Adone/Canto III: differenze tra le versioni

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====Allegoria====
L'INNAMORAMENTO. In Amore, che ferisce il cuore alla madre, si accenna che questo irreparabile affetto non perdona a chi che sia. In Venere, che s'innamora d'Adone addormentato, si dinota quanto possa in un animo tenero la bellezza, eziandio quando ella non è coltivata. Nella medesima, che volendo guadagnarsi l'affezzion d'Adone cacciatore, prende la sembianza della dea cacciatrice e d'impudica si trasforma in casta, s'inferisce che chiunque vuole adescare altrui si serve di que' mezzi a' quali conosce essere inclinato l'animo di colui che disegna di tirare a sé, e che molte volte la lascivia viene mascherata di modestia; né si trova femina così sfacciata, ch'almeno insu i principi non si ricopra col velo della onestà. Nella rosa tinta del sangue di essa dea ed a lei dedicata, si dimostra che i piaceri venerei son fragili e caduchi; e sono il più delle volte accompagnati da aspre punture o di passione veemente o di pentimento mordace.
 
====Argomento====
<poem>
''Mentreché stanco Adon dorme insu'l prato,''
''la bella Citerea n'arde d'amore.''
''Egli si desta e pien di pari ardore''
''vassene seco inver l'ostel beato.''
</poem>
 
====Canto terzo====
<poem>
Perfido è ben Amor, chi n'arde il sente, {{R|1ª ottava}}
ma chi è che nol senta o che non n'arda?
E pur la cieca e forsennata gente
segue il suo peggio e'l proprio mal non guarda!
Fascino dilettoso, ond'uom sovente
pasce, credulo augello, esca bugiarda.
Vede tese le reti e non le fugge,
né vorria non voler quelche lo strugge.
Corre vaga farfalla al chiaro lume, {{R|2ª ottava}}
solca incauto nocchier le placid'onde;
quella nel fiero incendio arde le piume,
questo assorbon talor l'acque profonde.
Spesso arsenico in oro e per costume
rigido tra' bei fiori angue s'asconde;
e spesso in dolce pomo ed odorato
suol putrido abitar verme celato.
Così spada lucente, arco depinto {{R|3ª ottava}}
con la pittura e con la luce alletta;
ma se l'una è trattata e l'altro è spinto
l'una trafige poi, l'altro saetta.
Così nuvolo ancor di raggi cinto
fiamme nel seno e fulmini ricetta;
e con dorato e luminoso crine
minaccia empia cometa alte ruine.
Sirena, iena, che con falsa voce {{R|4ª ottava}}
e con canto mortale altrui tradisce.
Foco coverto, ch'assecura e coce,
aspe che dorme e'l tosco in sen nutrisce.
Spietato lusinghier, ch'alletta e noce,
pietoso micidial, ch'unge e ferisce,
cortese carcerier, ch'a' rei di morte
quando chiusi li ha in ceppi, apre le porte.
Dura legge, se legge esser può dove {{R|5ª ottava}}
oppressa la ragion, regna la voglia
e l'alma folle in strane guise e nove
per vestirsi d'altrui di sé si spoglia.
Crudo signor, ch'a forza i sensi move
a procacciarsi sol tormento e doglia.
Fere come la morte e non perdona
senza distinguer mai stato o persona.
O del mondo tiranno e di natura, {{R|6ª ottava}}
se del materno duol gioisci e godi,
qual fia che schermo o scampo alma secura
abbia dale tue forze o dale frodi?
Lasso, e di me che fia, che'n prigion dura
vivo e scioglier del cor non spero i nodi,
finché quel nodo ancor non si discioglia,
che tien legata l'anima ala spoglia?
Era nela stagion, che'l can celeste {{R|7ª ottava}}
fiamme essala latrando e l'aria bolle,
ond'arde e langue in quelle parti e'n queste
il fiore e l'erba e la campagna e'l colle;
e'l pastor per spelonche e per foreste
rifugge al'ombra fresca, al'onda molle
mentre che Febo al'animal feroce
che fu spoglia d'Alcide il tergo coce.
L'olmo, il pino, l'abete, il faggio e l'orno {{R|8ª ottava}}
già le braccia e le chiome ombrosi e spessi,
che dar sul fil del più cocente giorno
agli armenti solean grati recessi,
appena or nudi e senza fronde intorno
fanno col proprio tronco ombra a sestessi;
e mal secura dal'eterna face
ricovra agli antri suoi l'aura fugace.
Già varcata ha del dì la mezza terza {{R|9ª ottava}}
sul carro ardente il luminoso auriga
e i volanti corsier, ch'ei punge e sferza,
tranno al mezzo del ciel l'aurea quadriga.
Tepidetto sudor, che serpe e scherza,
al bell'Adon la bella fronte irriga
e'n vive perle e liquide disciolto
cristallino ruscel stilla dal volto.
Sotto l'arsura del'estiva lampa, {{R|10ª ottava}}
che dal più alto punto il suol percote,
tutto anelante il garzonetto avampa
e il grave incendio sostener mal pote.
Purpureo foco gli colora e stampa
di più dolce rossor le belle gote,
che'l sol, che secca i fiori in ogni riva,
in que' prati d'amor vie più gli aviva.
Mentre che pur, dov'egli arresti il passo, {{R|11ª ottava}}
parte cerca più fresca e meno aprica,
ode strepito d'acque a piè d'un sasso,
vede chiusa valletta al sol nemica.
Or questo, il corpo a sollevar già lasso
e travagliato assai dala fatica,
seggio si sceglie e stima util consiglio
qui depor l'armi e dar ristoro al ciglio.
Fontana v'ha, cui stende intorno oscura {{R|12ª ottava}}
l'ombra sua protettrice annosa pioppa,
dove larga nutrice empie Natura
di vivace licor marmorea coppa.
Latte fresco e soave è l'onda pura,
un antro il seno ed un cannon la poppa.
A ber sugli orli i distillati umori
apron l'avide labbra erbette e fiori.
L'arco rallenta e del'usato pondo {{R|13ª ottava}}
al fianco ingiurioso il fianco alleggia
e'l volto acceso e'l crin fumante e biondo
lava nel fonte, che'nsu'l marmo ondeggia.
Poi colà dove il rezzo è più profondo
e d'umido smeraldo il suol verdeggia,
al'erba in grembo si distende e l'erba
ride di tant'onor lieta e superba.
Il gorgheggiar de' garruletti augelli, {{R|14ª ottava}}
a cui da' cavi alberghi eco risponde;
il mormorar de' placidi ruscelli,
che van dolce nel margo a romper l'onde;
il ventilar de' tremuli arboscelli,
dove fan l'aure sibilar le fronde,
l'allettar sì, che'nsu le sponde erbose
in un tranquillo oblio gli occhi compose.
Non lunge è un colle, che l'ombrosa fronte {{R|15ª ottava}}
di mirti intreccia e'l crin di rose infiora,
e del Nilo fecondo il chiuso fonte
vagheggia esposto ala nascente aurora.
E quando rosseggiar fa l'orizzonte
l'aureo carro del sol, che i poggi indora,
sente a l'aprir del mattutino Eoo
d'Eto i primi nitriti e di Piroo.
A piè di questo i suoi giardini ha Clori {{R|16ª ottava}}
e qui la dea d'amor sovente riede
a corre i molli e rugiadosi odori
per far tepidi bagni al bianco piede.
Ed ecco sovra un talamo di fiori
qui giunta a caso, il giovinetto vede.
Ma mentr'ella in Adon rivolge il guardo,
Amor crudele in lei rivolge il dardo.
Per placar quel feroce animo irato, {{R|17ª ottava}}
Venere sua, ch'alpar degli occhi l'ama,
con l'esca in man d'un picciol globo aurato
gonfio di vento, a sé da lunge il chiama.
Tosto che vede il vagabondo alato
la palla d'or, di possederla brama,
per poter poi con essa in chiuso loco
sfidar Mercurio e Ganimede a gioco.
Movesi ratto e in spaziosa rota {{R|18ª ottava}}
gli omeri dibattendo ondeggia ed erra,
solca il ciel con le piume, in aria nuota,
or l'apre e spiega, or le ripiega e serra.
Or il suol rade, or ver la pura e vota
più alta region s'erge da terra.
Alfin colà dove Ciprigna stassi
china rapido l'ali e drizza i passi.
Ella il richiama, egli rifugge, e poi {{R|19ª ottava}}
torna, e'ntorno le scherza alto sui vanni.
Anime incaute e semplicette, o voi,
non sia chi creda a que' soavi inganni.
Fuggite, oimé, gli allettamenti suoi,
insidie i vezzi, e son gli scherzi affanni,
sempre là dov'ei ride è strazio acerbo;
o Dio quanto è crudel, quanto è superbo!
Questa dolce magia, che per usanza {{R|20ª ottava}}
l'anime nostre a vaneggiar sospinge,
tal in sé di piacer ritien sembianza,
che quasi in amo d'or le prende e stringe.
Or se tanta han d'amor forza e possanza
soli gli effetti, allor ch'inganna e finge,
deh! che fora a mirar viva e sincera
di quel corpo immortal la forma vera?
Di splendor tanto e sì sereno ognora {{R|21ª ottava}}
quel bel corpo celeste intorno è sparso,
che perderebbe ogni altro lume e fora,
senza escluderne il sol, debile e scarso.
Stupor non sia se Psiche, e chiusi ancora
avea gli occhi dal sonno, il cor n'ebb'arso
e vide innanzi a quella luce eterna
vacillando languir l'aurea lucerna.
O se nel fosco e torbido intelletto {{R|22ª ottava}}
di quella luce una scintilla avessi,
siché come scolpito il chiudo in petto,
così scoprirlo agli occhi altrui potessi,
farei veder nel suo giocondo aspetto
di bellezze divine estremi eccessi;
onde, scorgendo in lui tanta bellezza,
ragion la madre ha ben se l'accarezza.
Bionda testa, occhi azzurri e bruno ciglio, {{R|23ª ottava}}
bocca ridente e faccia ha dilicata,
né su la guancia ove rosseggia il giglio
spunta ancor la lanugine dorata.
Piume d'oro, di bianco e di vermiglio
quinci e quindi sugli omeri dilata
ed ha, come pavon, le penne belle
tutte fregiate d'occhi di donzelle.
Molli d'ambrosia e di rugiada ha sparte {{R|24ª ottava}}
le chiome e l'ali e'ngarzonisce apena.
Bendato e senza spoglie il copre in parte
sol una fascia che di cori è piena.
Arma la man con infallibil arte
d'arco, di stral, di face e di catena.
L'accompagna in ogni atto il riso, il gioco,
e somiglia al color porpora e foco.
Corre ingordo a l'invito e colmo un lembo {{R|25ª ottava}}
di fioretti e di fronde in prima coglie,
poi poggia in aria e sul materno grembo
in colorita grandine lo scioglie;
ed ei nel molle ed odorato nembo
chiuso e tra fiori involto e tra le foglie
piover si lassa leggiermente, e sovra
la bellissima dea posa e ricovra.
Tal di donna real delizia e cura {{R|26ª ottava}}
picciolo can che le sta sempre innanzi,
e dele dolci labra ha per ventura
di ricevere i baci e ber gli avanzi,
se con cenno o con cibo l'assecura
la bella man, che lo scacciò pur dianzi,
scote la coda e saltellando riede
umilemente a rilambirle il piede.
Pargoleggiando il bianco collo abbraccia, {{R|27ª ottava}}
bacia il bel volto e le mammelle ignude.
Ride per ciancia e la vermiglia faccia
dentro il varco del petto asconde e chiude.
Ella, ch'ancor non sa quai le minaccia
l'atto vezzoso acerbe piaghe e crude,
colma di gioia tutta e di trastullo
si stringe in grembo il lusinghier fanciullo.
Stretto in grembo si tien la dea ridente {{R|28ª ottava}}
il dolce peso entro le braccia assiso.
Sul ginocchio il solleva e lievemente
l'agita, il culla e se l'accosta al viso.
Or degli occhi ribacia il raggio ardente,
or dela bocca il desiato riso;
né sa che gonfia di mortal veleno
una serpe crudel si nutre in seno.
Le colorite piume e le bell'ali {{R|29ª ottava}}
che'l volo scompigliò, l'aura disperse,
e le chiome incomposte e diseguali
polisce con le man morbide e terse.
Ma l'arco traditor, gl'infidi strali,
onde dure talor piaghe sofferse,
non s'arrischia a toccar, che sa ben ella
qual contagio hanno in sé l'aspre quadrella.
Seco però, mentre che'n braccio il tiene, {{R|30ª ottava}}
d'alquanto divisar pur si compiace.
- Figlio, dimmi (dicea) poiché conviene
ch'esser tra noi non deggia altro che pace,
perché prendi piacer del'altrui pene?
Come sei sì protervo e tanto audace,
ch'ognor con l'armi tue turbi e molesti
la quiete del cielo e de' celesti? -
- Madre (risponde Amor) s'erro talora, {{R|31ª ottava}}
ogni error mio per ignoranzia accade.
Tu vedi ben che son fanciullo ancora,
condona i falli al'immatura etade.-
- Tu fanciul? (replicò Venere allora)
Chi sì stolto pensier ti persuade?
Coetaneo del tempo e nato avante
a le stelle ed al ciel, t'appelli infante?
Forse perché non hai canute chiome, {{R|32ª ottava}}
testesso in ciò semplicemente inganni?
e ti dai pur di pargoletto il nome,
quasi l'astuzia poi non vinca gli anni? -
- E qual mia colpa (Amor soggiunge) o come
altri da me riceve offese o danni?
perché denno biasmar l'inique genti
sol di gioia ministre armi innocenti?
In che pecco qualora altrui mostr'io {{R|33ª ottava}}
le cose belle? o che gran mal commetto?
Non accusi alcun l'arco o il foco mio,
ma semedesmo sol, ch'erra a diletto.
Se'l tuo gran padre o qualunqu'altro dio
si lagna ale mie forze esser soggetto,
dì che'l dolce non curi, il bel non brami,
e chi d'amor non vuol languir, non ami. -
Ed ella: - Or tu, ch'ognor tante e sì nove {{R|34ª ottava}}
spieghi superbo in ciel palme e trofei;
tu, che con alte e disusate prove
puoi tutti a senno tuo domar gli dei;
tu, che non pur del sommo istesso Giove
vittorioso e trionfante sei,
ma da' tuoi strali ancor pungenti e duri
me, che ti generai, non assecuri,
dimmi ond'avien, che sol, pur come spenta {{R|35ª ottava}}
abbi la face e la faretra vota,
contro Minerva è la tua man sì lenta,
che non l'arda già mai né la percota?
che sol fra tanti un cor piaghe non senta,
che gli sia la tua fiamma intutto ignota,
soffrir non posso; o le facelle e i dardi
depon per tutti, o lei ferisci ed ardi. -
Ed egli: - Oimé! Costei di sì tremendo {{R|36ª ottava}}
sembiante arma la fronte e sì severo,
che qualor per ferirla io l'arco tendo
temo l'aspetto suo virile e fiero.
Poi del grand'elmo ador ador scotendo
il minaccioso ed orrido cimiero,
di sì fatto terror suole ingombrarmi,
ch'ala stupida man fa cader l'armi. -
Ed ella a lui: - Pur Marte era più molto {{R|37ª ottava}}
feroce e formidabile di questa;
da' tuoi lacci però non n'andò sciolto,
malgrado ancor dela terribil cresta. -
Ed egli a lei: - Marte il rigor del volto
placa sovente e mi fa gioco e festa,
m invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre;
l'altra sempre mi scaccia e sempre aborre.
Talor ch'osai d'avicinarmi alquanto, {{R|38ª ottava}}
giurò, per quel signor che regge il mondo,
o con l'asta o col piè rotto ed infranto
precipitarmi al'erebo profondo.
D'angui chiomato ha poi nel petto, ahi quanto
squallido in vista! un teschio e furibondo,
del cui ciglio uscir suol tanto spavento,
che'n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. -
- Odi (dic'ella) odi sagace scusa. {{R|39ª ottava}}
Sì certo sì. Dunque paventi e tremi
nel sen di Palla a risguardar Medusa,
e pur di Giove il folgore non temi?
Ma dimmi or perché'l cor d'alcuna Musa
non mai del foco tuo riceve i semi?
Queste sguardo non han rigido e crudo,
né del Gorgone il mostruoso scudo. -
- Vero dirotti (egli ripiglia) io queste {{R|40ª ottava}}
non temo no, ma reverente onoro.
Accompagnata da sembianze oneste
virginal pudicizia io scorgo in loro.
Poi sempre intente al bel cantar celeste,
o in studio altro occupato è il sacro coro;
talché non mai, senon ne' molli versi,
da conversar tra lor varco m'apersi.-
Ed ella allor: - Poiché ritiene a freno {{R|41ª ottava}}
tanto furor qui zelo, ivi paura,
vorrei saver perché Diana almeno
dale quadrella tue vive sicura? -
- Né di costei (risponde) il casto seno
vaglio a ferir, rivolta ad altra cura.
Fugge per monti, né posar concede,
sich'ozio mai la signoreggi al piede.
Ben ho quel chiaro dio, che di Latona {{R|42ª ottava}}
seco nacque in un parto, arciero anch'esso,
dico quel che di foco il crin corona,
piagato e d'altra fiamma acceso spesso. -
Così mentre con lei scherza e ragiona,
il tratto studia e le si stringe appresso;
e tuttavia dialogando seco,
coglie il tempo a colpir l'occhiuto cieco.
Dal purpureo turcasso, ilqual gran parte {{R|43ª ottava}}
dele canne pungenti in sé ricetta,
parve caso improviso e fu bell'arte,
la punta uscì dela fatal saetta.
Punge il fianco ala madre, indi in disparte
timidetto e fugace il volo affretta;
in un punto medesmo il fier garzone
ferille il core ed additolle Adone.
Gira la vista a quel ch'Amor l'addita, {{R|44ª ottava}}
che scorgerlo ben può, sì presso ei giace,
ed: - Oimé! (grida) oimé ch'io son tradita,
figlio ingrato e crudel, figlio fallace!
Ahi! qual sento nel cor dolce ferita?
ahi! qual ardor che mi consuma e piace?
qual beltà nova agli occhi miei si mostra?
A dio Marte, a dio ciel, non son più vostra!
Pera quell'arco tuo d'inganni pieno, {{R|45ª ottava}}
pera, iniquo fanciul, quel crudo dardo.
Tu prole mia? no no, di questo seno
no che mai non nascesti, empio bastardo!
Né mi sovien tal foco e tal veleno
concetto aver, per cui languisco ed ardo.
Ti generò di Cerbero Megera,
o del'oscuro Cao la Notte nera. -
Si svelle in questo dir con duolo e sdegno {{R|46ª ottava}}
lo stral, ch'è nel bel fianco ancor confitto
e tra le penne e'l ferro in mezzo al legno
trova il nome d'Adon segnato e scritto.
Volto ala piaga poi l'occhio e l'ingegno
vede profondamente il sen trafitto
e sente per le vene a poco a poco
serpendo gir licenzioso foco.
Ben egli è ver che quella fiamma è tale, {{R|47ª ottava}}
che non senza piacer langue e sospira;
e vaga pur del non curato male,
mille in sé di pensier machine aggira.
Or si rivolge al velenoso strale,
or l'esca del suo ardor lunge rimira
e'n questi accenti ale confuse voglie
con un ahi doloroso il groppo scioglie:
- Ahi ben d'ogni mortal femina vile {{R|48ª ottava}}
omai lo stato invidiar mi deggio,
poiché di furto e con insidia ostile
da chi meno il devria schernir mi veggio.
Mi ferisce il suo stral, m'arde il focile,
né dele mie sventure è questo il peggio;
ch'alfin le fiamme sue son tutte spente,
se la madre d'Amore amor non sente.
Ma ch'io soggiaccia a sì perversa sorte, {{R|49ª ottava}}
che le bellezze mie si goda un fabro,
un aspro, un rozzo, un ruvido consorte,
inculto, irsuto, affumigato e scabro?
e che legge immortal peggior che morte
mi costringa a baciar l'ispido labro?
labro assai più nel'orride fornaci
atto a soffiar carbon, ch'a porger baci?
Un ch'altro unqua non sa, che col martello {{R|50ª ottava}}
tempestando l'ancudini infernali,
le caverne assordar di Mongibello
per temprar del mio padre i fieri strali,
che dan cadendo in questo lato e'n quello
vano spavento ai semplici mortali
e, del maestro lor sembianti espressi,
com'è torto il suo piè son torti anch'essi?
Deh quante volte audacemente accosta {{R|51ª ottava}}
importuno ala mia l'adusta faccia
e quella man, ch'ha pur allor deposta
la tanaglia e la lima, in sen mi caccia!
Ed io, malgrado mio, son sottoposta
ai nodi pur del'aborrite braccia
ed a soffrir, che mentre ei mi lusinga,
la fuligine e'l fumo ognor mi tinga.
Pallade, o saggia lei, quantunque meco {{R|52ª ottava}}
non s'agguagli in beltà, ne fè rifiuto.
 
Né Giove il volse in ciel, ma nel più cieco
fondo il dannò d'un baratro perduto;
onde piombando in quell'arsiccio speco
l'osso s'infranse e zoppicò caduto.
E pur zoppo ne venne entro il mio letto
l'altrui pace a turbar col suo difetto.
Già non m'è già di mente ancor uscita {{R|53ª ottava}}
la rimembranza del'indegne offese.
Altamente nel cor mi sta scolpita
l'insidia, che sì perfida mi tese,
quando ala rete di diamante ordita
questo sozzo villan nuda mi prese,
follemente scoprendo ai numi eterni
dele mie membra i penetrali interni.
Un rabbioso dispetto ancor sent'io {{R|54ª ottava}}
del grave oltraggio onde delusa fui,
poiché diè con sua infamia e biasmo mio
vergognosa materia al riso altrui.
Or non si dolga no chi mi schernio,
se l'onta che mi fè ricade in lui;
s'ei volse cancellar corno con scorno
io saprò vendicar scorno con corno.
L'Aurora innanzi dì si cala in terra {{R|55ª ottava}}
per abbracciar d'Atene il cacciatore.
La Luna a mezza notte il ciel disserra
per vagheggiar l'arcadico pastore.
Io perché no? Se'l mio desir pur erra,
quella somma beltà scusa ogni errore.
Vo' che'l garzon, ch'io colà presso ho scorto,
sia vendetta al'ingiuria, emenda al torto. -
Qui tace e poi, qual cacciatrice al guado {{R|56ª ottava}}
colà correndo, al'alta preda anela.
Vesta di lieve e candido zendado
le membra assai più candide le vela,
che, com'opposto al sol leggiero e rado
vapor, le copre sì, ma non le cela.
Vola la falda intorno abile e crespa,
zefiro la raccorcia e la rincrespa.
Sudata dal'artefice marito {{R|57ª ottava}}
su l'omero gentil fibbia di smalto
con branche d'oro lucido e forbito
sospende ad un zaffir l'abito in alto.
L'arco, onde suole ogni animal ferito
mercé dela man bella ambir l'assalto,
con la faretra ch'al bel fianco scende
ozioso e dimesso al tergo pende.
Sotto il confin dela succinta gonna, {{R|58ª ottava}}
salvo il bel piè, ch'ammanta aureo calzare,
del'una e l'altra tenera colonna
l'alabastro spirante ignudo appare.
Non vide il mondo mai, se la mia donna
non l'agguaglia però, forme sì care.
Da lodar, da ritrar corpo sì bello
Tracia canto non ha, Grecia pennello.
Voi Grazie voi, che dolcemente avete {{R|59ª ottava}}
nel nettare del ciel le labra infuse
e ne' lavacri più riposti siete
nude le sue bellezze a mirar use,
voi snodar la mia lingua e voi potete
narrar di lei ciò che non san le Muse.
Intelletto terreno al ciel non sale,
né fa volo divin penna mortale.
Pastor di Troia, o te felice allora {{R|60ª ottava}}
che senza vel tanta beltà mirasti;
e saggio te, quanto felice ancora,
che'l pregio a lei d'ogni beltà donasti.
Beltà che gli occhi e gli animi innamora,
diva dele bellezze, e tanto basti.
Se non fuss'ella Citerea, direi,
che Citerea s'assomigliasse a lei.
Non osa al bell'Adon Venere intanto {{R|61ª ottava}}
il vero aspetto suo scoprir sì tosto,
ma vuol, per torne gioco innanzi alquanto,
che sia sotto altra imagine nascosto.
Novo, i' non saprei dir con qual incanto,
simulacro mentito ha già composto
e già sì ben di Cinzia arnesi e gesti
finge, che'n tutto lei la crederesti.
Va come Cinzia inculta ed inornata, {{R|62ª ottava}}
e veste gonna di color d'erbetta.
Tutta in un fascio d'or la chioma aurata
le cade sovra l'omero negletta.
Nulla industria però ben ordinata
tanto con l'artificio altrui diletta,
quanto al bel crin, ch'ogni ornamento sprezza,
accresce quel disordine bellezza.
Tien duo veltri la destra, al lato manco {{R|63ª ottava}}
pende d'aurea catena indico dente.
D'argento in fronte immacolato e bianco,
vedesi scintillar luna lucente.
Lasciasi l'arco e la faretra al fianco,
prende d'acuto acciar spiedo pungente.
Tal ch'ai cani, agli strali, al corno, al'asta
la più lasciva dea par la più casta.
Non sol per suo diletto ella usar vole, {{R|64ª ottava}}
ma per infamar l'emula quest'arte,
perché temendo, se la vede il Sole,
non l'accusi a Vulcano overo a Marte,
vuol ch'egli, o qualche satiro, che suole
da lui fuggire in quell'ombrosa parte,
a Pan piuttosto il riferisca e dica,
ch'ancor Diana sua non è pudica.
Per più spedito agevolarsi il calle {{R|65ª ottava}}
l'aureo coturno si disfibbia e scalza,
poi del'obliqua ed intricata valle
premendo va la discoscesa balza.
L'erbe dal sole impallidite e gialle
verdeggian tutte, ogni fior s'apre ed alza;
sotto il piè pellegrin del bosco inculto
ogni sterpo fiorisce, ogni virgulto.
Ed ecco audace e temeraria spina, {{R|66ª ottava}}
ma quanto temeraria anco felice,
che la tenera pianta alabastrina
punge in passando, e'l sangue fuor n'elice
e vien di quella porpora divina
ad ingemmar la cima impiagatrice.
Ma colorando i fior del proprio stelo,
scolora i fior dela beltà del cielo.
Pallidetta s'arresta e dolorosa {{R|67ª ottava}}
que' begli ostri a stagnar col bianco lino
e'n tanto folgorar vede la rosa,
già di color di neve, or di rubino.
Ma per doppia ferita ancor non posa,
né dela traccia sua lascia il camino.
Vinta la doglia è dal desire e cede
ala piaga del cor quella del piede.
Or giunta sotto il solitario monte, {{R|68ª ottava}}
dove raro uman piè stampò mai l'orme,
trova colà sul margine del fonte
Adon, che'n braccio ai fior s'adagia e dorme;
ed or che già dela serena fronte
gli appanna il sonno le celesti forme
e tien velato il gemino splendore,
veracemente egli rassembra Amore.
Rassembra Amor, qualor deposta e sciolta {{R|69ª ottava}}
la face e gli aurei strali e l'arco fido,
stanco di saettar posa talvolta
su l'Idalio frondoso o in val di Gnido
e dentro i mirti, ove tra l'ombra folta
han canori augelletti opaco nido,
appoggia il capo ala faretra e quivi
carpisce il sonno al mormorar de' rivi.
Sicome sagacissimo seguso, {{R|70ª ottava}}
poiché raggiunta ha pur tra fratta e fratta
vaga fera talor, col guardo e'l muso
esplorando il covil fermo s'appiatta
e'n cupa macchia rannicchiato e chiuso
par che voce non oda, occhio non batta,
mentre il varco e la preda ov'ella sia
immobilmente insidioso spia,
così la dea d'amor, poiché soletta {{R|71ª ottava}}
giunge a mirar l'angelica sembianza,
ch'ale gioie amorose il bosco alletta
e del suo ciel le meraviglie avanza,
resta immobile e fredda, e'nsu l'erbetta
di stupor sovrafatta e di speranza,
siede tremante e il bel che l'innamora,
stupida ammira e reverente adora.
In atto sì gentil prende riposo, {{R|72ª ottava}}
che tutto leggiadria spira e dolcezza;
e'l Sonno istesso in sì begli occhi ascoso
abbandonar non sa tanta bellezza;
anzi par che, di lor fatto geloso,
di starsi ivi a diletto abbia vaghezza
e con nido sì bel non gli dispiaccia
cangiar di Pasitea l'amate braccia.
Placido figlio dela Notte bruna {{R|73ª ottava}}
il Sonno ardea d'amor per Pasitea
e perché questa dele Grazie er'una,
l'ottenne in sposa alfin da Citerea.
Or mentre che di lor se'n gia ciascuna
l'erbe scegliendo per lavar la dea,
scherzando intorno ignudo spirto alato
partir non si sapea dal vicin prato.
Vanno ove Flora i suoi tapeti stende {{R|74ª ottava}}
le Grazie a côr qual più bel fior germoglia.
Qual dala spina sua rapisce e prende
la rosa e qual del giglio il gambo spoglia.
Quella al balsamo ebreo la scorza fende,
questa al'indica canna il crin disfoglia.
Altra, ove suol vibrar lingue di foco,
ricerca di Cilicia il biondo croco.
Or il tranquillo dio, mentre che move {{R|75ª ottava}}
invisibil tra lor l'ali sue chete,
posar veggendo il bell'Adon là dove
tesson notte di fronde ombre secrete,
per piacer ala figlia alma di Giove,
gli pone agli occhi il ramoscel di Lete;
talché ben pote, oppresso in quella guisa,
star quanto vuole a contemplarlo assisa.
Tanta in lei gioia dal bel viso fiocca, {{R|76ª ottava}}
e tal da' chiusi lumi incendio appiglia,
che tutta sovra a lui pende e trabocca
di desir, di piacer, di meraviglia.
E mentre or dela guancia, or dela bocca
rimira pur la porpora vermiglia,
sospirando, un oimé svelle dal petto,
che non è di dolor ma di diletto.
Qual industre pittor, che'ntento e fiso {{R|77ª ottava}}
in bel ritratto ad emular natura,
tutto il fior, tutto il bel d'un vago viso
celatamente investigando fura,
del dolce sguardo e del soave riso
pria l'ombra ignuda entro'l pensier figura,
poi con la man discepola del'arte
di leggiadri color la veste in carte,
tal ella quasi con pennel furtivo {{R|78ª ottava}}
l'aria involando del'oggetto amato,
beve con occhio cupido e lascivo
le bellezze del volto innamorato;
indi del'idol suo verace e vivo
forma l'essempio con lo strale aurato
e con lo stral medesimo d'Amore
se l'inchioda e confige in mezzo al core.
A piè gli siede e studia attentamente {{R|79ª ottava}}
come la bella imago in sen si stampi.
In lui si specchia ed al'incendio ardente
tragge nov'esca, onde più forte avampi.
Ma dele stelle innecclissate e spente
suscitati veder vorrebbe i lampi
e consumando va tra lieta e trista
in quel dolce spettacolo la vista.
Benché'l favor de' rami ombrosi e densi {{R|80ª ottava}}
dal sol difenda il giovane che giace,
pur l'aria, impressa di vapori accensi
e ripercossa dal'estiva face
e quelche lega dolcemente i sensi
e sopisce i pensier sonno tenace,
il volto insieme ed umidetto ed arso
di fiamme tutto e di sudor gli han sparso,
onde la dea pietosa or dela vesta {{R|81ª ottava}}
il lembo, or un suo vel candido e lieve
in lui scotendo, a lusingar s'appresta
dela fronte e del crin l'ambra e la neve.
E mentre l'aria tepida e molesta
move e scaccia il calor noioso e greve,
con l'aure vane a vaneggiar intesa
sfoga in sospir l'interna fiamma accesa.
- Aure o Aure (dicea) vaghe e vezzose {{R|82ª ottava}}
peregrine del'aria, Aure odorate,
voi che di questa selva infra l'ombrose
cime sonore a stuol a stuol volate,
voi, cui de' miei sospir l'aure amorose
doppian forza ale piume, Aure beate,
voi dal'estivo ingiurioso ardore
deh defendete il nostro amato amore!
Così di verno mai, così di gelo {{R|83ª ottava}}
ira nemica non v'offenda o tocchi;
e quando i monti han più canuto il pelo
dolce dale vostr'ali ambrosia fiocchi;
e securo vi presti il bosco e'l cielo
schermo dal vivo sol di que' begli occhi;
e molle abbiate e di salute piena
ombra sempre tranquilla, aria serena. -
Indi al fiorito e verdeggiante prato, {{R|84ª ottava}}
letto del vago suo, rivolta dice:
- Terreno alpar del ciel sacro e beato,
aventurosi fiori, erba felice,
cui sostener tanta bellezza è dato,
cui posseder tanta ricchezza lice,
che del'idolo mio languido e stanco
siete guanciali al volto e piume al fianco,
sia quel raggio d'amor, che vi percote, {{R|85
di sole in vece a voi, fiori ben nati.
Ma che veggio? che veggio? or che non pote
la virtù de' begli occhi ancor serrati?
Dal bel color dele divine gote,
dal puro odor di que' celesti fiati
vinta la rosa e vergognoso il giglio,
l'una pallida vien, l'altro vermiglio. -
Volgesi agli occhi e dice: - Un degli ardenti {{R|86ª ottava}}
vostri lampi, occhi cari, or mi consoli,
occhi vaghi e leggiadri, occhi lucenti,
occhi de' miei pensieri e porti e poli,
occhi dolci e sereni, occhi ridenti,
occhi de' miei desiri e specchi e soli,
finestre del'aurora, usci del die,
possenti a rischiarar le notti mie.
Occhi, ov'Amor sostien lo scettro e'l regno, {{R|87ª ottava}}
ov'egli arrota i più pungenti artigli,
voi sol potete il mio battuto ingegno
campar dale tempeste e da' perigli,
non men che stanco e travagliato legno
soglian di Leda i duo lucenti figli.
Già parmi in voi veder, veggio pur certo
tra due chiuse palpebre un cielo aperto.
Ma perché non v'aprite? e i dolci rai {{R|88ª ottava}}
non volgete a costei, ch'umil v'inchina?
Aprigli, neghittoso, e sì vedrai
a qual ventura il fato or ti destina.
Rendi ai sensi il vigor, richiama omai
l'anima da' bei membri peregrina.
Ah non gli aprir! che chiuso anco il bel ciglio
spira l'ardor del mio spietato figlio.
Sonno, ma tu, s'egli è pur ver che sei {{R|89ª ottava}}
viva e verace imagine di Morte,
anzi di qualità simile a lei
suo germano t'appelli e suo consorte,
come, come potresti a' danni miei
entrar del ciel nele beate porte?
con che licenza oltre l'usato ardita
puoi negli occhi abitar dela mia vita?
E se sei pur del'ombre e degli orrori, {{R|90ª ottava}}
oscuro figlio e gelido compagno,
come i cocenti raggi e i chiari ardori
soffri di quel bel viso, ond'io mi lagno?
Fuggi il rischio mortal! Semplici cori
fan tra i vezzi d'amor scarso guadagno.
Vanne vanne lontan, vattene in loco,
dove tanto non sia splendore e foco!
Ma se stender vuoi pur le brune piume {{R|91ª ottava}}
sovra il novello autor de' miei tormenti,
deh! porgi a l'ombre tue tanto di lume,
che l'imagine mia gli rappresenti,
laqual sicome dolce io mi consume
gli mostri in atti supplici e dolenti,
onde nel pigro cor, mentre giac'egli
sonnacchioso dormendo, Amor si svegli. -
Appena ha queste note ultime espresse, {{R|92ª ottava}}
che l'amico Morfeo, che l'è vicino,
fabrica d'aria e di vapori intesse
simulacro leggiadro e peregrino.
Di tai forme si veste e scopre in esse
di celeste beltà lume divino.
Donna, ch'è tutta luce e foco spira,
nel teatro del sonno Adone ammira.
Corona tal, ch'altrui la vista offende, {{R|93ª ottava}}
cerchia la fronte lucida e serena
e di gemme stellata avampa e splende
e di stelle gemmata arde e balena.
E dal titolo suo ben si comprende,
che non è chi la tien cosa terrena.
Havvi scritto dintorno in lettre aurate:
"madre d'Amore e dea dela beltate."
Mentre d'alto stupore Adon vien manco, {{R|94ª ottava}}
già pargli già la bella larva udire,
che stendendo una man d'avorio bianco:
"Adon, dammi il tuo cor" gli prende a dire.
E fu quasi un sol punto aprirgli il fianco,
dispiccarglielo a forza e disparire.
Sognando il bel garzon si dole e geme,
siché la vera dea ne langue insieme,
e, traendo un sospir piano e sommesso, {{R|95ª ottava}}
tempra il novo martir che la tormenta
e languisce e gioisce a un tempo istesso,
spera, teme, arde, agghiaccia, osa e paventa.
La mano e'l sen s'empie di fiori e spesso
sul viso un nembo al bel fanciul n'aventa.
Indi, ché lui destar non vuol, s'inchina
dolcemente a baciar l'erba vicina.
Poscia il bel riso entro le labra accolto, {{R|96ª ottava}}
che'n carcere di perle s'imprigiona,
contempla attentamente e del bel volto
vagheggiando la bocca a lei ragiona:
- Urna di gemme, ov'è il mio cor sepolto,
a temedesma il mio fallir perdona,
s'io troppo ardisco; orché tu taci e dormi,
l'alma, che mi rapisti, io vo' ritormi.
Che fo (seco dicea) che non accosto {{R|97ª ottava}}
volto a volto pian piano e petto a petto?
Vola il tempo fugace e seco tosto,
seguito dal dolor, fugge il diletto.
Ahi! quel diletto, a cui non vien risposto
con bel cambio d'amor, non è perfetto,
né con vero piacer bacio si prende,
cui l'amata beltà bacio non rende.
Qual dunque tregua attendo a' miei martiri, {{R|98ª ottava}}
s'occasion sì bella oggi tralasso?
Ma s'avien che si svegli e che s'adiri,
dove rivolgerò confusa il passo?
Moveranno il suo cor pianti e sospiri
purché non abbia l'anima di sasso.
Non l'avrà, s'egli è bel. - Così dubbiosa
per baciarlo s'abbassa, e poi non osa.
Come resta il villan, s'ale fresch'onde {{R|99ª ottava}}
quando più latra in ciel Sirio rabbioso
corre per bere e vede insu le sponde
la vipera crudel prender riposo,
o come il cacciator, che fra le fronde
cerca di Filomena il nido ascoso
e ficcando la man dentro la cova
in vece del'augel, l'aspe vi trova,
così lieta in un punto e timidetta {{R|100ª ottava}}
trema costei, quanto pur dianzi ardia.
L'afflige la beltà, che la diletta,
il troppo stimular la fa restia.
Brama quelche l'offende ed è costretta
tuttavolta a temer quelche desia.
Pentesi, che tant'oltre erri il desire
e si pente ancor poi del suo pentire.
Tre volte ai lievi e dolci fiati appressa {{R|101ª ottava}}
la bocca e'l bacio e tre s'arresta e cede,
e sprone insieme e fren fatta a sestessa,
vuole e disvuole, or si ritragge, or riede.
Amor, che pur sollecitar non cessa,
la sforza alfine ale soavi prede,
sì ch'ardisce libar le rugiadose
di celeste licor purpuree rose.
Al suon del bacio, ond'ella ambrosia bebbe, {{R|102ª ottava}}
l'addormentato giovane destossi
e poi ch'alquanto in sé rivenne ed ebbe
dal grave sonno i lumi ebri riscossi,
tanto a quel vago oggetto in lui s'accrebbe
stupor, ch'immoto e tacito restossi;
indi da lei, ch'al'improviso il colse,
per fuggir sbigottito il piè rivolse.
Ma la diva importuna il tenne a freno: {{R|103ª ottava}}
- Perché (disse) mi fuggi? ove ne vai?
Mi volgeresti il bel'guardo sereno,
se sapessi di me ciò che non sai. -
Ed egli allora abbarbagliato e pieno
d'infinito diletto a tanti rai,
a tanti rai ch'un sì bel sol gli offerse,
chiuse le luci, indi le labra aperse,
ed: - O qual tu ti sia, ch'a me ti mostri {{R|104ª ottava}}
tutta amor, tutta grazia, o donna, o diva,
diva certo immortal da' sommi chiostri
scesa a bear questa selvaggia riva,
se van (disse) tant'alto i preghi nostri,
se reverente affetto il ciel non schiva,
spiega la tua condizion, qual sei
o fra gli uomini nata, o fra gli dei. -
Ala madre d'Amor, ch'altro non vole {{R|105ª ottava}}
ch'aver le luci a quelle luci affisse,
parve, ch'aprendo l'un e l'altro sole
de' duo begli occhi, il paradiso aprisse.
E le calde d'amor dolci parole,
ch'a lei tremando e sospirando disse,
le furo soavissime e vitali
fiamme al cor, lacci al'alma, al petto strali.
Ma pur del'esser suo celando il vero, {{R|106ª ottava}}
mentitrice favella intanto forma.
- Così poco conosci, incauto arciero,
lei, che non solo il primo cielo informa,
ch'ha nel centro infernal non solo impero,
ma da cui queste selve han legge e norma?
E pur m'imiti e segui a tutte l'ore.
(poco men che non disse: "e m'ardi il core".)
I' men venia, sicome soglio spesso {{R|107ª ottava}}
quando l'estivo can ferve e sfavilla,
in questo bosco a meriggiar là presso
in riva al'onda lucida e tranquilla,
ch'una bolla vivente aperta in esso
di cavernosa pomice distilla
e forma un fonticel, ch'ale vicine
odorifere erbette imperla il crine,
quando il mio piè, che per l'estrema arsura, {{R|108ª ottava}}
sicome vedi, è d'ogni spoglia ignudo,
con repentina e rigida puntura
ago trafisse ingiurioso e crudo.
E bench'uopo non sia medica cura
per farmi incontr'al duol riparo e scudo,
colsi quest'erbe, il cui vigore affrena
il corso al sangue e può saldar la vena.
Ma perch'ogni mia ninfa erra lontano {{R|109ª ottava}}
e chi tratti non ho l'aspra ferita,
porgimi tu con la cortese mano,
a te ricorro, in te ricovro, aita. -
Qui del trafitto piè, del cor non sano
l'una piaga nasconde e l'altra addita
e scioglie, testimon de' suoi martiri,
un sospiro diviso in duo sospiri.
Non era Adon di rozza cote alpina, {{R|110ª ottava}}
né di libica serpe al mondo nato.
Ma quando fusse ancor d'adamantina
selce e di crudo tosco un petto armato,
ogni cor duro, ogni anima ferina
fora da sì bel sol vinto e stemprato.
Né meraviglia fia, qualor s'accosta,
ch'arda a fiamma vorace esca disposta.
Reverenza, pietate, amore e tema {{R|111ª ottava}}
fan nel dubbioso cor fiera contesa;
ma perché deve ogni fortuna estrema
subitamente esser lasciata o presa,
non ricusa il favor, ma gela e trema,
mentre s'appresta a sì soave impresa,
in quel gesto pietoso ed attrattivo,
con cui ride languendo occhio lascivo.
- Santo nume (dicea) cui Cinto e Delo {{R|112ª ottava}}
porge voti, offre incensi, altari infiora,
vostra grande in abisso, in terra e'n cielo
virtù, chi non conosce e non adora?
Scusate il cor, se con perfetto zelo
celebrar non vi sa quanto v'onora
e l'ardir dela man prendete in pace,
che'n sì degn'opra è d'ubbidirvi audace.
Deh qual ventura mai, qual proprio merto {{R|113ª ottava}}
d'infelice mortal tant'alto giunse?
Ben ho da benedir questo deserto,
che le fide da voi serve disgiunse
e quel, per cui m'è tanto bene offerto,
spinoso stel, che'l bianco piè vi punse;
e vo'segnar per tante glorie mie
con pietra lesbia un sì felice die.
Scintillan tante fiamme e tanti raggi {{R|114ª ottava}}
nel sembiante, ch'io scorgo altero e bello
che dar poriano invidia e far oltraggi
al vostro ardente e lucido fratello.
Onde non già de' boschi aspri e selvaggi,
ma dea de' cori e degli amor v'appello;
che s'io m'affiso in voi, di veder parmi
al volto Citerea, Diana al'armi.-
Con questo ragionar del piè gentile {{R|115ª ottava}}
si reca in grembo l'animato latte
e, poscia che con vel bianco e sottile
n'ha le gelate stille espresse e tratte,
dela destra v'accosta assai simile
quasi in bel paragon, le nevi intatte.
Disse Amor, che non era indi lontano:
- Non volea sì bel piè men bella mano! -
Tasta la cicatrice e terge e tocca {{R|116ª ottava}}
morbidamente i sanguinosi avori
e, mentre un rio di nettare vi fiocca
tra cento erbe salubri e cento odori,
fan con occhio loquace e muta bocca
eco amorosa i tormentati cori,
dove invece di voce il vago sguardo
quinci e quindi risponde: "ardi, ch'io ardo".
Dicea l'un fra suo cor: - Deh! quali io miro {{R|117ª ottava}}
strani prodigi e meraviglie nove?
Il ciel d'amor dal cristallino giro
di sanguigne rugiade un nembo piove.
Quando tra gli alabastri unqua s'udiro
nascer cinabri in cotal guisa o dove?
Da fonte eburneo uscir rivi vermigli,
dale nevi coralli, ostri dai gigli?
Sangue puro e divin, ch'a poco a poco {{R|118ª ottava}}
fai sovra il latte scaturir le rose,
vorrei da te saver, sei sangue o foco,
che tante accogli in te faville ascose?
O non mai più vedute in alcun loco
gemme mie peregrine e preziose,
di sì nobil miniera usciste fore,
che ben si vende a tanto prezzo un core.
E tu candido piede insanguinato, {{R|119ª ottava}}
che di minio sì fino asperso sei
e ricca pompa fai così smaltato
de' tesori d'amore agli occhi miei,
quanto più del mio cor sei fortunato,
del mio cor, che trafitto è da costei?
Langue ferita e di ferir pur vaga
impiagato m'ha il cor con la sua piaga.
A te fasciato pur di bianco invoglio {{R|120ª ottava}}
efficace licor rimedio serba.
Senza fasce ei si dole, al suo cordoglio
non giova industria d'arte o virtù d'erba.
Consenta pur Amor, che s'io mi doglio,
trovi ristoro almen la doglia acerba
e, stringendomi il fianco in dolce laccio,
se mi ferisce il piè, mi sani il braccio.
Chi più giamai di me felice fia, {{R|121ª ottava}}
s'egli averrà, che questa bella essangue,
ch'al chiuder dela sua la piaga mia
apre così, che'l cor ne geme e langue,
d'omicida crudel medica pia
m'asciughi il pianto, ov'io l'asciugo il sangue?
siché tra noie e gioie e guerre e paci
quante mi dà ferite io le dia baci? -
- Lassa (l'altra dicea) che dolce pena! {{R|122ª ottava}}
Questa, che la mia piaga annoda e cinge,
non è fascia, anzi è ceppo, anzi è catena,
che mentre il piè mi lega, il cor mi stringe.
Questo purpureo umor, che'n larga vena
di vivace rossor mi verga e tinge,
ahi! ch'è l'anima mia, che'n sangue espressa
vuole a costui sacrificar sestessa.
Erbe felici, ch'ale mie ferute {{R|123ª ottava}}
dolor recate e refrigerio insieme,
benché d'alto valor, quella virtute
che vive in voi, non è virtù di seme.
Vien dala bella man la mia salute,
da quella man, che vi distilla e preme,
emula de' begli occhi e del bel viso,
che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.
O bella mano, ond'è che curar vuoi {{R|124ª ottava}}
la piaga del mio piè con tanto affetto?
Forse sol per poter farmene poi
mille più larghe e più profonde al petto?
Fors'è destin, che fuor ch'a' colpi tuoi,
non dee corpo celeste esser soggetto.
La palma, che di me morte non ebbe,
a te sol si concede, a te si debbe.
Ma che più tardo a disvelar quest'ombra, {{R|125ª ottava}}
che tiene il mio splendor di nube cinto?
S'or che le mie bellezze in parte adombra
magica benda, il mio aversario è vinto,
che fia quando ogni nebbia intutto sgombra,
verrà che ceda al vero oggetto il finto? -
Disse e squarciando le fallaci larve,
in propria effigie al giovinetto apparve.
Qual vergine talor semplice e pura {{R|126ª ottava}}
s'avien, ch'astuta mano alzi e discopra
drappo, ch'alcuna in sé sacra figura
effigiata ad arte abbia di sopra,
ma secreta nasconda altra pittura,
di lascivo pennel piacevol opra,
tingendo il bel candor di grana fina,
dal'inganno confusa, i lumi inchina,
tal si smarrisce Adon, quando scoverto {{R|127ª ottava}}
dela dea gli si mostra il lume intero;
e tanto più, pur di sognar incerto,
d'alta confusion colma il pensiero,
perché conosce espressamente aperto
del sogno suo nela vigilia il vero,
rivedendo colei, che poco dianzi,
rubatrice del cor gli apparve innanzi.
Al bel garzon, che stupefatto resta {{R|128ª ottava}}
veduto il primo aspetto in aria sciolto,
la bella dea discopre e manifesta
in un punto medesmo il core e'l volto:
- Ben mio (dicea) qual meraviglia è questa,
che tra dubbi pensier ti tiene involto?
quel traveder, che ti fa star dubbioso,
fu di mia deità scherzo amoroso.
Or non più mi nascondo. Io mi son quella {{R|129ª ottava}}
per cui d'amore il terzo ciel s'accende;
quella son io, la cui lucente stella
innanzi al sole, emula al sol risplende.
Taccio che dal mio bel, qualunque bella
bella è detta quaggiù, bellezza prende,
taccio che figlia son del sommo padre:
dirò sol ch'amo e che d'Amor son madre.
Quando ben fusse a tua notizia ignoto {{R|130ª ottava}}
quelche t'abbaglia, insolito splendore,
qual è clima sì inospito e remoto,
alma qual'è, che non conosca amore?
Che se pur poco agli altri sensi è noto,
malgrado suo n'ha conoscenza il core.
Se ti piace d'amor dunque il piacere,
dimmi il tuo stato e dammi il tuo volere. -
Sì disse e Pito il persuase e vinse, {{R|131ª ottava}}
ch'entro le labra dela dea s'ascose;
Pito, ministra sua, d'ambrosia intinse
quelle faconde ed animate rose;
Pito in leggiadri articoli distinse
le note accorte e'l bel parlar compose;
Pito dala dolcissima favella
sparse catene ed aventò quadrella.
Fusse la gran soavità di queste {{R|132ª ottava}}
voci, che'l giovenil petto percosse,
o del bel cinto, ond'ella il fianco veste,
pur la virtù miracolosa fosse,
dal dolce suon del ragionar celeste
invaghito il fanciul tutto si mosse;
ma quelche'n lui più ch'altro ebbe possanza,
fu la divina oltramortal sembianza.
Un diadema Ciprigna avea gemmante, {{R|133ª ottava}}
gemme possenti a concitare amore:
v'era la pietra illustre e folgorante,
ch'ha dala luna il nome e lo splendore,
la calamita, ch'è del ferro amante
e l'giacinto, ch'a Cinzio accese il core.
Ma la virtù de' lucidi gioielli
fu nulla appo l'ardor degli occhi belli.
La destra ella gli stese e'l vago lino {{R|134ª ottava}}
scorciò, che nascondea la neve pura,
ond'implicato in un cerchietto fino,
che con mista di gemme aurea scultura
facea maniglia al gomito divino
rigido di barbarica ornatura,
fuss'arte o caso, dilicato e bianco
fece il fuso veder del braccio manco.
Tenea, com'io dicea, le membra belle {{R|135ª ottava}}
appannate d'un vel candido e netto
e, quai d'Adria veggiam donne e donzelle,
infin sotto le poppe ignudo il petto.
Fe' vista allor tra'l seno e le mammelle
voler groppo annodar non ben ristretto
e più leggiadra e più secreta parte
fingendo di coprir, scoverse ad arte.
Mentre languia l'innamorata dea, {{R|136ª ottava}}
Adon con fise ciglia in lei rivolto
tutto rapito a contemplar godea
le meraviglie del celeste volto
e quivi in vista attonito scorgea
il bel del bello in breve spazio accolto.
Fra i detti intanto e fra gli sguardi amore
gli entrò per gli occhi e per l'orecchie al core.
Nel'udir, nel mirar s'accese ed arse {{R|137ª ottava}}
di non sentite ancor fiamme novelle
e del foco del cor l'incendio sparse
su per le guance dilicate e belle.
Inchinò a terra, onestamente scarse,
vergognosetto le ridenti stelle,
poi verso lei con un sospir le volse,
alfin lo spirto in queste voci sciolse:
- O dea cortese, o s'altro è pur fra noi {{R|138ª ottava}}
titol, ch'a maestà tanta convegna,
qual può mai cosa offrir vil servo a voi,
la cui pietà di cotal grazia il degna?
Lo scettro no, poiché ne' regni suoi
povero diredato or più non regna;
la vita no, che da voi dei fatali
il vivere e'l morir pende a' mortali.
Voi siete tal, ch'altri non può mirarvi, {{R|139ª ottava}}
che mirando d'amor non sen'accenda;
ma non può alcuno accendersi ad amarvi,
ch'amando non v'oltraggi e non v'offenda.
Offesa v'è servirvi ed adorarvi,
v'oltraggia uom vil, che cotant'alto intenda,
perché con quel, ch'ogni misura passa,
proporzion non ha scala sì bassa.
Non dee tanto avanzarsi umano ardire, {{R|140ª ottava}}
che presuma d'amar bellezza eterna,
ma curvar le ginocchia e reverire
con devota umiltà chi'l ciel governa.
È ben ver che, qualora entra in desire
d'inferior natura alma superna,
quella bontà, quella virtù sublime
nel'amato suggetto il merto imprime.
Quel merto, ch'esser suol d'amor cagione {{R|141ª ottava}}
in noi mortali, è in voi celesti effetto,
siché, quando alcun dio d'amar dispone
uom terreno e caduco, il fa perfetto;
che, benché disegual sia l'unione,
l'un del'altro però sgombra il difetto;
e d'ogni indignità purgando il vile,
ciò ch'è per sé villan, rende gentile.
Amor di voi m'innamorò per fama {{R|142ª ottava}}
pria ch'a veder vostra beltà giungessi
e da lunge v'amai non men che s'ama
oggetto bel, ch'ingorda vista appressi.
Orché, quanto il mio cor sospira e brama
son condotto a mirar con gli occhi istessi,
e ch'oltre il rimirarvi altro m'è dato,
vo', contentando voi, far me beato.
Quanto darvi mi lice e quanto è mio {{R|143ª ottava}}
vi sacro e del'ardir cheggio perdono.
Se degno son di voi, vostro son io
e se il cor vi fia in grado, il cor vi dono.
Se mendica è la man, ricco è il desio,
siete donna di me più ch'io non sono.
Né fuorché l'amor vostro amar potrei,
né potendo voler, poter vorrei.
Il mio volere al voler vostro è presto {{R|144ª ottava}}
tanto che quasi in me nulla n'avanza.
Lo stato mio, s'a tutti è manifesto,
come a voi di celarlo avrei baldanza?
Mirra, dirollo, il cui nefando incesto
la vergogna rinova ala membranza,
fu la mia genitrice e da colui
che generolla, generato io fui.
Ed or selvaggio cacciator ramingo, {{R|145ª ottava}}
sagittario di damme e di cervette,
l'arco per mio trastullo incocco e stringo
ed impenno la fuga ale saette.
Felice error, che per l'orror solingo
di quest'ombre beate e benedette
fuor di via mi tirò, né ciò mi dole,
poiché perdo una fera e trovo un sole.
Ne' be' vostr'occhi, per cui vivo e moro, {{R|146ª ottava}}
l'anima omai depositar mi piace;
ma perché'l cor sacrificato in loro
già sento già, che'n vivo ardor si sface
e perch'a quella bocca, ov'è'l tesoro
d'amor, non è d'avicinarsi audace,
ecco, con questo bacio, ancorché indegno,
a te, candida mano, io la consegno. -
Ed ella allor: - Che tu ti sia, mia vita, {{R|147ª ottava}}
esperto arcier, saettatore accorto,
altra prova non vo'che la ferita,
che'n mezzo al petto immedicabil porto.
Ma d'aver tal beltà mai partorita,
Mirra, credilo a me, si vanta a torto,
perché fra l'ombre il sol non si produce,
né può la notte generar la luce.
Ella il padre ingannò di notte oscura {{R|148ª ottava}}
e tu porti negli occhi un dì sereno.
Ella di scorza alpestra il corpo indura
e tu più che di latte hai molle il seno.
Ella amara e spiacente è per natura
e tu sei tutto di dolcezza pieno.
Ella distilla lacrimosi umori
e tu fai lagrimar l'anime e i cori.
Sol quelle luci tue rapaci e ladre, {{R|149ª ottava}}
ch'involando da' petti i cori vanno,
parto furtivo di furtiva madre
t'accusan nato e con furtivo inganno.
Or se membra sì belle e sì leggiadre
fur concette di furto e furar sanno
non ti meravigliar, se voglio anch'io,
che chi mi fura il cor sia furto mio.
Non pur gli occhi e le mani a tuo talento, {{R|150ª ottava}}
la bocca e'l sen t'è posseder concesso,
ma t'apro il proprio fianco e ti presento
in cambio del tuo core il core istesso.
Vedrai, che quell'amor, ch'al core io sento,
t'ha sculto no, ma trasformato in esso,
ché sei de' miei pensieri unico oggetto
e ch'altro cor che te non ho nel petto. -
Con tai lusinghe il lusinghiero amante {{R|151ª ottava}}
la lusinghiera dea lusinga e prega.
Ella arditetta poi la man tremante
gli stende al collo e dolcemente il lega.
Qui, mentr'Amor superbo e trionfante
l'amoroso vessillo in alto spiega,
strette a groppi di braccia ambe le salme,
ammutiscon le lingue e parlan l'alme.
Dolce de' baci il fremito rimbomba {{R|152ª ottava}}
e, furandone parte invido vento,
degli assalti d'amor sonora tromba,
per la selva ne mormora il concento;
a cui la tortorella e la colomba
rispondono pur con cento baci e cento.
Amor de' furti lor dal vicin speco,
occulto spettator, sorrise seco.
Fu così stretto il nodo, onde s'avinse {{R|153ª ottava}}
l'aventurosa coppia e sì tenace,
che non più forte vite olmo mai strinse,
smilace spina o quercia edra seguace.
Vaga nube d'argento ambo ricinse,
quivi gli scorse e chiuse Amor sagace,
la cui perfidia vendicando l'onta
con mille piaghe una sferzata sconta.
La bella dea, che'nsanguinò la rosa, {{R|154ª ottava}}
benché trafitta il sen di colpo acerbo,
contro il figliuol non si mostrò sdegnosa
per non farlo più crudo e più superbo;
ma premendo nel cor la piaga ascosa,
si morse il dito e disse: - Io tela serbo.
Per questa volta con l'altrui cordoglio
tanta mia gioia intorbidar non voglio. -
Poi le luci girando al vicin colle, {{R|155ª ottava}}
dov'era il cespo, che'l bel piè trafisse,
fermossi alquanto a rimirarlo e volle
il suo fior salutar pria che partisse;
e vedutolo ancor stillante e molle
quivi porporeggiar, così gli disse:
- Salviti il ciel da tutti oltraggi e danni,
fatal cagion de' miei felici affanni.
Rosa riso d'amor, del ciel fattura, {{R|156ª ottava}}
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del'odorifera famiglia,
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de' fior donna sublime.
Quasi in bel trono imperadrice altera {{R|157ª ottava}}
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora de' giardin, pompa de' prati, {{R|158ª ottava}}
gemma di primavera, occhio d'aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il sole {{R|159ª ottava}}
di trionfar fra le minori stelle,
ch'ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie, {{R|160ª ottava}}
di te fia'l sole e tu del sole amante.
Ei de l'insegne tue, dele tue spoglie
l'Aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne' crini e nele foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno
porterai sempre un picciol sole in seno.
E perch'a me d'un tal servigio ancora {{R|161ª ottava}}
qualche grata mercé render s'aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual donna più bella il mondo onora
io vo' che tanto sol bella sia detta,
quant'ornerà del tuo color vivace
e le gote e le labra. - E qui si tace.
Il palagio d'Amor ricco e pomposo {{R|162ª ottava}}
da quel bosco lontan non era guari,
ma di ciò che tenea nel grembo ascoso
degni giamai non fece occhi vulgari.
Non molto andar, che di fin or squamosi
vider lampi vibrar fulgidi e chiari
il tetto, onde facea mirabilmente
l'edificio sublime ombra lucente.
Quella casa magnifica, che raro {{R|163ª ottava}}
al'altrui vista i suoi secreti aperse,
al novo comparir d'oste sì caro
quanto di bello avea tutto gli offerse;
e non sol di quel loco illustre e chiaro
la gloria incomparabile scoverse,
ma l'attuffò nel pelago profondo
di quante ha gioie e meraviglie il mondo.
Nela torre primiera a destra mano {{R|164ª ottava}}
entrando il bell'Adon le piante mosse
e si trovò dentro un cortile estrano,
il più ricco, il più bel, che giamai fosse.
Quadro è il cortile e spazioso e piano
ed ha di pietre il suol candide e rosse.
Par che'l pavese un tavolier somigli
scaccheggiato a quartier bianchi e vermigli.
Torreggiante nel mezzo ampia e sublime {{R|165ª ottava}}
sorge lumaca, onde si scende e poggia.
Quattr'archi, ch'escon fuor dele sue cime,
fanno una croce, ch'ai balcon s'appoggia,
a cui congiunte son le stanze prime,
onde scorrer si può di loggia in loggia,
sì ch'una scala abbraccia e signoreggia
per quattro corridoi tutta la reggia.
Ne' quattro quarti intorno, onde il cortile {{R|166ª ottava}}
dala croce diviso si comparte,
havvi intagliate da scarpel fabrile
quattro illustri fontane, una per parte,
di lavor sì stupendo e sì sottile,
che ben si scorge che divina è l'arte.
Due d'alabastro e d'agata scolpite,
una di corniola, una d'ofite.
Nettuno è in una, in atto effigiato {{R|167ª ottava}}
di ferir col tridente un scoglio alpino
e ne fa scaturir per ogni lato
fiume d'acqua lucente e cristallino.
Sta sovra un nicchio da delfin tirato,
vomita ancor cristallo ogni delfino.
Quattro tritoni intorno in mille rivi
versan per le lor trombe argenti vivi.
Nel'altra entr'una pila incisi e scolti, {{R|168ª ottava}}
ch'a colonnetta picciola fa tetto,
stan tergo a tergo l'un l'altro rivolti
Piramo e Tisbe con la spada al petto;
e spruzzan fuor molti ruscelli e molti
per la piaga mortal di vino schietto,
onde viene a cader per doppia canna
dentro il vaso maggior purpurea manna.
Tien l'altra fonte in una conca tonda {{R|169ª ottava}}
seno a seno congiunto e bocca a bocca
Ermafrodito insu la fresca sponda,
che la bella Salmace abbraccia e tocca
ed a questa ed a quello in guisa d'onda
dale membra e da' crini ambrosia fiocca
e su i lor capi una grand'urna piena
piove nettare puro in larga vena.
La quarta esprime Amor, che sovra un sasso {{R|170ª ottava}}
quasi dormendo si riposa in pace.
Le Grazie sotto lui stan più da basso,
come per custodir l'arco e la face.
Sparge balsamo fuor per lo turcasso
l'orbo fanciul, che sonnacchioso giace;
e l'amorose sue vaghe donzelle
stillan l'istesso umor per le mammelle.
Per l'alloggio d'Adon tra quelle mura {{R|171ª ottava}}
va in volta la sollecita famiglia;
ma mentreché la dea minuta cura
degli affa͔ri domestici si piglia,
col figlio a risguardar l'alta struttura
in disparte il garzon trattien le ciglia;
e chi sia dela fabbrica che vede,
il possessor, l'abitator, gli chiede.
- Questo (con un sospiro Amor risponde) {{R|172ª ottava}}
che cotante in sé chiude opre sublimi,
è il mio diletto albergo ed ho ben donde
pregiarlo sì, che sovra'l ciel lo stimi.
Qui già le dolci mie piaghe profonde,
qui, lasso, incominciar gl'incendi primi,
qui per colei, che preso ancor mi tiene,
fu il principio fatal dele mie pene.
Non creder tu che libera se n'vada {{R|173ª ottava}}
dale forze amorose alma divina,
ch'a bramar quel piacer, che tanto aggrada,
forte desir naturalmente inclina.
Ch'a questa legge sottogiaccia e cada
anco il re de' celesti, il ciel destina.
Ed io pur io, dala cui mano istessa
piove gioia e dolor, passai per essa.
Non restai di languir, perch'io possegga {{R|174ª ottava}}
la face eterna, insuperabil dio,
e tratti l'arco onnipotente e regga
gli elementi e le stelle a voler mio.
E se m'ascolterai, vo' che tu vegga,
che fui dal proprio stral ferito anch'io
e che del proprio foco acceso il core
ed arse e pianse innamorato Amore. -
Così l'arcier, che di Ciprigna nacque, {{R|175ª ottava}}
venia di Mirra al bel figliuol parlando;
e perch'assai d'udirlo ci si compiacque,
ale sue note attenzion mostrando,
il dir riprese e, poich'alquanto tacque,
non però già di passeggiar lasciando,
nel grazioso Adon gli occhi converse
e'n più lungo parlar le labra aperse.
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