :
e a cosi fatta rappresentazione impareranno gli uomini a sfuggirla,
o a professarla, ma in tutta la sua estesa immensa capacità; e da
uomini fortemente appassionati, o grandemente disingannati, ne
nascono sempre grandissime cose. Tutto questo mi pare escludere
il vero teatro da buona parte dell’Europa, ma principalmente dal-
l’Italia tutta; onde non ci va pensato, e non ci penso. Io scrivo
con la sola lusinga, che forse, rinascendo degli Italiani, si recite¬
ranno un giorno queste mie tragedie: non ci sarò allora; sicché
egli è un mero piacere ideale per parte mia. Del resto, anche am¬
mettendo che i principi potessero far nascere un teatro, se non
ottimo, buono, e parlante esclusivamente d’amore, non vedo aurora
di tal giorno in Italia. L’aver teatro nelle nazioni moderne, come
nell’antiche, suppone da prima Tesser veramente nazione, e non
dieci popoletti divisi, che messi insieme non si troverebbero simili
in nessuna cosa: poi suppone educazione privata e pubblica, co-