La castalda/La gastalda. Appendice/Atto I: differenze tra le versioni

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Atto I

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La gastalda. Appendice - Personaggi La gastalda. Appendice - Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera.

Corallina ed Arlecchino seduto ad una tarvoletta, che mangia.


Corallina. Animo, animo, magnè e bevè, che ben pro ve fazza.

Arlecchino. Oh che onorata gastalda! Oh quanto che ve son obbligà! Cussì sti bocconzini la mattina per el fresco i me tocca el cuor.

Corallina. Magnè, che ve lo dago volentiera; la xe roba mia, la posso dar a chi voggio mi.

Arlecchino. Alla vostra salute. (ieve)

Corallina. Bon pro ve fazza.

Arlecchino. Oh caro! Oh che vin! Oh che balsamo! Alla vostra salute. (beve)

Corallina. Oe, el xe del meggio che sia in caneva. Ai mi amici voggio darghelo bon.

Arlecchino. Ah! vu sì fortunada che servì un patron ricco, ma mi servo un maledetto spiantà, povero e superbo.

Corallina. Diseme, caro vu, come ve trattelo sior Ottavio?

Arlecchino. El me dà tre piatanze ed zorno.

Corallina. Tre piatanze? No gh’è mal. Cossa xele mo ste tre piatanze?

Arlecchino. Polenta, acqua e bastonade.

Corallina. Oh che caro matto che sè! Oh cossa che me piasè!

Arlecchino. Alla vostra salute. (beve)

Corallina. Bon prò ve fazza; qua almanco, in casa del sior Pantalon, se magna da tutte le ore.

Arlecchino. Questa l’è la rabbia del me patron, che i altri magna e lu no.

Corallina. E pur el va qualche volta a magnar anca elo de qua e de là.

Arlecchino. Ah, se savessi perchè el ghe va! [p. 182 modifica]

Corallina. Via mo, per cossa?

Arlecchino. No ve lo poderessi mai imaginar.

Corallina. Caro vu, diseme.

Arlecchino. El ghe va per la fame.

Corallina. Questa la saveva anca mi.

Arlecchino. E mi, non savi perchè vegna qua?

Corallina. E vu, per cossa?

Arlecchino. Per l’appetito. Alla vostra salute. (beve)

Corallina. Bravo. Ve piaselo?

Arlecchino. Oh caro!

Corallina. Co volè, sè paron.

Arlecchino. Cara siora Corallina, se tanto de bon cor, sè tanto generosa, ve doveressi manriar.

Corallina. Oh, no me parlè de maridarme. Vôi goder la mia libertà. Xe morto missier pare, e madonna mare; sior Pantalon se contenta de mi, mi me contento de lu. Stago ben, no me manca gnente. Per adesso no me vôi maridar.

Arlecchino. No ve volì mandar?

Corallina. Mi no, vedè.

Arlecchino. No certo?

Corallina. No seguro.

Arlecchino. Alla vostra salute. (beve)

Corallina. E viva, compare chiomba1.

SCENA II.

Ottavio in spolverina e cappello grande di paglia, mule e bastone lungo da campagna; e detti.

Ottavio. Cosa fai qui? (alterato, ad Arlecchino)

Arlecchino. La compatissa... alla so salute. (beve)

Corallina. Bondì sustrissima.

Ottavio. Buon giorno. (a Corallina) Animo, levati di qui. (ad Arlecchino [p. 183 modifica]

Arlecchino. Se la comanda anca ela...

Corallina. La lassa, lustrissimo, ch’el fenissa de marendar.

Ottavio. Via di lì, dico, ghiottone, villanaccio, indiscreto! Hai tu bisogno di andar a mangiare fuori di casa?

Arlecchino. Coll’occasion che in casa no se magna...

Ottavio. Briccone, non mangi tu di quello che mangio anch’io?

Arlecchino. Siorsì, l’è vera.

Ottavio. Dunque di che ti lamenti?

Arlecchino. Me lamento che magnemo poco tutti do!

Ottavio. Pezzo d’asino. Un mio servitore tutto il giorno a mangiare qua e là per le case?

Corallina. In campagna xe lecito. Ghe va i patroni, ghe pol andar anca i servitori.

Ottavio. I miei servitori non hanno bisogno del vostro pane.

Corallina. Oh che fumo!

Ottavio. Che dite?

Corallina. I fa lissia2, sala, vien un fumo che no se pol star.

Ottavio. Presto, va al mio palazzo a spazzar le camere.

Arlecchino. Oh che fumo!

Ottavio. Come?

Arlecchino. No sentel? I fa lissia.

Ottavio. Animo, non fare che ti dia delle bastonate.

Arlecchino. Sentìu? bastonade, una delle tre piatanze. (a Corallina)

Corallina. Poveretto! El me fa peccà.

Ottavio. Vattene, che tu sia maledetto.

Arlecchino. Sior patron, una parola in secreto, e vago via subito.

Ottavio. Cosa vuoi?

Arlecchino. Sta mattina ho magna ben. La polenta solita de casa ve la lasso tutta per vu. (via)

Ottavio. Impertinente, costoro non pensano che a mangiare, che a divertirsi, e non si curano di servir il padrone.

Corallina. Arlecchin, lustrissimo, el me par un bon fiolazzo. Xe vero chì el xe un poco semplice, ma qualcossa da tutti bisogna [p. 184 modifica] sopportar, e xe meggio i servitori un poco semplici, più tosto che troppo furbi. Perchè, dirò co dise quello: el semplice falla per ignoranza, e el furbo per malizia.

Ottavio. Guardate se colui è attento al servizio del suo padrone. S’alza, e se ne va, e mi pianta senza darmi nemmeno la cioccolata.

Corallina. La cioccolata? De che color, lustrissimo?

Ottavio. Come? non bevo io la cioccolata tutte le mattine? Chi credete che io sia, qualche villano?

Corallina. Malignazza sta lissia, sto fumo me fa pianzer i occhi.

Ottavio. Ecco qui, colui mi fa star senza cioccolata.

Corallina. El ghe la farà; xe ancora a bonora.

Ottavio. Questa è l’ora ch’io la prendo; la sera non ceno; se tardo a prenderla, mi si illanguidisce lo stomaco.

Corallina. Se la comanda che la serva mi, la servo subito.

Ottavio. Briccone! Non averà nemmeno acceso il fuoco. Non sarà a tempo la cioccolata, nemmeno da qui a un’ora.

Corallina. Mo via, cossa serve? Se la la vol, la cogoma xe al fogo, presto ghe la sbatto.

Ottavio. Via, giacchè è pronta, la beverò qui.

Corallina. (Za me l’imaginava). (da sè) La compatissa, se no la sarà da par so.

Ottavio. La beverò come sarà.

Corallina. La senta, la xe scura, sala, de color.

Ottavio. Cosa vorreste dire?

Corallina. Che sòi mi, che no la credesse che la fosse doretta.

Ottavio. Credete ch’io non sappia cosa sia cioccolata?

Corallina. Oh, so che la lo sa. So che la xe dilettante, e che sia la verità, la la va cercando per tutte le case che la cognosse.

Ottavio. E quando dico io che è buona, possono star sicuri che è tale.

Corallina. La sentirà la nostra. Vago subito. Intanto, se la se vuol servir de do fettine de salà coll’aggio, la se comoda.

Ottavio. Oibò... a quest’ora no... [p. 185 modifica]

Corallina. E sì me par che donn’Anna spazziza per el portego3.

Ottavio. Chi è questa donn’Anna?

Corallina. Donn’Anna? La xe una sguattera de cusina. (Oh che martuffo!) (da sè, via)

Ottavio. Questo salame ha un odor che rapisce. Sarà perfettissimo, e la gastalda lo dà a mangiare alla servitù. Poveri padroni! Questi castaldi ci assassinano. Per me per altro è finita: in cinque o sei anni ho spacciato tutto il mio patrimonio, ed ora mi è mancato il potere, e mi è restata la volontà. Anch’io una volta davo da mangiar a tutti, e ora non ne ho nemmeno per me. E pure è vero: quel salame e quel pane mi tirano fieramente la gola; se non avessi vergogna... Ma vergogna di chi? Non vi è nessuno. Presto, presto, due fette di salame e un bicchierino di vino. Oh fame, fame! Sei pur dolorosa! (mangia) Oh buono! Non ho mangiato il meglio. Mah! la fame condisce tutte le vivande. Sentiamo questo vino, (versa e beve) Oh prezioso! Oh caro! (bevendo)

SCENA III.

Corallina e detto.

Corallina. Lustrissimo, bon pro ghe fazza.

Ottavio. (Tosse) Maledetta tosse! Quando mi prende la tosse, se non bevo, m’affogo.

Corallina. Ghe piaselo quel vin?

Ottavio. Oibò! E scellerato.

Corallina. E sì el xe del meggio che gh’abbiemo in caneva.

Ottavio. Non ha che fare con quello della mia cantina.

Corallina. La compatissa, i m’ha dito che el so gh’ha un difetto.

Ottavio. Qual difetto?

Corallina. Eh! el xe un poco sutto.

Ottavio. Date qui la cioccolata. [p. 186 modifica]

Corallina. La toga, la la beva subito, avanti che ghe daga zoso4 la schiuma.

Ottavio. Oibò...

Corallina. Cos’è che la storze el naso? No la xe bona?

Ottavio. Eh così, così.

Corallina. Tutti dise che la xe preziosa.

Ottavio. Non ha che fare colla mia.

Corallina. Certo la soa la gh’averà più bel color.

Ottavio. Certamente.

Corallina. La sarà amaretta.

Ottavio. Sì, questa è troppo dolce.

Corallina. La la farà più fissa.

Ottavio. Questa veramente è liquida.

Corallina. E pò, colla mescola la se missia meggio.

Ottavio. Cos’è la mescola?

Corallina. L’è quel frullo che se doperà co se fa la cioccolata in caldiera.

Ottavio. Mi piacete.

Corallina. Eh via!

Ottavio. Da cavaliere.

Corallina. Truì, va là5.

Ottavio. Come?

Corallina. Gnente, no la sente el porco, lustrissimo, che vol vegnir fora del so casotto?

Ottavio. Avete un discorso che non lo capisco bene.

Corallina. Mi no me par de parlar tedesco.

Ottavio. Siete di questa villa?

Corallina. Son nata qua, ma son stada arleva6 a Venezia, in casa dei mi paroni.

Ottavio. Allevata in Venezia? Quest’è che la sapete lunga.

Corallina. Oh, e sì son innocente come l’acqua.

Ottavio. Come l’acqua dei maccaroni.

Corallina. Oh giusto, quell’acqua che vussustrissima se lava el viso. [p. 187 modifica]

Ottavio. Siete un’impertinente.

Corallina. Dasseno? No me cognosso miga, sala. Ho gusto che la me l’abbia dito, che da qua avanti me saverò regolar.

Ottavio. Colle persone della mia condizione si parla con rispetto.

Corallina. Caspita! Eccome!

Ottavio. Finalmente son chi sono.

Corallina. Finalmente el xe.

Ottavio. Cosa sono?

Corallina. Quel ch’el xe.

Ottavio. Che vuol dire?

Corallina. Eh, m’intendo mi co digo torta.

Ottavio. Non vorrei che vi prendeste spasso di me.

Corallina. Oh, la me compatissa. So el mio dover. Lustrissimo, me raccomando alla so protezion.

Ottavio. Dove posso, comandatemi.

Corallina. Grazie alla bontà de vussustrissima, la lassa che ghe basa la man.

Ottavio. Eh, no no...

Corallina. Cara ella... (gli bacia la mano)

Ottavio. Via brava, portatevi bene, e se non trovate il vostro conto a stare con Pantalone, verrete a stare con me.

Corallina. Oh magari, quando vorla che vegna?

Ottavio. Non voglio far mal’opera con questo buon uomo; ma occorrendo... Basta, sapete dov’è il palazzo. Addio. (via)

Corallina. El so dove el xe quel nio de zeleghe7. El xe un palazzo che casca a tocchi. Bandiera vecchia a onor de capitanio. Oh, che caro sior Ottavio. In casa soa se sguazza co piove. I coppi xe rotti, i muri xe sfesi. I balconi no i gh’ha nè scuri, nè veri. Sì ben, anderò a star con elo, e tutti do anderemo a star con qualchedun altro. E con tutto che el xe al giazzo, el gh’ha un boccon de spuzza, che la se sente tre mia lontan. Poverazzo, el me fa peccà. Ma voggio andar a veder se el patron xe levà. Sto vecchietto me lo vôi coltivar. Me par ch’el me varda de bon occhio. Chi sa che col tempo [p. 188 modifica] la gastalda no deventa patrona. No sarave miga la prima. Gh’ho un certo no so che, che bisega8. Son dretta la mia parte. Della lengua e dei occhi fazzo quello che voggio. E con una occhiadina, e con una paroletta, m’impegno de far cascar un omo, s’el fusse de piera viva. (via)

SCENA IV.

Altra camera.

Rosaura e Pantalone s’incontrano.

Pantalone. Oh, bondì sioria. Siora, ben levada.

Rosaura. Serva, signor padre.

Pantalone. Ve conferisse l’aria della campagna?

Rosaura. Meglio assai che quella della città. Qui almeno si respira un poco, non si sta in una sepoltura, come mi tocca a stare in Venezia.

Pantalone. Poverazza! A Venezia stè in una sepoltura. Cossa vorressi? Andar a zirandolando co fa le matte? A Venezia le putte civil, le putte savie e che gh’ha giudizio, le sta a casa soa.

Rosaura. È verissimo, e per questo le putte desiderano andar in campagna.

Pantalone. Sì ben: disè la verità, le desidera andar in campagna, e le gh’ha rason, perchè in città i pari e le mare le tien sconte, serrae e ben custodie, e in campagna le gh’ha tutta la libertà, e le va dai gastaldi, le va alla boaria, le va per i campi a magnar dell’uva; e co sta occasion, se vede, se chiaccola, se zoga alle scondariole coi morosetti. In campagna se fa le amicizie, e po a Venezia le se coltiva. Fia mia, v’ho menà fuora per farve muar aria, ma no per farve muar costume. L’istessa zelosia che gh’ho del vostro decoro a Venezia, la devo aver anca in villa, perchè tanto l’aria della campagna, come quella della città, a chi no sa valersene con prudenza, la puol produr le medesime malattie. [p. 189 modifica]

Rosaura. Dunque staremo qui soli soli, come tante marmotte.

Pantalone. Sior sì, staremo soli in casa, e vegnirè co mi, co anderemo fora de casa.

Rosaura. Era meglio che stessimo a Venezia. Almeno si vedeva passar qualcuno alle finestre; qui non si vede un cane.

Pantalone. Certo, almanco a Venezia se vedeva passar i morosetti tre o quattro volte al zorno, n’è vero, fia? Almanco se aveva sto poco de divertimento. Ma co tornemo a Venezia, i inchiodarò quei balconi.

Rosaura. Dunque non volete ch’io prenda marito?

Pantalone. Siora sì, co sarà el vostro tempo, ve mariderè. Ma no vôi che se fazza l’amor.

Rosaura. Se gli uomini non mi vedono, non sapranno ch’io ci sono.

Pantalone. Eh, non ve dubitè, siora, che siben che no i ve vede, i sa che ghe sè. Gh’aveè una dota che ve fa cognosser, e a st’ora più de quattro sanseri m’ha parlà de vu.

Rosaura. Più tosto che maritarmi per via di sensale, voglio restar fanciulla tutto il tempo di vita mia.

Pantalone. Oh, basta; adesso no xe tempo de parlar de ste cosse. Devertive; andè in orto, andè in brolo, ma arrecordeve che senza de mi no se passa i restelli.

Rosaura. E qui non ha da venir nessuno?

Pantalone. Mi no ho invidà nissun, e spero che nissun vegnirà a tettarme de mazo9.

Rosaura. Pazienza. Quanto ci staremo?

Pantalone. Diese, dodese zorni, quanto che volè vu.

Rosaura. Per me vi pregherei che andassimo via domani.

SCENA V.

Brighella e detti.

Brighella. (Didentro) Oh de casa? Se pol entrar.

Pantalone. Chi è? Vegnì avanti.

Brighella. Servitor umilissimo de vussustrissima. [p. 190 modifica]

Pantalone. Bondì sioria, cossa comandeu?

Brighella. Lustrissima padrona, ghe fazzo umilissima reverenza. (a Rosaura)

Rosaura. Vi riverisco.

Brighella. Lustrissimo patron, sielo benedetto; quando la vedo, me consolo.

Pantalone. Grazie, vecchio, disè su, cossa voleu?

Brighella. L’illustrissima siora Beatrice manda a far reverenza all’illustrissimo sior Pantalon de’ Bisognosi e all’illustrissima siora Rosaura, sua degnissima fiola; manda a veder come stanno di salute, se hanno dormito bene la scorsa notte, e fa sapere alle signorie loro illustrissime, che l’è colla peota alla riva, per vegnir, se le ghe permette, a reverir vussustrissime.

Pantalone. Caro amigo, me fé star zoso el fià. Donca siora Beatrice xe qua alla riva?

Brighella. Ai comandi de vussustrissima.

Pantalone. Oh diavolo... Con chi xela?

Brighella. L’è in compagnia, lustrissimo padron...

Pantalone. Se gh’è zente con ela, diseghe che la me compatissa... Adesso, adesso anderò mi alla peota.

Brighella. La se fermi, lustrissimo, l’è sola.

Pantalone. Se m’ave dito che la xe in compagnia?

Brighella. In compagnia d’un so umilissimo servitor.

Pantalone. No ghe xe altri che ela e vu?

Brighella. Illustrissimo padron no.

Pantalone. No certo?

Brighella. No seguro, la stia certa, la me creda, la se n’assicura, ghe lo protesto da quel servitor ossequiosissimo che ghe son.

Pantalone. Co l’è cussì, diseghe che la xe patrona.

Brighella. Vado subito. Evviva V. S. illustrissima, sempre galante, sempre gentile, semper idem. Con permission de vussustrissima, illustrissima padrona, servitor obbligatissimo. (No digo gnente che ghe sia el me padron). (da sè, via)

Pantalone. Costò el me struppia de cerimonie. [p. 191 modifica]

Rosaura. Ho piacere che sia venuta la signora Beatrice; ci terrà un poco di compagnia.

Pantalone. Ma la vien molto presto a favorirne. Xe poco che semo qua, e subito la ne corre drio? No vorria che ghe fusse qualche intelligenza. Ah? cossa disela, patrona?

Rosaura. Voi sempre sospettate di me: gran disgrazia è la mia; voi non mi credete.

Pantalone. Son vecchio, fia mia, e ho imparà per esperienza, che a pensar mal, spesse volte la se indovina.

SCENA VI.

Beatrice e detti.

Beatrice. Ah! cosa dite? Vi ho fatto una bella burla?

Rosaura. Bravissima, bravissima.

Pantalone. Me despiase che la se sarà burlada ela.

Beatrice. Perchè?

Pantalone. Perchè la starà mal, la farà penitenza.

Beatrice. Eh sì, sì, mi contento. Avete bevuto la cioccolata?

Pantalone. L’ho bevua, ma se la comanda...

Beatrice. Sì, sì, fatemela portare con tre o quattro biscottini. L’acqua mi ha fatto venir fame.

Pantalone. Oe, gastalda.

SCENA VII.

Corallina e detti.

Corallina. Son qua, cossa comandela?

Pantalone. Porte la cioccolata a sta zentildonna.

Beatrice. Ehi, portami dei savoiardi.

Corallina. (Maledetta, cos’è sto portami?) (da sè)

Beatrice. Hai capito?

Corallina. Siora? parlela con mi?

Beatrice. Con te, con te.

Corallina. Te, te, te, te. Ala perso el so cagnoletto? [p. 192 modifica]

Beatrice. Oh, compatitemi se vi ho dato del tu, son avvezza colla mia gastalda.

Corallina. E alla so gastalda, la ghe dise tu?

Beatrice. La tratto con confidenza.

Corallina. Caspita! No xe miga poco! esser trattai con confidenza da una signora de la so sorte. Aseo! Eh ehm! (si schiarisce)

Beatrice. Che avete la tosse?

Corallina. Catarri... freddure... La servo subito della cioccolata. (via)

Beatrice. Mi pare una bella pettegola questa vostra gastalda.

Pantalone. La xe una mattazza alliegra, ma onorata e de bon cuor.

Rosaura. Ebbene, signora Beatrice: goderemo per qualche tempo delle vostre grazie?

Beatrice. Vi dirò: mio marito è andato in villa ieri; e come sapete, non è che sei miglia di qua lontano. Sa ch’io sono da voi, e aspetto mi mandi a prendere.

Rosaura. Oh, non anderete via così presto.

Pantalone. Me despiase che la starà mal. Qua semo soli, no gh’avemo conversazion.

Beatrice. Verrà bene qualcheduno.

Pantalone. Oh, la vede ben... ghe xe sta putta.

Beatrice. Oh bella! in campagna vi è libertà. Le putte, le maritate, le vedove, tutte praticano liberamente senza riguardo e senza malizia.

Pantalone. Senza riguardo pol esser, ma senza malizia, gh’ho i mi riverenti dubbi.

Beatrice. Bisogna far quello che fanno gli altri.

Pantalone. La me compatissa, védela, parlemo de cosse allegre.

SCENA VIII.

Brighella e detti.

Brighella. Con permission de vussustrissime.

Beatrice. Cosa c’è?

Brighella. L’illustrissimo consorte degnissimo de vussustrissima l’ha manda a levarla. [p. 193 modifica]

Beatrice. Sarà quel pazzo del signor Lelio. (a Rosaura)

Rosaura. Brava, brava, rideremo un poco. (a Beatrice)

Brighella. Permette, signor Pantalone, che passi questo signore?

Pantalone. Ch’el resta servido.

Brighella. Vado subito... Le perdoni l’ardir, illustrissimi padroni, comandeli che li serva de careghe?

Pantalone. Eh, non v’incomodè.

Brighella. L’è el mio debito... me maraveggio... Onor a servirla... ambizion d’obbedirla... Viva la casa illustrissima Bisognosi... Con so permission, avviso el gentilomo, e po vago a ritirarme con sopportazion in cusina. (via)

Pantalone. El xe molto cerimonioso sto so servitor, con mi nol ghe starìa. Manco cerimonie, e più verità.

SCENA IX.

Lelio e detti.

Lelio. Padroni umilissimi, servitor suo riverito.

Pantalone. Patron carissimo, èla qua?

Lelio. Son venuto a favorire la signora Beatrice, e con questa occasione a inchinarmi all’uno e all’altro, e a tutta la casa.

Pantalone. L’è vegnù donca per levar siora Beatrice?

Lelio. Così dicono.

Pantalone. E come xela vegnuda?

Lelio. In birba, signore.

Pantalone. Anzi ela, padron.

Lelio. Ella mi obbliga sempre più a protestarle la padronanza.

Pantalone. Oh grazioso!

Lelio. Chi è quella signora? (a Beatrice, accennando Rosaura)

Beatrice. È una dama forestiera. (Voglio prendermi spasso). (da sè)

Lelio. Nobilissima madamigella, a lei m’inchino.

Rosaura. Serva divota.

Lelio. Sta bene di salute? Me ne rallegro, anch’io per servirla. Cosa dicono di questo caldo?

Beatrice. Veramente la stagione... [p. 194 modifica]

Lelio. S’accomodino, non stiano in soggezione per me.

Pantalone. Eh no, la veda.

Lelio. Le prego...

Pantalone. Ghe digo cussì...

Lelio. Oh via, sederò io per obbedirle. (siede)

Pantalone. (Oh che caro matto!) (da sè)

Beatrice. Signor Lelio, abbiamo nulla di nuovo?

Lelio. La mia morosa è in collera, non mi vuol più bene, (s’alza)

Beatrice. Perchè?

Lelio. Perchè le ho detto carogna.

Pantalone. Bravo, la ghe doveva dar una sleppa10.

Lelio. Ehi, me l’ha data. (a Pantalone)

Rosaura. V. S. fa di questi bei complimenti alle sue amorose?

Lelio. Oh bella, quando non vogliono far a modo mio.

Rosaura. Cosa voleva che le facesse?

Lelio. Volevo che mi desse un amplesso.

Pantalone. (Sto matto va troppo avanti). (da sè) Siora Beatrice, con so bona grazia, adesso torno. Rosaura, andemo. (a Rosaura)

Lelio. Patron mio riverente.

Pantalone. Servitor strepitosissimo.

Lelio. Gli rassegno l’obbligazione all’obbedienza sua.

Pantalone. E mi l’osservanza dei mi comandi. Andemo. (a Rosaura. Via)

Lelio. È compitissimo il signor Pantalone.

Rosaura. (Signora Beatrice, vi aspetto in camera mia). (piano a Beatrice)

Beatrice. (Sì sì, or ora verrò).

Rosaura. Serva sua. (a Lelio)

Lelio. Anzi padrona di lei.

Rosaura. (Quanto maggior piacere avrei, che in luogo di questo pazzo fosse venuto il mio caro Florindo). (da sè, via)

Lelio. Questa è una casa piena di circostanze.

Beatrice. Che vuol dire?

Lelio. Sì, piena di grazie. [p. 195 modifica]

Beatrice. V. S. parla sempre in zifera.

Lelio. Sì signora, parlo sempre collo staccio alla mano.

Beatrice. Che vuol dire collo staccio?

Lelio. Oh bella! Per separar la farina dalla crusca.

Beatrice. Bravissimo!

Lelio. Tutto ai comandi della grazia sua. Ma io sono venuto per vedere la figlia di suo padre, che mi hanno detto sia tanto bella, e ancora gli occhi miei non l’hanno trasfigurata.

Beatrice. La figlia di suo padre, cioè del signor Pantalone?

Lelio. Sì signora, parlai per sincope.

Beatrice. Ecco la figlia del signor Pantalone, che a noi sen viene. (Se prende la gastalda per la figlia, ha da essere il nostro divertimento). (da aè)

Lelio. Signora mia, già mi sento muovere.

Beatrice. Così presto?

Lelio. Questo è un effetto di precauzione.

Beatrice. O di prevenzione.

Lelio. L’uno e l’altro, sono termini di proporzione.

SCENA X.

Corallina e detti.

Corallina. La diga, se la comanda la cioccolata...

Beatrice. Or ora la beverò.

Lelio. Signora, permetta che io consacri la longitudine del mio rispetto alla profondità del di lei merito.

Corallina. Cara ela, se la me parlerà in volgar, ghe risponderò.

Beatrice. (Oh bellissima). (da sè)

Lelio. Permetta ch’io le baci il lembo.

Corallina. Cossa disela de nembo?

Beatrice. (Sentite: egli vi crede la figlia del signor Pantalone; secondatelo, se volete divertirvi). (a Corallina)

Corallina. (Se el xe matto, godemolo).

Lelio. Son venuto apposta per dimostrarle gli effetti dell’amoroso temperamento. [p. 196 modifica]

Corallina. In verità, la me struppia.

Lelio. La fama ha di voi molto confabulato, ma io vedo che i vostri occhi sono più belli di quelli della fama medesima, la quale siccome colla sonora tromba ha cacciato il vostro nome nel timpano degli eroi, voi colla vostra voce stordite l’organo di chi vi mira.

Corallina. (La diga, xelo sta all’ospeal o gh’alo ancora da andar?) (piano a Beatrice)

Beatrice. (È pazzo; ma è ricco, ricchissimo).

Lelio. (Le mie parole l’hanno stordita). (da sè)

Corallina. (Co l’è ricco, se pol sperar qualcossa. Lustrissima, la cioccolata se sfreddisse; vorla che ghe la fazza).

Beatrice. (No no, l’anderò a bere colla signora Rosaura).

Lelio. (Adesso parleranno del mio demerito). (da sè)

Beatrice. Signor Lelio, a buon riverirla. La lascio qui colla figlia del signor Pantalone.

Lelio. Voi mi lasciate coll’antagonista de’ miei pensieri.

Beatrice. (Costui è un bellissimo carattere per un divertimento in villeggiatura). (via)

Lelio. Favorisca, signora mia, è ella ancora figlia di suo padre?

Corallina. Sior sì, quel che giera mio padre, xe ancora mio padre.

Lelio. Dunque non è maritata?

Corallina. Sior no; son putta.

Lelio. Putta? Oh corpo d’un rinoceronte! Ella è putta?

Corallina. Sior sì, putta, puttissima per serviria.

Lelio. Me ne rallegro infinitamente; me ne rallegro, come se avessi ritrovato un tesoro.

Corallina. Perchè fala ste maraveggie?

Lelio. (Che volto! Che grazia! Che brio!) (da sè, la guarda attentamente in qualche distanza)

Corallina. (Cossa diavolo dise sto matto da so posta?) (da sè)

Lelio. (Ha due occhi che son due disastri). (da sè)

Corallina. (I dise che i matti butta via, ma ho paura che a questo no ghe casca gnente).

Lelio. (Ha due labbri che paiono due corniole). [p. 197 modifica]

Corallina. (No vorria ch’el fusse un de quei matti che mena le man).

Lelio. Ah signora mia, l’ho fatta.

Corallina. Quando?

Lelio. In questo punto.

Corallina. Coss’alo fatto?

Lelio. L’ho fatta grossa.

Corallina. Ma coss’alo fatto?

Lelio. Mi sono innamorato.

Corallina. Innamorà? De chi, cara ela?

Lelio. Di quel bel ciglio cupidinoso.

Corallina. L’è innamora de mi?

Lelio. Sì, di voi, mia bella venere fluttuante.

Corallina. Eh via, la me burla.

Lelio. Ve lo giuro, per tutti i numi della numidia.

Corallina. Ma cossa vorla che fazza mi del so amor?

Lelio. Prendetevi l’amor mio, e fatene quel che volete.

Corallina. Dove xelo sto so amor?

Lelio. Nella verecondia.

Corallina. No l’intendo una sgazzarada11.

Lelio. Eccovi un sguardo.

Corallina. Oh, ghe lo dono.

Lelio. Un vezzo.

Corallina. Che el se lo petta12.

Lelio. Un abbraccio.

Corallina. Nol me comoda.

Lelio. Il mio cuore.

Corallina. No ghe ne magno.

Lelio. La mia mano.

Corallina. Xe ancora a bonora.

Lelio. Prendetevi quest’anello.

Corallina. Eh, più tosto.

Lelio. Nella rotondità di quel cerchio raffigurate la circonferenza dell’amor mio. [p. 198 modifica]

Corallina. Cossa xela mo la circonferenza?

Lelio. L’espansione della fibra del cuore.

Corallina. E la fibra cossa xela?

Lelio. La pulsazione del petto.

Corallina. La pulsazion? mi no la intendo.

Lelio. La pulsazione riverberata dal martello de’ vostri lumi.

Corallina. Pezzo che mai.

Lelio. Intendetemi, per carità.

Corallina. La parla chiaro, se la vol che l’intenda.

Lelio. Sapete cosa è il cuore?

Corallina. Sior sì.

Lelio. Amore, sapete che cosa è?

Corallina. Sior sì.

Lelio. Intendete cosa vuol dir ferire?

Corallina. L’intendo.

Lelio. Sapete cosa significa cataplasma?

Corallina. Oh, questo mo gnente affatto.

Lelio. Ecco la costruzione del raziocinio. Amore ha ferito il mio cuore, e alla ferita del cuore vi vuol, mia cara, il cataplasma d’amore. (via)

Corallina. Oh che matto maledetto! No so cossa diavolo che el se diga, ma se no l’intendo lu, no m’importa. Me basta intender che questo xe un diamante, che questi xe do rubini, che questo xe un cerchio d’oro. Cussì l’intendo, e chi se vol far intender dalle donne, ghe vol de sta sorte de parole tonde. Alla prima el m’ha fatto restar incocalia13. Ma se el me torna per i pie, ghe voggio responder de trionfo, ghe vôi piantar anca mi do dozene de spropositi alla so usanza, e ghe voggio dar gusto. A sto mondo chi segonda xe ben visto, e a segondar se vadagna sempre qualcossa. I dise ch’el xe matto? Cossa m’importa a mi? Dai matti se recava più che dai savi; e se no ghe fusse dei omeni matti, nualtre povere donne la passaressimo mal. (via)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Chiombar «bever spesso, sbevazzare»: Boerio, Diz. cit.
  2. Bucato.
  3. Alludesi alla fame: vol. II. p. 604.
  4. Giù.
  5. V. vol. VI, pag. 472.
  6. Così il testo, per arlevada.
  7. Passere: v. Boerio.
  8. Bisegar, frugare, stuzzicare, sentire un brulichio: v. vol. I, p. 454, n. 2 e II, 159 n. a ecc.
  9. Tetar de mazo «importunare, noiare»: Boerio cit. Mazo, maggio.
  10. Schiaffo: V. vol. II, 419, 522 ecc.
  11. Non l’intendo nulla. Più comune gazzarada.
  12. Se lo tenga, ma volgare: v. Boerio.
  13. Stupida: V. vol. II, pagg. 205 e 227.