Inferno monacale/Libro terzo: differenze tra le versioni

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Vi sarà tale che crederà a se stessa d'esser ne' riccami un'Aracne et appunto come tale la competerebbe con Minerva, se ben i suoi lavori riescan ridicoli per l'estreme imperfettioni che in esse si trovano. Abonda ne' chiostri chi fa proffession de apportatrice di tutte le nove del mondo, di saper gli interessi d'ogn'una, non mai però reccitandone una giustamente vera, né profferendone uno sinceramente reale. Han sempre in pronto un arteficio con che simulan pianto e riso a lor voglia in modo che di loro può dirsi come il {{AutoreCitato|Jacopo Sannazaro|Sanazzaro}} di non dissimili:
 
:::«Tal ride del mio ben che 'l riso simula,
:::tal piangie del mio mal che poi mi lacera,
:::dietro le spalle con accuta limola».
 
Son così inganatrici che paiono simulachri de gli huomeni e non solo adulano, ma tradiscan anche se stesse, fra' quali taluna sarà per bruttezza defforme e nuttrirà in sé prettension d'uguagliarsi a Venere in beltà, sprezzando altra che rarissime belezze possieda. Non poco è 'l numero di quelle che, sciocche, si stimeran potterla competter di saviezza con una Sibilla. Altre sfrontate e di lingua sfrenata, par che godono di trovar di continuo da contendere con chi si sia, onde chi non vol dir spropositi o gridori egl'è neccessaria una rigorossa et ristretta solitudine. Ogn'angolo ha una curiosa de' fatti altrui che va sempre inquietamente caminando con desio di veder novità e non è picciol vittio, mentre, come dice S. Tomaso, è nello stesso tempo mala inclinatione non meno del'inteletto che del senso, curiosità radice è di calunnia; Santo Agostino ci amoniva a fugir di riccercare e vedere per molti dispetti troppa varietà di cose. Queste, a guisa di quei mostri vili che hanno mille cori e mille faccie, per dar dimostrationi esterne diverse dal'interno dell'animo, usano di vestir e mangiar communemente con quelle a cui portan rancore sotto prettesto d'amicicia. E da queste poi, per ché ad un male è sempre l'altro congionto, nasce l'invidia, di che parlando Seneca dice: «Né dobbiam guardarci più da quella che regna nascosamente ne' nostri animi amici che dalla scoperta de' nemici, poi ché da coloro che dimostran l'odio scoperto non è difficil cautamente diffendersi, sì come riesce quasi impossibile il sottrarsi da quelli da' qualli, tenendo asscosa nel cor l'invidia, non s'attende l'inganno.». In un terreno in cui sostenta tal volta la verga del comando, la più spinosa delle piante, non è maraviglia che nascan triboli di scandoli et altro non germogli che sterpi accuti di mormore, alle quali {{AutoreCitato|Dante Alighieri|Dante}} nell'''{{TestoCitato|Divina Commedia/Inferno|Inferno}}'' suo attribuisce sì attrocci pene che fa esclamar i mormoratori:
 
:::«Un diavol è qua dentro che n'ancisma
:::sì crudelmente al taglio della spada
:::rimettendo chiaschun di questa risma».
 
Ma di tal mormora né anch'i secolari ne vanno con vanto et a ragione in qualche conventicola di tal spine, dell'iniquità di questi sacrilegi prodotte, trovansi lingue più del maladicente {{AutoreCitato|Pietro Aretino|Aretino}} pungenti, per sottrarsi dalle quali non basta un'imaculata consienza se meritan nome di venenose serpi mentre par appunto che bramin triplicata la lingua per più potter offensivamente dir male d'ogni attion altrui, sognansi favole per rapresentar le veracci historie, forman inventioni di testa e le naran per sogni. Ad altre adossan le proprie compossitioni, per il che direi che meritassero il castigo che fu dato al corvo per l'importuni suoi rapporti, quando non fosse maggior fallo malignamente inventar che giustamente rifferire, non è a questi proprio il prudente raccordo che ad ogni maledico vien dal tradutor d'Ovidio portato:
 
:::«Maledico loquace fatti esperto,
:::s'in mal non voi cangiar mantello e viso,
:::s'in giudicio non sei per forz'astretto,
:::non iscoprir già mai l'altrui diffetto».
 
L'ingratitudine ha, quivi più che altrove, il suo seggio per ché affatticati pure d'appagar l'instabil desio di questi corpi, in vitta all'Inferno condennati da chi vol farsi simia di Dio e studia, pur d'appagar ogni volontà impiegando ogni affetto e pottere in favorirle, che null'hai fatto né intieramente ad ogni lor chiribizzo satisfi. Plauto, de' ingrati parlando, dice esser nattura d'huomo da poco, ma sfrontato, il farsi da ogni uno servire senza però mai nulla, di ciò che in suo servigio venga opperato, gradire. Il filosofo dispregiator delle ricchezze esprime, dell'ira scrivendo, tal sensi: «Non sol riesce affannoso, ma di grave pericolo il contratar con homo ingrato poi ché questi è facil a rissolversi di non statisfar a ciò che deve et abborre colui a cui è debitore in guisa che, havendo alcun seco commun amico operato, rittrova altro non haver fatto che acquisto di mortal nemico.» Non altrove son frequentati gli eccessi di ingratitudine che ne' monasterij da quelle che forzattamente vi sono chiuse, fra le mura de' quali, pur che conseguischin l'intento loro, l'ingrate non han mira di ricever benefficio, ingannar e tradire in un punto.
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Voleva Seneca che l'homo, cui non piaceva riuscir ingrato, havesse un' stabil e perpettua memoria di beneficij ricceutti e non si dementicasse in etterno. Ma, se questo filosofo ciò richiedeva per corrispondenza a favori di mondo, come, o come si doverebbe da queste vilissime creature conservar sempre viva la ricordanza dell'infinite gratie, nell'esser state ellette ancelle, anzi spose ed amanti del Creator, loro conseguite? Ciò, però, avviene per ché, ingratissime, non comprendono l'eminenza del benefficio, anzi, prive di verecondia nel volto e colme di displicenza nel core, solo forzate dall'imposte leggi per l'infamia, con labra immonde profferiscono le terribile parole del sacro Sposalitio: «Ecce, venio.» Con ciò, tornar doverebber a Lui confuse e pentite, ma dalla Sua bontà con che Egli è sempre pronto a ricever le inammorate, come legiadramente accena profano poeta:
 
:::«Torna qual fiume a fonte, o fiama a sfera,
:::qual linea a centro, o calamitta a polo,
:::l'alma stancha al suo Dio poi ché là solo
:::può trovar possa, onde fuggì leggiera
 
:::alla pietosa man da cui già s'era,
:::stendendo angel licencioso il volo,
:::sviata dietro a quel piacer ch'è duolo.
:::S'errò il dì, lunge hor si rivolge a sera
 
:::e, poi ché in questo mar che è senza sponde,
:::loco non ha dove ella fermi il piedi
:::fra le moli del senso e torbid'onde
 
:::con verde avio di speranza e fede
:::al suo Signor dalle tempeste immonde
:::candidetta colomba al fin se n'riede».
 
Così pur doveriano le sviate religiose, doppo haver un tempo solcato il torbido mar delle vanità, prender leggiere il volo ver la contemplatione dell'Etterna Divinità. Ma per ché, a guisa di piante tenacemente abbarbicate al terreno, son di soverchio troppo in sue fierezze proffondate, van dalle proprie colpe alla tomba accompagnate; e tal hor, per interessate discordie tra di loro e confessori, mancandole gl'opportuni spirituali aiuti, s'immergian a poc'a poco nelle proprie passioni, ma all' lor stato improprie, e sottometton al sensual talento la raggione, si ché, nel mal habito invecchiate, s'haverà in lor ciò che fu cantato da un famoso cigno:
 
:::«Nattura inclina al mal e vien a farsi
:::l'habbito poi difficil a muttarsi».
 
Quando è radiccata la mala consuetudine del peccare, trovo così difficile il transito dal peccato alla virtù, dalla colpa alla gratia e dall'merito della pena a quel del premio, quanto riuscerebbe lo star con un piedi in terra et aggionger con la mano le subblime sfere del Celo. So però essersi vedute di queste stupende e maravigliose muttationi: Paolo, prima accerrimo persecutor della Chiesa, divenne poscia così ardente predicatore e così celebre dilattator della christiana fede; Madalena, di publica peccatrice diventò universal esempio di penitenza.
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Queste, che hanno veduto con gli anni mancarsi il nutrimento di lor male inclinationi, riducono tutta la sustanza della lor malvaggità in ambitione, con che ardiscono riputtarsi degnie di gran dignità. Non è perciò che con la scorta della Fraude et Hippocresia non giongan ad ottener gl'ambìti gradi primieri, non ostante haver tal'una di queste poco o nulla di merito. Queste tali però arrivan a tal honore non con altri meriti che con una bona apparenza sotto cui tengan celata una real e perfetta malitia. Il lor dessio ad altro non s'estende che andar di continuo opprimendo l'altre et avantaggiando se stesse. Di queste, parve che intendesse il salmista quando disse: «Usque quo diligitis vanitatem et quantis mendacium?». Entrato poi nel commando, si fan appunto sentir per un stepo di spine a punger le lor suditte nella più viva parte dell'honore, quando però non si fraponga l'interesse a trattenerle. Alcune di queste abbadesse formansi una polizia a lor modo, se non vogliam però dir che sia simile a quella di Tiberio imperatore di cui Tacito hebbe a dire: «Iam Tiberium corpus, iam vice nondum dissimulationis deserebat». Con dissimulationi iniqua compiaceno a chiascuna servendosi molto bene di quel proverbio, di Grecia trasportato: «Cretizzar con quei di Creta». Vedono che 'l viver della maggior parte è con inganno e conforme agli abusi di corte, onde stiman bene il bandir da loro la lealtà e seguir quel'arte che fu dal Machiavelli insegniata a' prencipi per il governo de' loro stati. Che si dirà di quelle supperiore o lor sustitute fra le quali ve ne sono non sol di subornate da' presenti, ma di quelle che fomentan qualcheduna delle sugette ne' loro humori e co' lo scudo dell'autorità almeno in aparenza le diffendono, sì ché le missere in tanta sattisfattione di mente s'assicuran non solo di peccar contro la regola, ma, soverchiate da quella che lor pare felicità, prorompono:
 
:::«Chi la felicità negar presente
:::può, chi può dubbitar della fottura?».
 
Ben è vero, poi ché in fine le infelici restan gabbate e ogni volta che cessin di correr a pro' e voglia delle non supperiori, ma tirane, l'usura illecita della libertà concessa loro - che non favorite ma tradite si deono chiamare - quest'è una hipocresia falsaria et una maniera fraudolente con la quale, senza cagion, si pongono quelle che meno il merita nell'indiscretta bocca del volgo e con malitia mettisi l'honor loro in compromesso. Cosa da stimarsi in guisa che Seneca hebbe a dire a Lucillo che ogni huomo non privo di raggione che habbia cor generoso e temma i rosori della vergognia, ama molto più di morir con honore che di viver con infamia e viltà.
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Per non riuscir soverchiamente prolissa nell'annumerar gli ingiusti sucessi e le machinate frodi, vorrei pur dar fine a così esosa diceria, ma la multiplicità degli errori, che in chiusi loghi occorrono dagli homeni ad ogni felicità, ma aperti ad ogn'insidia e tradimento, soministra alla penna abbondante matteria non sol per far dilluviar laccrime dagli hocchi di buon cattolico, ma per impietosir le stesse tigre. Troppo è ingiusto e puzzulente alle nari di Dio e trop'odioso alla piettà di quegli huomeni che in ver son homeni - se pur ve ne è - il sacrificio che a Lui si fa delle figliole o parenti, a forza incarcerati nell'abisso. So che dovrei por un duro morso alla lingua per non insinuar me stessa in vitio tanto da me abborito quant'è la maladicenza, tanto più che soviemmi haver letto in Dante:
 
:::«Sempr'a quello ch'ha faccia di menzogna
:::dee l'huom chiuder la bocca più che puote
:::però che senza colpa fa vergogna».
 
Non posso, non di meno, non dire per ché parmi debito di chi è zelante della vera religione l'avisar coloro che sono le prencipali cagion di così enormi e mostruosi successi, acciò s'astringhino; e sovr'humana gratia stimerei se mie vote parole penetrasser al cor de' fieri genitori e rimovesser da gli impetriti lor cori l'ingiuste risolutioni con che tradiscan l'anime proprie e dan le figlie in questo mondo a' tormenti infernali. Ma ohimé, che il Ciel li ha troppo lungamente sofferti, onde, già nell'ingiustitia habbituati, premon lor più le politiche raggioni che la divina legge e commandamenti e che l'osservanza dell'institutioni de' santi.
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Son elle in guisa macchiate di questa pece e sì la conservan in se stesse che non v'è gente più altiera di finte religiose, quali a pena degnansi di parenti. Le putte a spese, per mecchanice che siano, entratte in monastero la spendono alla grande. Le suore converse, se prima di vestir l'habito, eran sallariate serve in case private, entratte fra mura claustrali, guai a colei che le raccordasse l'essere state fanti, tutte quasi disendan da hillustrissima prosapia! Cose ridicole per ché l'animo, tanto differente dall'inventate ciancie, le fa conoscer serve di nascita e di pensieri, non servendo che chi meglio paga. Ben a raggion per la superbia fabricòsi l'Inferno, poi ché tal pernicioso mostro d'ogni altro mal è radice. Dice S. Gregorio: «Radix quippe cuncti mali est superbia». Conchiudasi che, s'attrocci tormenti pattiscan ne' penosi abissi i superbi, eguali ne provan le forzate monache, dovendo mascherar in se stesse la terribil ferza di questo vitio con manto de umile agnella. E' pur anche fatto l'Inferno, per ché resti in esso acremente punita l'avaritia di cui è proprio centro e, come ho già accenato, tien ella ne' monasterij il proprio seggio, provando quei cori in cui alberga magior cruccij de' dannati, poi ché convien lor far di quei danati che tant'amaro apparente rifiuto. Nel centro della terra provan pene inesplicabili gl'iracondi; patiscan le coleriche religiose tutti nell'anima i spasmi d'Averno, essendo astrette rittener lo sdegno nel core che, apunt'a guisa di sopito foco, acquista forza. Ascoltisi {{AutoreCitato|Dante Alighieri|Dante}} ciò che nel sesto cerchio del suo ''Inferno'' dice agli iracondi:
 
:::«Questi si percotean non pur con mano
:::ma con la testa, col petto e co' piedi
:::troncandosi con denti a bran a brano».
 
Se non s'impiegano le monache in queste sì crude operationi di sbranarsi fra loro, qualche volta pugnian con le parole e, dove manca la corporal forza per tema de' castighi, suplisce la rabbia, così che s'attribuiscano mille infamie di che participan anche i loro parenti, di modo che ambo le parti restan a vicenda saturate una degli obrobrij dell'altra.
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L'ultimo de' sette capitali peccati, sì come non resta escluso dal loco destinato dalla divina giustitia a' condennati a pene etterne, così anche di continuo assiste al tormentoso Inferno delle forzate monache, che fra gli accidiosi portan la palma, poi ché, sempre negligenti anzi aghiacciate nel serviggio del Creattore, trascorrono il tempo. Il Savio ne' proverbij invia quest'ottiose e lenti nel ben oprar alla formica per ché imparri da così picolo annimaletto, non sol le dovute operationi, ma ad anticipatamente proveder a' bisogni sì del corpo, sì dell'anima: «Vade, piger, ad formicam». E questa per il più dassi al dettestabil vitio dell'otio, qual, come ben disse il {{AutoreCitato|Francesco Petrarca|Petrarca}}, è causa d'ogni male:
 
:::«La golla, il sonno e l'ottiose piume
:::hanno dal mondo ogni virtù sbandita»
 
In summa, per questo vitio registrate ad una ad una le pene de' dannati, tutte son compendiate in questo real Inferno de' viventi. Parlando Isaia dice di quelli: «Vermes eorum non morsit». A queste infelici vive di continuo nella consienza il verme della sinderesi che lor aspramente l'anima morde. Legesi di quel giovine che, in virtù di Cristo, fu resusitato da S. Giovanni che, narrando l'attrocci pene della tenebrosa region, diceva:
 
:::«Vermes et tenebras flagellum, frigus et ignis,
:::demonis aspectus, scelerum confusio, luctus».
 
Niun di tali martìri manca all'imprigionate di vostra tiranide, o padri, o parenti! Se la perpetuità di crucij e la privation della divina vissione sono i due maggior tormenti de' condennati all'Averno, eccoli ambo in eccelenza nel monastico Inferno, ove s'entra senza spene di mai più in etterno riuscirne; e disperatamente entrandovi, non solo non si conosce e vede la Divina Maestà, ma si riman anche prive di veder l'opere dal Perfetissimo Architettore fatte, cioè la vaghezza di sì maraviglioso teatro com'è il mondo che pur, tanto per le monache quanto per altri, dalla Suprema Man fu fabricato.
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Ma che ascolto che tu, o malvaggio hipocrita, vai susurrando e mormorando? Sappi che non trapasso i limitti e in niente offendo, con miei detti, Dio; anzi è mia intention distinguer la zizania, «Inimicus homo» . A te dico, o homo a Dio nemico, a te che col parlar ben, ma viver male, non vai tra' veri figli di Santa Chiesa, ma ben indegno sei del nome di christiano et un vero ritratto sei del vantator fariseo:
 
:::«La vitta persuade di chi parla
:::non il parlar di bel color dipinto».
 
So che qual tu crederai che altri sia tale, onde, ingannato dalla tua lascivia, con lingua mordace bugiardamente dirai che quella, che su questi fogli ti fa santamente veder la verità, desia di goder quella prima libertà praticata nell'età del'oro in quel modo che da molti poeti vien descritta e massime con mirabil arte da {{AutoreCitato|Luigi Tansillo|Luigi Tansilo}} o pur dal Tasso che in questi pochi versi la restringe:
 
:::«Nel'età d'or quando la ghianda e 'pomo
:::era del ventre human lodevol pasto,
:::né femina sapeva, né sapev'huomo
:::che cosa fosse honor, che viver casto.
:::Trovò debil vecchion, da gl'anni domo,
:::queste leggi d'honor, che 'l mondo ha guasto».
 
Et altrove:
 
:::«Solo chi segue ciò che piace è saggio
:::et in sua staggion degl'anni il frutto coglie».
 
Ma in ciò mille volte mentì, ché non mai sì laidi pensieri allignaro in cor di donna! Diceva pur il sopra cenato:
 
:::«Femina è cosa garula e loquace».
 
{{AutoreCitato|Publio Ovidio Nasone|Ovidio}}, condenando a perpettua sete e fame Tantalo, per esser stato troppo loquace, fa ampia fede esser la loquacità più propria del maschile che del feminil sesso:
 
:::«Querit aquas in aquis et poma fugaccia captat
:::Tantalus hoc illi garrula lingua dedit».
 
Che si trovi che gli huomeni parlino o scrivino contro le donne, nulla in lor biasimo risulta, essendo la di lor malvaggità notissima. Ma che un di loro contro l'altro o in voce o in scritti s'offenda, è prova indeficiente di verità...! Borbotti, pur dunque, per tanto e vibri in me maledica lingua le sue saette, che dal Real Profetta fur dette «Sagitte putentis acute», che io, in vece d'opprimerle, glorieròmmi di sue vanne et ingiuste ferite, che, per castigo di Dio, nel voler ferir me innocentemente, si rittorneranno contro chi le vibrò e verificherassi in lor quel santo detto: «Linguas suas defixerunt ad versus se ipso tamquam gladios». Il Supremo Motore che, sempre giustissimo et indifferente, penetra a veder i recessi più interni dell'anima e conosce la sincerità de' miei sensi e fini, sia quello che mi diffenda da quelle cuppe voragini delle perverse bocche che tentoron di assorbere in sè l'honor mio; et a Lui col Suo amato Re riccorro, prorompendo in lacrime, per ottener il riscatto da quella missera servitù in che n'han posto costoro che poi voglion anche acuir contro di me le maligne lor lingue: così dunque suplicovi, o mio Signore, «Redime me a calumnis omnium».