Agamennone (Alfieri, 1946)/Atto primo: differenze tra le versioni

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Atto primo

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Personaggi Atto secondo


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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Egisto.

A che m’insegui, o sanguinosa, irata

dell’inulto mio padre orribil ombra?
Lasciami,... va;... cessa, o Tieste; vanne,
le Stigie rive ad abitar ritorna.
Tutte ho in sen le tue furie; entro mie vene
scorre pur troppo il sangue tuo: d’infame
incesto, il so, nato al delitto io sono:
né, ch’io ti veggia, a rimembrarlo è d’uopo.
So che da Troja vincitor superbo
riede carco di gloria in Argo Atride.
Io quí l’aspetto, entro sua reggia: ei torni;
sará il trionfo suo breve, tel giuro.
Vendetta è guida ai passi miei: vendetta
intorno intorno al cor mi suona; il tempo
se n’appressa; l’avrai: Tieste, avrai
vittime quí piú d’una; a gorghi il sangue
d’Atréo berai. Ma, pria che il ferro, l’arte
oprar conviemmi: a re possente incontro,
solo ed inerme sto: poss’io, se in petto
l’odio e il furor non premo, averne palma?

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SCENA SECONDA

Egisto, Clitennestra.

Cliten. Egisto, ognora a pensier foschi in preda

ti trovo, e solo? Tue pungenti cure
a me tu celi, a me?... degg’io vederti
sfuggendo andar chi sol per te respira?
Egisto Straniero io sono in questa reggia troppo.
Tu mi v’affidi, è vero; e il piè mai posto
io non v’avrei, se tu regina in seggio
quí non ti stavi: il sai, per te ci venni;
e rimango per te. Ma il giorno, ahi lasso!
giá giá si appressa il giorno doloroso,
in cui partir tu men farai,... tu stessa.
Cliten. Io? che dicesti? e il credi? ah, no! — Ma poco,
nulla vale il giurar; per te vedrai,
s’altro pensier, che di te solo, io serri
nell’infiammato petto.
Egisto   E ancor che il solo
tuo pensiero foss’io, se a me pur cale
punto il tuo onor, perder me stesso io debbo,
e perder vo’, pria che turbar tua pace;
pria che oscurar tua fama, o torti in parte
l’amor d’Atride. Irne ramingo, errante,
avvilito, ed oscuro, egli è il destino
di me prole infelice di Tieste.
Tenuto io son d'infame padre figlio
piú infame ancor, benché innocente: manca
dovizia, e regno, ed arroganti modi,
a cancellare in me del nascer mio
la macchia, e l’onta del paterno nome.
Non d’Atride cosí: ritorna ei fero
distruggitor di Troja; e fia, ch’ei soffra
in Argo mai l’abbominato figlio
dell’implacabil suo mortal nemico?

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Cliten. E, s’ei pur torna, agli odj antichi or fine

posto avranno i suoi nuovi alti trofei:
re vincitor non serba odio a nemico,
di cui non teme.
Egisto   ...È ver, che a niun tremendo
son io, per me; ch’esule, solo, inerme,
misero, odiarmi Agamennón non degna;
ma dispregiar mi puote: a oltraggio tale
vuoi ch’io rimanga? a me il consigli, e m’ami?
Cliten. Tu m’ami, e il rio pensier pur volger puoi
d’abbandonarmi?
Egisto.   Il lusingarti è vano,
regina, omai. Necessitá mi sforza
al funesto pensiero. Il signor tuo,
ove obliar volesse pur le offese
del padre mio, sperar puoi tu ch’ei voglia
dissimulare, od ignorar l’oltraggio,
che all’amor suo si fa? Sfuggir tua vista
io dovria, se qui stessi; e d’ogni morte
vita trarrei peggiore. Al tuo cospetto
s’io venissi talvolta, un solo sguardo,
solo un sospiro anco potria tradirmi:
e allor, che fora? È ver, pur troppo! un solo
lieve sospetto in cor del re superbo
rei ne fa d’ogni fallo. A me non penso,
nulla temo per me; d’amor verace
darti bensí questa terribil prova
deggio, e salvarti con l’onor la vita.
Cliten. Forse, chi sa? piú che nol credi, or lungi
tal periglio è da noi: giá rinnovate
piú lune son, da che di Troja a terra
cadder le mura; ognor sovrasta Atride,
e mai non giunge. Il sai, che fama suona,
da feri venti andar divisa, e spersa,
la greca armata. Ah! giunto è forse il giorno,
che al fin vendetta, ancor che tarda, intera

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della svenata figlia mia darammi.

Egisto E se pur fosse il dí; vedova illustre
del re dei re, tu degneresti il guardo
volgere a me, di un abborrito sangue
rampollo oscuro? a me, di ria fortuna
misero gioco? a me, di gloria privo,
d’oro, d’armi, di sudditi, di amici?...
Cliten. E di delitti; aggiungi. — In man lo scettro
non hai di Atride tu; ma in man lo stile
non hai del sangue della propria figlia
tinto e grondante ancora. Il ciel ne attesto;
nullo in mio cor regnava, altri che Atride,
pria ch’ei dal seno la figlia strapparmi
osasse, e all’empio altar vittima trarla.
Del dí funesto, dell’orribil punto
la mortal rimembranza, ognor di duolo
m’empie, e di rabbia atroce. Ai vani sogni
di un augure fallace, alla piú vera
ambizíon d’un inumano padre,
vidi immolare il sangue mio, sottratto
di furto a me, sotto mentita speme
di fauste nozze. Ah! da quel giorno in poi,
fremer di orror mi sento al solo nome
d’un cotal padre. — Io piú nol vidi; e s’oggi
al fin Fortuna lo tradisse...
Egisto   Il tergo
mai non fia che rivolga a lui Fortuna,
per quanto stanca ei l’abbia. Essa del Xanto
all’onde il mena condottier de’ Greci;
piú che virtú, fortuna, ivi d’Achille
vincer gli fa la non placabil ira,
e d’Ettorre il valore: essa di spoglie
ricondurrallo altero e pingue in Argo.
Gran tempo, no, non passerá, che avrai
Agaménnone a fianco; ogni tuo sdegno
spegner saprá ben ei: pegni v’avanza

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del vostro prisco amore, Elettra, Oreste;

pegni a pace novella: al raggiar suo
dileguerassi, come al sole nebbia,
il basso amor che per me in petto or nutri.
Cliten. ...Mi è cara Elettra, e necessario Oreste,...
ma, dell’amata Ifigenía spirante
mi suona in cor la flebil voce ancora:
l’odo intorno gridare in mesti accenti:
ami tu madre, l’uccisor mio crudo?
Non l’amo io, no. — Ben altro padre, Egisto,
stato saresti ai figli miei.
Egisto   Potessi,
deh, pure un dí nelle mie man tenerli!
Ma, tanto mai non spero. — Altro non veggio
nell’avvenir per me, che affanni, ed onta,
precipizj, e rovina. Eppur quí aspetto
il mio destin, qual ch’egli sia; se il vuoi.
Io rimarrò, finché il periglio è mio;
se tuo divien, cader vittima sola
ben io saprò di un infelice amore.
Cliten. Indivisibil fare il destin nostro
saprò ben io primiera. Il tuo modesto
franco parlar vieppiú m’infiamma: degno
piú ognor ti scorgo di tutt’altra sorte. —
Ma Elettra vien; lasciami seco: io l’amo;
piegarla appieno a tuo favor vorrei.


SCENA TERZA

Elettra, Clitennestra.

Elet. Madre, e fia ver, che il rio nostro destino

a tremar sempre condannate ci abbia;
e a sospirar, tu il tuo consorte, invano,
io ’l genitore? A noi che giova omai
l’udir da sue radici Troja svelta,

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se insorgon nuovi ognor perigli a torre

che il trionfante Agamennón quí rieda?
Cliten. Si accerta dunque il grido, che dispersi
vuole, e naufraghi, i legni degli Achei?
Elet. Fama ne corre assai diversa in Argo:
v’ha chi fin dentro al Bosforo sospinte
da torbidi austri impetuosi narra
le navi nostre: altri aver viste giura
su queste spiagge biancheggiar lor vele:
e pur troppo anco v’ha chi afferma infranta
la regal prora ad uno scoglio, e tutti
sommersi quanti eran sovr’essa, insieme
col re. Misere noi!... Madre, a chi fede
prestare omai? come di dubbio trarci?
come cessar dal rio timore?
Cliten.   I feri
venti, che al suo partir non si placaro
se non col sangue, or nel ritorno forse
vorran col sangue anco placarsi. — Oh figli!
quanto or mi giova in securtá tenervi
al fianco mio! per voi tremare almeno,
come giá son due lustri, oggi non deggio.
Elet. Che sento? e ancor quel sagrificio impresso
nel cor ti sta? terribile, funesto,
ma necessario egli era. Oggi, se il cielo
chiedesse pur d’una tua figlia il sangue;
oggi, piena di gioja, all’ara io corro;
io; per salvare a te il consorte, ai Greci
il duce, ad Argo il suo regal splendore.
Cliten. So, che il padre t’è caro: amassi tanto
la madre tu!
Elet.   V’amo del par: ma in duro
periglio è il padre;... e nell’udir sue crude
vicende, oimè! non ch’io pianger ti vegga,
né cangiar pur veggo il tuo aspetto? O madre,
lo amassi tu quant’io!...
Cliten.   Troppo il conosco.

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Elet. Che dici? oh ciel! cosí non favellavi

di lui, piú lune addietro. Ancor trascorso,
da che fean vela i Greci, intero un lustro
non era, e sospirar di rivederlo
ogni dí pur t’udiva io stessa. A noi
narrando andavi le sue imprese; in esso
tutta vivevi, e ci educavi in esso:
di lui parlando, io ti vedea la guancia
rigar di amare lagrime veraci...
Piú nol vedesti poscia; egli è qual s’era:
diversa tu fatta ti sei, pur troppo;
ah! sí, novella havvi ragion, che il pinge
agli occhi tuoi da quel di pria diverso.
Cliten. Nuova ragion? che parli?... Inacerbito
contr’esso il cor sempr’ebbi... Ah! tu non sai...
Che dico?... O figlia, i piú nascosi arcani
di questo cor, s’io ti svelassi...
Elet.   Oh madre!
Cosí non li sapessi!
Cliten.   Oimè! che ascolto?
Avria fors’ella penetrato?...
Elet.   Avessi
penetrato il tuo cor io sola almeno!
Ma, nol sai tu, che di chi regna ai moti
veglian maligni, intensi, invidi, quanti
gli stan piú in atto riverenti intorno?
Omai tu sola il mormorar del volgo
non odi; e credi che ad ogni uom nascoso
sia ciò, che mal nascondi, e che a te sola
dir non si ardisce. — Amor t’acceca.
Cliten.   Amore?
Misera me! chi mi tradia?...
Elet.   Tu stessa,
gran tempo è giá. Dal labro tuo non deggio
di cotal fiamma udire: il favellarne
ti costeria pur troppo. O amata madre,
che fai? Non credo io, no, che ardente fiamma

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il cor ti avvampi: involontario affetto

misto a pietá, che giovinezza inspira
quando infelice ell’è; son questi gli ami,
a cui, senza avvedertene, sei presa.
Di te finor chiesto non hai severa
ragione a te: di sua virtú non cadde
sospetto in cor conscio a se stesso; e forse
loco non ha: forse offendesti appena,
non il tuo onor, ma del tuo onor la fama:
e in tempo sei, ch’ogni tuo lieve cenno
sublime ammenda esser ne può. Per l’ombra
sacra, a te cara, della uccisa figlia;
per quell’amor che a me portasti, ond’io
oggi indegna non son; che piú? ten priego
per la vita d’Oreste: o madre, arrétra,
arrétra il pié dal precipizio orrendo.
Lunge da noi codesto Egisto vada:
fa che di te si taccia; in un con noi
piangi d’Atride i casi: ai templi vieni
il suo ritorno ad implorar dai Numi.
Cliten. Lungi Egisto?
Elet.   Nol vuoi?... Ma il signor tuo,
mio genitor, tradito esser non merta;
né il soffrirá.
Cliten.   Ma; s’ei... piú non vivesse?...
Elet. Inorridir, raccapricciar mi fai.
Cliten. Che dico?... Ahi lassa?... Oimè! che bramo? — Elettra,
piangi l’error di traviata madre,
piangi, che intero egli è. La lunga assenza
d’un marito crudel,... d’Egisto i pregj,...
il mio fatal destino...
Elet.   Oh ciel! che parli?
D’Egisto i pregj? Ah! tu non sai qual sia
d’Egisto il core: ei di tal sangue nasce,
che in lui virtude esser non può mai vera.
Esule, vil, d’orrido incesto figlio;
in tuo pensier tal successor disegni

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al re dei re?

Cliten.   Ma, e chi son io? Di Leda
non son io figlia, e d’Elena sorella?
Un sangue stesso entro mie vene scorre.
Voler d’irati Numi, ignota forza
mal mio grado mi tragge...
Elet.   Elena chiami
ancor sorella? Or, se tu il vuoi, somiglia
Elena dunque: ma di lei piú rea
non farti almeno. Ella tradia il marito,
ma un figlio non avea: fuggí; ma il trono
non tolse al proprio sangue. E tu, porresti,
non pur te stessa, ma lo scettro, i figli,
nelle man d’un Egisto?
Cliten.   Ove d’Atride
priva il destin pur mi volesse, o figlia,
non creder giá che Oreste mio del seggio
privar potessi. Egisto, a me consorte,
re non saria perciò; saria d’Oreste
un nuovo padre, un difensore...
Elet.   Ei fora
un rio tiranno; dell’inerme Oreste
nemico; e forse (ahi, che in pensarlo agghiaccio!)
l’uccisor ne sarebbe. O madre, il figlio
affideresti a chi ne ambisce il trono?
Affideresti di Tieste al figlio
il nepote d’Atréo?... Ma, invano io varco
teco il confin del filíal rispetto.
Giova a entrambe sperar, che vive Atride;
il cor mel dice. Ogni men alta fiamma
fia spenta in te, solo in vederlo: ed io,
qual figlia il dee pietosa, in petto sempre
premer ti giuro l’importante arcano.
Cliten. Ahi me infelice! Or ne’ tuoi detti il vero
ben mi traluce: ma sí breve un lampo
di ragion splende agli occhi miei, ch’io tremo.