La Tebaide/Libro secondo: differenze tra le versioni

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{{Qualità|avz=75%|data=22 maggio 2008|arg=Poemi}}{{Intestazione letteratura
|Nome e cognome dell'autore=Publio Papinio Stazio
|Titolo=La Tebaide
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{{capitolo
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|NomePaginaCapitoloPrecedente=La Tebaide/Libro primo
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<center>''ETEOCLE RICUSA DI OSSERVAR I PATTI''</center><br/>
 
<poem>
Il veloce di Maia alato figlio
tornava intanto da le gelid'ombre,
eseguito di Giove il gran decreto.
Fangli ritardo al piè, ritardo al volo
{{R|5}}le dense nubi e 'l torbid'aer fosco;
nè lo portano i Zeffiri volanti,
ma di quel muto ciel l'aura maligna:
gli attraversan le strade i fiumi ardenti,
e Stige rea, che nove campi cinge.
{{R|10}}Lo siegue con infermo e tardo passo
la pallida di Laio ombra tremante:
dal ferro parricida egli ancor porta
trafitto il petto, ed altamente impresso
lo primo sdegno de le Furie ultrici;
{{R|15}}pur va, ed appoggia a debil legno il fianco.
Ne stupiscono l'ombre, e i boschi e i campi
d'Inferno; e il suol, che s'apre e fuor li manda,
d'essersi aperto meraviglia prende.
Ma il livor, che in se stesso i denti volge,
{{R|20}}turba gli spirti ancor privi di luce,
e del suo rio velen tutti gl'infetta:
ed un fra gli altri, cui vivendo increbbe
de l'altrui bene e s'allegrò ne' mali,
nè può patir che Laio ora sen torni
{{R|25}}a vagheggiar la luce, i sensi amari
del cuor palesa con maligni accenti.
- Oh te felice, a qualunque opra eletta,
alma, che torni al chiaro aer sereno!
O così Giove il voglia, o te rimeni
{{R|30}}Tesifone crudele infra i mortali,
o te richiami da l'oscuro avello
Tessala maga con la bocca immonda.
Tu pur vedrai del sole e de le stelle
la vaga luce, e i verdeggianti campi,
{{R|35}}e i puri fonti e i cristallini fiumi:
tanto misera più, quanto fra noi
hai da tornar ne le ciec'ombre eterne. -
Sentilli intanto Cerbero, e rizzossi,
e le tre bocche aprendo e le tre gole
{{R|40}}orrende, mandò fuori urli e latrati.
Già prima ancora minacciando stava
l'alme scendenti a le tartaree porte;
ma con la fatal verga in Lete immersa
toccollo il Nume, e de le orrende fronti
{{R|45}}in grave sonno le sei luci chiuse.
È un monte ne l'Inachia, ove s'estolle
il capo di Malea, Tenaro detto,
sublime sì che non vi giunge il guardo:
alza la fronte al cielo, e ognor sereno
{{R|50}}mira sotto di sè le nebbie, e sprezza
e la grandine e i turbini sonori.
Le risplendenti stelle e i venti lassi
su lui prendon riposo e fan soggiorno:
giunger ben ponno a la metà del monte
{{R|55}}le oscure nubi, ma a l'eccelso giogo
salir non può presto volar di penne,
nè i rauchi tuoni o le saette ardenti:
ma là, dove l'Egeo gli bagna il piede,
curva in arco gli scogli, e un porto forma.
{{R|60}}Ivi quando a la sera il dì s'appressa,
e del monte nel mar l'ombra è maggiore,
scende Nettun dal carro, e i destrier scioglie.
Hanno i destrier la fronte e il largo petto
qual hanno i nostri, e il deretano è pesce.
{{R|65}}In cotal luogo antica fama suona,
che s'apra obliqua e tenebrosa via,
per cui le pallid'ombre e il vulgo esangue
scendon dolenti a le tartaree porte,
il regno a popolar del nero Giove.
{{R|70}}E se diam fede agli arcadi coloni,
suonan per molte miglia i campi intorno
d'urli e di pianti e di stridor di denti.
Sovente udite fur nel pieno giorno
le voci de l'Eumenidi spietate,
{{R|75}}e le sferze e i flagelli, ed i latrati
del Can trifauce; onde lasciaro inculti
gli sbigottiti agricoltori i solchi.
Per questa strada il messaggero alato
tra la densa caligine ritorna
{{R|80}}al chiaro giorno, e giù dal crin scotendo
l'infernal nebbia, il puro aer respira.
Indi alto va su le cittadi e i campi
verso l'Arturo, ed in quell'ora appunto
che a mezzo del cammin Cintia risplende.
{{R|85}}Il Sonno intanto de la Notte il carro
guidava e i destrier foschi; e com'ei vide
il nume, alzossi ed onorollo, e torse
dal cammin dritto, a lui cedendo il passo.
Vola più sotto del Tebano l'ombra,
{{R|90}}e rivagheggia le perdute stelle,
il patrio cielo e il suo terren natio.
E già di Cirra trapassati i gioghi
e Focida di Laio ancor aspersa
del fresco sangue, erano giunti a Tebe.
{{R|95}}Fremè l'ombra superba in su le soglie
de' patrii Lari, e fu a l'entrar restia:
ma poich'entrato, le sue spoglie vide
pender da le colonne, e il carro, ov'egli
ucciso fu, tutto sanguigno e lordo,
{{R|100}}poco mancò che non volgesse il piede,
non curato di Giove il sommo impero,
e 'l gran poter del caduceo fatale.
Ricorreva in quel tempo il dì festivo
segnato già dal fulmine di Giove,
{{R|105}}allor che Bacco non maturo ancora
fu dal materno incenerito seno
tratto, e riposto nel paterno fianco
a terminar di nove lune il corso.
Perciò passata avean l'intera notte
{{R|110}}senza dormire i popoli feroci
che vennero da Tiro, e in feste e in giuochi
sparsi pe' i tetti e per li verdi campi,
cinti d'edera il crine, e di già vuote
le tazze e i vasi del miglior Lieo,
{{R|115}}gían esalando su la nuova luce
da l'anelante petto il Dio giocondo.
S'udian per tutto rimbombare i vuoti
bossi, e di bronzo i timpani sonanti:
e il Nume, il Nume stesso iva cacciando
{{R|120}}le non feroci donne in su 'l Citero,
le mani armate d'innocenti tirsi.
Siccome là sul Rodope gelato
i crudi Traci a fier convito uniti
di semivive carni e de le prede
{{R|125}}tratte di bocca de' leoni ingordi,
pascon la dura fame; e il puro latte
condisce in parte il sanguinoso pasto,
e di lor mense è sol delizia e lusso;
se del teban liquor senton a caso
{{R|130}}l'odore e il gusto, di furor accesi
lanciansi e tazze e vasi, e alfin le pietre,
e poi di sangue ancor stillanti e molli
tornano a desco a rinnovar le feste:
Tal fu la notte ch'entro Tebe giunse
{{R|135}}l'ombra sdegnosa e 'l messaggero alato.
Invisibili entrâr per l'aria cheta,
ove il signor de l'echionia plebe
alto giacea sovra i tappeti assiri
d'oro e porpora intesti. Oh de' mortali
{{R|140}}de l'avvenir non consapevol mente!
Ei le mense ha dinanzi, e dorme e posa,
e 'l suo destino ignora. Allora l'Ombra
s'accinge a l'opra; e per celar le larve
l'oscuro volto di Tiresia finge
{{R|145}}e 'l parlar noto; ma il canuto crine,
e la sua lunga barba e il suo pallore
veri ritiene: l'infula, le bende
d'oliva intorte son sembianze vane,
ed è vana la voce; e pur ei sembra,
{{R|150}}che la man stenda, e con la sacra verga
gli tocchi 'l petto, e il suo destin gli scopra.
- Tu dormi, o Re? Ma non è questo il tempo
di riposar su l'ozïose piume,
senza sospetto aver del tuo germano.
{{R|155}}Gran nembo ti sovrasta, e gravi cure
te richiaman dal sonno; e neghittoso
ten stai, come nocchier che 'n mar turbato,
commosso intorno da rabbiosi venti,
lasci 'l timone, e s'addormenti e posi?
{{R|160}}Ma già non dorme il tuo fratel, superbo
per nuove nozze; e (come fama suona)
genti accoglie e soccorsi, ed a te il regno,
per non renderlo poi, ritoglier pensa,
ed invecchiar ne la natia sua corte.
{{R|165}}La dote d'Argo e 'l suocero fatale
gli aggiungon forza; e seco unito è in lega
Tideo macchiato del fraterno sangue.
Giove, di te mosso a pietà, da l'alto
a te mi manda: Egli per me t'impone
{{R|170}}che 'l germano crudel, che te dal regno
escluder tenta, tu dal regno escluda,
e renda vani i suoi pensier funesti,
e 'l desio c'ha de la fraterna morte.
Tu non soffrir che ad Argo ed a Micene
{{R|175}}serva divenga la guerriera Tebe. -
Disse; e perchè già la novella luce
a l'Inferno il respinge, il finto aspetto
lascia, e del crin le simulate bende
spoglia, e al nipote manifesta l'avo:
{{R|180}}poi sovra il letto se gli stende, e aperta
mostra l'immensa piaga, e lui, che dorme,
del sangue, che non ha, tutto ricopre.
Quegli allor lascia il sonno, e in terra sbalza
da l'alto letto pien di larve e mostri,
{{R|185}}e 'l vano sangue da sè scuote, e sente
orror de l'avo, e già 'l fratel ricerca.
Come de' cacciatori al corso e al grido
la tigre arruffa la macchiata pelle,
apre le irate fauci, e l'unghie spiega
{{R|190}}e a battaglia s'appresta: indi si lancia
nel folto stuolo, e vivo uno ne prende,
ed alto il porta a satollar la fame
de' crudi figli: in cotal guisa acceso
d'ira Eteócle incrudelisce e sbuffa,
{{R|195}}e col fratello in suo pensier guerreggia.
Ma già lasciando di Titone il letto
sorgea l'Aurora, e dileguava intorno
l'umid'ombre notturne, e da le chiome
giù stillava rugiade, e rosseggiante
{{R|200}}era, ed accesa dal vicino Sole.
Dinanzi a lei Lucifero il destriero
in tarda fuga volge, e tardi spegne
la vaga face, e 'l ciel non suo le cede,
perfin che Febo, il gran signor de' lumi,
{{R|205}}rischiari il mondo e la germana oscuri.
A lo spuntar del dì lascian le piume
il vecchio Adrasto ed il teban guerriero
e 'l calidonio eroe. Dopo la pugna
e l'orrida procella aveva il sonno
{{R|210}}da tutto il corno su gli eroi stranieri
versata a piena man l'onda letea.
Ma l'Inachio signor, che in mente ha fissi
gli augurii e i Numi e 'l nuovo ospizio, e pensa
qual sia il destin de' generi fatali,
{{R|215}}breve goduta avea pace e riposo.
Giunti che furo del real palagio
ne la gran sala, si toccâr le destre.
Allora Adrasto in più rimota parte,
ove soleva i più segreti e gravi
{{R|220}}affar del regno consultar, guidolli,
e assisi in cerchio, agli ospiti sospesi,
e che pendean da lui, tai detti sciolse:
- Certo non senza de gli Dei mistero,
giovani eccelsi, vi guidò la notte
{{R|225}}entro a' miei regni, e 'l procelloso nembo
e i fulmini di Giove. Apollo istesso,
Apollo a i tetti miei drizzovvi il passo.
A voi, cred'io, come a la greca gente
è noto già con quanti studi e voti
{{R|230}}stuolo d'illustri Proci a me le nozze
chiedano de le figlie. (A me due figlie
crescon sotto felice ed ugual stella
de' futuri nipoti unica speme).
Quale modestia in lor, qual sia beltade,
{{R|235}}voi vel vedeste; non si creda al padre.
Queste cercano a prova i Regi invitti
grandi per armi e per impero. Io taccio
i Proceri Laconi e i Foronei,
e quante madri le bramâr per nuore:
{{R|240}}non il tuo Eneo tanti sprezzò mariti
a la sua figlia, nè il pisan crudele
tanti ne uccise co i cavai veloci.
Ma d'Elide o di Sparta il Fato nega
che i generi io mi scelga; e a voi destina
{{R|245}}con lung'ordin di cose il sangue mio,
le dolci figlie, e questo trono e il regno.
Sien grazie a i Numi: io pur vi veggio quali
per stirpe e per valore a me conviene,
e fur lieti gli augurii: a tanto onore
{{R|250}}i procellosi nembi vi guidaro,
e questa è al sangue vostro alta mercede. -
Qui tacque Adrasto; e si miraro in viso
i guerrier, quasi l'uno a l'altro voglia
ceder de la risposta il primo onore.
{{R|255}}Ma Tideo impazïente alfin proruppe:
- O quanto parcamente a noi favelli,
buon re, de le tue lodi! O quanto vinci
con la virtù la tua fortuna! Adrasto
a chi cede d'impero? Ed a chi ignoto
{{R|260}}è omai che tu dal tuo primiero soglio
di Sicïon fosti chiamato, i rozzi
costumi a raddolcir de' fieri Argivi?
Ed oh così in tua man Giove ponesse
quanto l'Istmo riserra, e quanto abbraccia
{{R|265}}di qua, di là con due diversi mari!
Non fuggirebbe da Micene il sole,
per non veder le scelerate mense;
nè gemerebbe la campagna elea
sotto i sanguigni carri; e l'empie Dire
{{R|270}}non turberian più regni: e ben lo prova
or Polinice, e a gran ragion sen duole.
Noi accettiamo il dono, e tu disponi,
buon Re, di noi, chè ne fia legge il cenno.
Così diss'egli; ed il Teban soggiunse:
{{R|275}}- E chi può ricusar suocero Adrasto?
Noi, quantunque l'esilio a noi men grata
Venere renda, in te posiam le cure,
e le sgombriamo da gli afflitti petti,
il dolor nostro convertendo in gioia.
{{R|280}}Così nocchier respira e si rallegra,
che scopre il lido amico e il vicin porto.
Or giovi a noi sotto i tuoi fausti auspicii
in tua corte passar quanto ne avanza
di vita, e in te ripor le nostre sorti. -
{{R|285}} Sorsero allora, e s'abbracciaro: Adrasto
rinnovò i giuramenti e le promesse
di ricondurli ne i paterni regni.
Tutt'Argo è in festa, e da per tutto il grido
si sparge de i due generi novelli;
{{R|290}}che a l'uno Argia, a l'altro il Re destina
Deifile non men vaga e vezzosa,
già mature a i legitimi imenei.
La Fama intanto ne divulga il suono
per le cittadi amiche, e per li regni
{{R|295}}e prossimi e rimoti, oltre le selve
di Licia e di Partenia, e là ne i campi
de l'ondosa Corinto, e infin penétra
la Dea maligna ne l'Ogigia Tebe,
e di sè tutta la riempie intorno.
{{R|300}}Narra gli ospizi, i giuramenti, i patti,
le nuove nozze, e ciò che vide in sogno
il Re conferma, e la commuove e turba.
Chi tanta libertà, tanto furore
concesse a questo mostro? Ei già la guerra
{{R|305}}minaccia, e di discordia alza la face.
Ma già risplende in Argo il dì festivo
destinato a le nozze: i regii tetti
s'empion di lieta e festeggiante turba.
Bello è il veder le immagini de gli avi
{{R|310}}spirar ne i bronzi tanto al ver simíli,
che l'arte reca a la natura oltraggio.
Inaco re con le due corna in fronte
mirasi in fianco riposar su l'urna;
seguono appresso lui Jaso canuto,
{{R|315}}e Foroneo legislatore, e il forte
guerriero Abante; e Acrisio ancor sdegnoso
d'aver genero Giove; e 'l buon Corebo
col ferro in pugno, de la fiera uccisa
alto portando il formidabil teschio;
{{R|320}}e la torva di Danao austera immago,
che sta pensosa ancor sul gran delitto;
poscia mill'altri Regi. Intanto accorre
il vulgo, e tutto il gran palagio inonda.
Ma i senator ne i gradi lor distinti,
{{R|325}}chi presso e chi lontano al Re fan cerchio.
Dentro risuonan le più interne celle
di femminil tumulto, e a' sacri altari
ardon gl'incensi, e porgon voti a i Numi.
Fanno d'intorno a le reali spose
{{R|330}}casta corona le matrone argive;
e alcuna de le vergini pudiche
rassicura il timore, e le dispone
a le leggi e a i dover de l'imeneo.
Esse sen vanno e d'abito e d'aspetto
{{R|335}}ragguardevoli in vista e maestose,
di modesto rossor tinte le gote,
con gli occhi a terra chini; e sol le turba
di lor verginità l'ultimo amore,
e del loro pudor la prima colpa.
{{R|340}}Scendon da' vaghi lumi alcune stille,
quasi rugiada ad irrigarne i seni.
Il genitor sel vede, e sen compiace.
Tali scendon talor Palla e Diana
dal cielo insieme ambe di dardi armate,
{{R|345}}ambe in volto feroci, i biondi crini
dietro del capo in vago nodo attorti:
l'una da Cinto, d'Aracinto l'altra
guida le vaghe sue leggiadre Ninfe;
se tu le miri (se mirarle lice),
{{R|350}}non sai quale più onori, o quale appaia
più vaga, o qual sia più di grazie adorna;
e se tra lor con egual cambio l'armi
volessero mutar, ben converrebbe
a Palla la faretra, a Cintia l'elmo.
{{R|355}} Intanto il popol d'Argo in ogni tempio,
ciascun secondo il suo potere, a i Numi
fan sacrifici: altri di grassi tori,
altri d'agnelle, altri di puro incenso;
nè son graditi men, s'è il cor divoto.
{{R|360}}Quand'ecco strano e subito spavento
(così volea la Parca) il lieto giorno
turba, e tutto d'orror riempie il padre.
Givan al tempio le due vaghe spose,
fra lieta turba e mille faci ardenti,
{{R|365}}de la casta Minerva, a cui Larissa
più grata è assai de' suoi Munichii colli.
Ivi solean le verginelle argive,
destinate a le nozze, a la gran Dea
le primizie libar de i vaghi crini,
{{R|370}}e scusa far de' talami novelli.
Ora mentre salian lieti e festivi
per gli alti gradi al tempio, il grave scudo
de l'arcadico Evippo al tetto appeso
giù d'improvviso rovinando cadde,
{{R|375}}e le faci e le tede e il sacro fuoco
del tutto spense; e rauco suon di tromba
da i sotterranei uscì, che di spavento
d'empier finì gli sbigottiti Argivi.
Tutti guardano il Re, che non dà segno
{{R|380}}di tema; allor l'adulatrice turba
nega d'avere il tristo augurio udito,
ma lo riserba in mente, e sen discorre
per tutto, ed il terror cresce parlando.
Ma che stupor? Se dal tuo collo pende
{{R|385}}il fatale d'Harmonia empio monile,
dono del tuo consorte, o bella Argia?
Lungo, ma noto è l'ordine de' mali
de l'infausto monile, e pur mi giova
tutta narrarne la dolente istoria.
{{R|390}}Dacchè Vulcan ne la nascosa rete
prese l'infida sposa e 'l fiero drudo,
nè però vide a sè cessar lo scorno,
nè le insidie di Marte; ei si dispose
in sembianza di dono a far vendetta
{{R|395}}ne l'innocente lor misera figlia.
Impiegò tosto nel feral lavoro
i suoi Ciclopi e i tre Telchini infami,
ed ei più d'altri faticò ne l'opra:
ei v'inserì molti smeraldi ardenti
{{R|400}}d'occulta luce, e più diamanti impressi
d'immagini funeste, e del Gorgone
gli occhi maligni, e il cener su l'incude
avanzato de i fulmini celesti,
e de i dragon le squamme, e l'oro infausto
{{R|405}}de i pomi de l'Esperidi e del vello
del reo monton di Frisso, e varie pesti,
e del crin di Megera il maggior serpe,
e del venereo cinto il reo potere;
e con l'umide spume a Cintia prese
{{R|410}}temprò il fatal monile, e lo cosperse
tutto d'allegro micidial veneno.
Non fur presenti Pasitea gentile,
nè le minor sorelle, nè il diletto,
nè l'Idalio fanciullo: il lutto, l'ira,
{{R|415}}il dolor, la discordia a l'opra infame
porsero aiuto, e n'affrettaro il fine.
Prima fu Harmonia a risentirne il danno,
chè il serpeggiante suo vecchio marito
per gl'Illirici campi or va seguendo
{{R|420}}mutata in biscia, e sibilando duolsi.
Semele poi se n'era ornata appena,
che venne a lei l'insidïosa Giuno.
Questa in sembianza d'ôr lucida peste
te pur fregiò, Giocasta: ed a qual letto,
{{R|425}}misera! A quali nozze? Indi molt'altre
ne provaro il veleno: ora nel petto
splende d'Argia, che col monile infausto
de la germana il parco culto eccede.
Ma del Vate, da' Fati omai richiesto,
{{R|430}}l'avara moglie il vide, e in lei destossi
tosto l'invidia, ed un'ardente brama
di possedere l'esecrabil oro.
Che giova a lei l'aver comune il letto
con l'argivo indovino? Oh quante stragi!
{{R|435}}Oh quanti lutti a sè prepara! Degni
inver di lei; ma l'innocente sposo
in che peccò? Qual v'hanno colpa i figli?
Poichè dodici volte ebbe fugate
dal ciel le stelle la vermiglia Aurora,
{{R|440}}a le reali feste ed a i conviti
fu posto fine. Polinice allora
volse il pensiero a l'anfionie mura,
e al patrio regno. A lui ritorna in mente
il dì che la Fortuna alzò il fratello
{{R|445}}a l'echionio trono, ed ei rimase
privato e in odio a' Numi, e con la sorte
vide fuggirsi i poco fidi amici.
Sol la minor sorella in su l'estreme
soglie seguillo ed abbracciollo; ed egli
{{R|450}}per soverchio furor rattenne il pianto.
Or l'infelice in suo pensier rivolge,
o spunti in cielo il sole, o 'l dì s'imbruni,
quali del suo partir restâr giulivi,
e quai dolenti, e l'alterigia e il fasto
{{R|455}}del superbo germano: il cuor gli rode
vendetta e sdegno, e de' più rei tormenti
il maggior, la speranza e lunga e incerta.
Da tai cure agitato, egli risolve
tornar (segua che puote) a la natia
{{R|460}}Dirce e a i Beozi campi, e su l'avito
trono di Cadmo, che il fratel gli nega.
Siccome toro, che guidò l'armento
gran tempo, dal rival vinto e fugato
lungi dal natio pasco e da l'amata
{{R|465}}giovenca, mugge dal profondo petto,
e disdegnoso sprezza il fonte e l'erba;
se le piaghe risana, e il muscoloso
petto rinfranca, e il vigor nuovo acquista,
torna superbo a miglior pugna accinto
{{R|470}}al prato antico ed al primiero amore;
sparge col piè l'arena, arruota il corno;
lo teme il vincitor; restan confusi,
e 'l riconoscon i bifolchi appena:
non altrimenti il giovane tebano
{{R|475}}medita nel suo cuor l'alta vendetta.
Ma ben s'avvide la pudica moglie,
qual ei volgesse in sè consiglio occulto;
e in mezzo a i casti mattutini amplessi
tra mille baci, a lui piangendo disse:
{{R|480}}- Quali moti, Signor? Che fuga è questa
che ordisci? Non s'inganna accorta amante:
i sospiri, i lamenti e gl'inquïeti
sonni i disegni tuoi mi fan palesi.
O quante volte, o quante io le man stendo,
{{R|485}}e sento il cuore palpitarti in petto,
ed il viso talor di pianto molle!
A me non preme l'ancor fresca fede
di nostre nozze, nè che tu mi lasci
vedova e sola in giovanetta etade;
{{R|490}}quantunque è in me d'Amor viva la face,
e 'l nostro letto non ben caldo ancora;
a me, dolce mio sposo, a me sol preme
la tua salvezza. E disarmato e solo
tu dunque andrai ne' tuoi paterni regni?
{{R|495}}E se 'l fratel li nega? ed in qual modo
fuggirai tu da la tua Ogigia Tebe?
Ahi che la Fama, che più i Regi osserva,
narra di lui quant'è superbo e altiero
per l'usurpato soglio, e (non ancora
{{R|500}}finito l'anno) contro te crudele.
Io temo e tremo, e accrescono il terrore
le fatidiche voci, e le interiora
de le vittime infauste e i Numi irati,
e il volo de gli augelli e i tristi sogni;
{{R|505}}ah che giammai non m'ingannaro i sogni,
qualor Giuno m'apparve! E dove corri,
misero? Se pur te segreto amore
e un suocero miglior non chiama a Tebe! -
Sorrise allora il giovane Tebano
{{R|510}}del van sospetto de la cara moglie,
e se la strinse al seno, e con più baci
tempronne il duolo e rasciugonne il pianto.
- Deh sgombra, anima mia, sgombra il timore
(disse), e confida: a' giusti voti i Numi
{{R|515}}saran propizi, e a le dolenti notti
succederà più d'una lieta aurora.
L'alte cure di Stato a la tua etade
non convengono ancora: il sommo Giove
sa qual fine si debba a giusta impresa,
{{R|520}}se Astrea pur è lassuso, e s'ei riguarda
quaggiù le cose e vuol che 'l dritto vinca.
Verrà (o ch'io spero) il fortunato giorno
che salirai col tuo consorte in trono,
e andrai di due città donna e regina. -
{{R|525}}Qui tacque, e abbandonò le amiche piume:
poi con Tideo s'unì, de le sue pene
e de le cure sue fido compagno:
(cotanto amor dopo la pugna e 'l sangue
era nato fra lor), e al vecchio Adrasto
{{R|530}}chiese dolente il già promesso aiuto.
Ei raduna il senato, e dopo molti
e diversi pareri, alfine sembra
il partito miglior che alcun si mandi,
che 'l pattuito vicendevol regno
{{R|535}}ad Eteocle chieda, e tenti prima
le pacifiche vie del suo ritorno.
Così conchiuso, il Calidonio audace
sè stesso offrì: ma quanto duolo, ahi quanto,
Etolo eroe, la tua fedel consorte,
{{R|540}}Deifile gentil, del tuo partire
risente! E che non fece, e che non disse?
Quanto pianse e pregò per ritenerti?
Ma del padre il voler, ma la pietade
de la germana e 'l dritto de le genti
{{R|545}}che i messaggi assicura, alfin la vinse.
Part'egli intanto, e già passato avea
aspri cammin per cupe selve e colli,
là dove ferve la lernea palude
co' venefici flutti, ancor fumante
{{R|550}}per gli arsi capi da l'erculeo braccio;
e dove in la nemea valle non s'ode
de' timidi pastor voce, nè canto;
indi era giunto a le corintie spiagge
esposte al soffio orïental de' venti;
{{R|555}}ed al porto di Sisifo; e là dove
il Lecheo palemonio il mare affrena.
Poscia a Niso si volge, e alla sinistra
lasciando Eleusi a Cerere diletta,
ei calca infine di Teumesia i campi,
{{R|560}}e pone il piè ne l'Agenorea rocca.
Vede Eteócle in alto trono assiso
dar legge a Tebe oltre il confin de l'anno,
e del regno non suo, ma del fratello:
torvo d'aspetto, che ben mostra fuori
{{R|565}}l'animo aver ad ogni colpa pronto.
E appunto ei si ridea che così tardi
se gli chiedesse il patto. Allor fermossi
Tideo nel mezzo: il ramuscel d'oliva,
ch'ei porta in mano, messagger lo scopre.
{{R|570}}Chiesto poscia del nome e qual cagione
ivi lo meni, il tutto fa palese;
e come rozzo nel parlar e a l'ira
pronto e disposto, la sua giusta inchiesta
mischiò in tal guisa con parole amare.
{{R|575}} - Se in te regnasse fede, e se de' patti
cura prendessi, al tuo fratel ramingo
tu dovevi mandar, finito l'anno,
ambasciatori e richiamarlo al trono,
e con pronto voler, con cuore invitto
{{R|580}}lasciar la tua fortuna e 'l non tuo regno,
tanto che anch'egli da' suoi lunghi errori
per ignote cittadi e da' disastri
ne la promessa sua corte respiri.
Ma già che tanto in te può amor d'impero
{{R|585}}e di comando, che l'altrui ritieni,
noi te 'l chiediamo: ha già trascorso il Sole
per tutti i segni, da che i duri casi
del tristo esilio il tuo fratel sopporta.
Or tempo è bene che tu ancora impari
{{R|590}}andartene ramingo al caldo, al gelo
ne l'altrui case a mendicar l'albergo.
Pon modo, poni a la tua sorte: assai,
ricco d'oro e di gemme e d'ostro adorno,
del tuo fratel la povertà schernisti.
{{R|595}}Il piacer di regnar scordati alquanto;
soffri l'esilio, e sofferendo degno
ti renderai di ritornar sul trono. -
Sì disse: e 'l Re già torbido inquïeto
ardea nel cuore di furore e sdegno.
{{R|600}}Siccome serpe, cui per lunga sete
crebbe il velen ne le natie latebre,
da tutti i membri lo raccoglie al collo
e a la trisulca lingua; indi si lancia
contro il pastor, che lo ferì col sasso.
{{R|605}}Così Eteócle tumido ed altiero
diede a i feroci detti aspra risposta:
- Certo se l'odio, se 'l furor, se l'ira
dubbi fossero a me del mio germano,
e non ne avessi manifesti segni,
{{R|610}}l'altiero tuo parlar ne faria fede.
Così al vivo l'esprimi e ne minacci
con rabbia tal, come se fosser svelte
da' fondamenti le anfionie mura,
e tutta andasse Tebe a ferro e a fuoco.
{{R|615}}Se a' feroci Bistonii ed a' gelati
Sciti lontani dal cammin del Sole
messaggero tu fosti, in più discreti
modi so ben che parleresti, e fiero
non calcheresti de le genti il dritto.
{{R|620}}Ma perchè te accusar? Tu del fratello
porti le furie e 'l reo mandato esponi.
Or perchè tutto hai di minacce pieno,
nè con modi pacifici richiedi
il regno e i patti, al mio fratello argivo
{{R|625}}tale in mio nome porterai risposta:
"Quello scettro, che a me la sorte e gli anni
hanno concesso, giustamente io tengo,
nè lascerollo. Te l'inachia dote,
te di Danao i tesor rendan contento;
{{R|630}}(già non invidio la tua gloria e 'l fasto)
tu reggi pure con felici auspicii
ed Argo e Lerna: a me l'orride zolle
bastan di Dirce, e di Beozia i campi
pochi e ristretti da l'euboico mare,
{{R|635}}nè mi vergogno Edippo aver per padre.
Te Tantalo, te Pelope, te Giove,
cui più t'accosti, fanno illustre e chiaro.
Come potrà la tua Regina, avvezza
a lo splendor paterno, a queste case
{{R|640}}povere e anguste accostumare il guardo,
cui le nostre germane umili e abiette
già fatte ancelle fileran le lane?
Come soffrir potrà la sconsolata
suocera antica? E da le sue caverne
{{R|645}}se urlar sentirà il padre, ahi quale orrore,
quale dispetto non ne avrà? Già il vulgo,
già i nobili e 'l senato al giogo nostro
avvezzi sono, e ne son paghi. Io dunque,
io non ne avrò pietà? Soffrir degg'io
{{R|650}}che mutino ad ognor principe e leggi?
Troppo a i popoli è duro un breve regno,
e offrir gli omaggi a incognito tiranno.
Mira tu stesso qual li prende orrore,
e sdegno e tema del periglio nostro:
{{R|655}}e questi io darò a te, per farne scempio?
Or fa' ch'io 'l voglia: nol vorranno i Padri,
(se la lor fede, se l'onor m'è noto),
la plebe nol vorrà". - Qui impazïente
Tideo interruppe: - Il renderai malgrado,
{{R|660}}il renderai; non se di ferreo vallo
tu ti circondi, o l'anfionia cetra
formi triplice muro a Tebe intorno;
non le faci, non l'armi il tuo castigo
impediranno; e moribondo e vinto
{{R|665}}al suol percuoterai la regia fronte.
E tu a ragion... Ma di costor, crudele,
mi duol, che a guisa di giumenti e schiavi
tratti dal sen de le consorti afflitte
lungi da' figli, a certa morte mandi.
{{R|670}}O quante stragi porterà il Citero!
Di quanto sangue correrà l'Ismeno!
Questa è la tua pietà? Questa è la fede?
Ma che stupor, se de l'iniqua schiatta
fu crudele l'autore, e incestuoso
{{R|675}}il padre? Benchè il sangue in Polinice
falla, e tu solo de l'infame Edippo
sei degno figlio; e patirai le pene
tu solo ancor. Noi ti chiediamo il patto,
e l'anno nostro. Ma che bado? - Allora
{{R|680}}fin da l'estreme soglie minacciando
urta, ed apre la turba, e irato parte.
Così 'l fiero cinghial, che da l'irata
Diana offesa a desolar fu spinto
d'Oeneo i campi, al suon de l'armi greche
{{R|685}}arruffò il pelo, e con l'acute zanne
rivoltò i sassi e lacerò le piante
che su le ripe a l'Acheloo fann'ombra;
indi Piritoo e Telamon ferio,
poscia pugnò con Meleagro, a cui
{{R|690}}restò la gloria de l'uccisa belva:
tale, e più fiero il calidonio eroe
lascia il concilio, e furibondo freme,
come se a sè, non al cognato, il regno
negato fosse; e 'l ramuscel d'oliva,
{{R|695}}segno di pace, da sè lungi scaglia.
Miranlo d'alto le dolenti spose
e le pallide madri, e contro lui
fanno orribili voti e contro il rege,
che negò 'l giusto e se lo fe' nemico.
{{R|700}} Ma il malvagio tiranno, a cui non manca
arte e sapere in ordir frodi e inganni,
de' più forti guerrieri e a lui più fidi
scelta una schiera, con promesse e doni
al tradimento li dispone e compra,
{{R|705}}e prepara a Tideo notturno assalto;
nè al sacro nome d'orator, nè al sacro
diritto de le genti omai pon mente.
Empio furor di regno, e che non osi?
O se dato a costui fosse il fratello,
{{R|710}}qual ne farebbe scempio? O de l'inique
menti ciechi consigli! O da' delitti
non mai disgiunte diffidenza e tema!
Ecco come costui contro d'un solo
non altrimenti tanta gente aduna,
{{R|715}}che se ad un campo egli movesse assalto,
o col frequente urtar degli arïeti
d'assediata città battesse il muro.
Escon costoro, e son cinquanta insieme
fuor de le porte: o glorioso, o prode
{{R|720}}guerrier, contro cui sol muovon tant'armi!
E vanno per angusta e breve via
di spine cinta attraversando il bosco,
per assalire al passo il gran campione.
Sonvi due colli a la città vicini,
{{R|725}}cui li monti maggior fann'ombra eterna,
cinti d'intorno da un'opaca selva,
da' quali s'esce per angusto calle.
È naturale il sito; e pur ei sembra
da l'arte fatto ad occultar gli agguati.
{{R|730}}S'apre per mezzo a' sassi un piccol varco
e disastroso, che conduce a l'erto
e periglioso passo: indi i soggetti
campi miransi intorno, e valli e fiumi.
Sorge a l'incontro la tremenda rupe
{{R|735}}albergo de la Sfinge: in su quel sasso
stava già un tempo la terribil belva
pallida il volto e macilente, e gli occhi
lividi e torvi, con le immonde penne
di sangue intrise, e con le fiere labbia
{{R|740}}iva lambendo i lacerati avanzi
de' passaggeri uccisi; intanto il guardo
girava intorno ad ispiar se alcuno
colà salisse, e temerario osasse
contender seco a sviluppar gli enimmi:
{{R|745}}tosto aguzzava i fieri denti, e l'ugne
spiegava, e dibattendo i pigri vanni,
gli si lanciava al viso, e de la rupe
col capo in giù lo fea cader da l'alto.
Fur felici gl'inganni, insin ch'Edippo
{{R|750}}giunse, e spiegò l'ambagi: allora il mostro
tristo e confuso, senza batter ali,
precipitò se stesso; e 'l fiero ventre,
e le viscere infami infrante e sparse
andaro per le rocce e pe' i burroni.
{{R|755}}Conserva ancor contaminato il bosco
l'orror del mostro, e da que' paschi infami
vanno lungi le gregge: a la nocente
ombra non vengon mai Fauni o Silvani,
nè le Driadi vezzose; ed i rapaci
{{R|760}}augelli e i fieri lupi il volo e il passo
(tal li prende terror) volgono altrove.
In questo luogo l'insidiosa turba
riserbata a morir s'appiatta, e cinge
di guardie il bosco, ed appoggiata a l'aste
{{R|765}}l'etolo eroe stassi attendendo al varco.
Di già Febo è sparito, e già la notte
stende l'umido velo e il mondo adombra.
Ed ecco ei s'avvicina, e da eminente
luogo e di Cintia al vacillante raggio
{{R|770}}scorge da lungi balenar gli scudi
tra ramo e ramo de le turme ostili,
e su i cimieri tremolar le piume.
Vede, stupisce, e non però s'arretra;
ma colla mano il brando tenta, e poi
{{R|775}}due dardi impugna, e minaccioso grida:
- Chi siete voi, guerrier, chè vi celate? -
Nissun risponde: ond'ei vie più sospetta
che avrà dura al passaggio aspra contesa.
Quand'ecco intanto dal robusto braccio
{{R|780}}di Cromio, condottier de la masnada,
vibrata un'asta fende l'aria a volo;
ma i Numi e 'l Fato fur contrari al colpo:
fora però la setolosa pelle
de l'olenio cinghiale, ond'ei si copre,
{{R|785}}e l'omero sinistro a lui radendo,
gli striscia il collo e passa il ferro asciutto.
Arruffò il crine allor l'etolo eroe,
e tutto se gli strinse il sangue al core:
rivolge intorno il guardo e 'l fer sembiante
{{R|790}}pallido per lo sdegno; e appena crede
che contro un sol stieno tant'armi ascose.
- Uscite (grida) a campo aperto, uscite,
appiattati guerrier, ch'io non m'ascondo.
A me, a me vi rivolgete: e quale
{{R|795}}timore vi raffrena? Oh che viltade!
Io solo, io sol tutti vi sfido a guerra. -
Rupper gl'indugi al suon de' detti audaci
i tebani guerrieri, e d'ogni parte
uscîr d'agguato in numeroso stuolo,
{{R|800}}maggior di quello ch'ei pensò, da l'alto
correndo a lui e da la bassa valle.
Così cingon talor di reti e d'aste
i cacciatori le feroci belve;
e par che al peso di tant'armi e al lume
{{R|805}}tutt'arda e tremi quella selva antica.
Vede Tideo che a sua difesa giova
guardar le spalle, e de la Sfinge al sasso
sen corre, e benchè sia scosceso ed erto,
tanto s'appiglia con le adunche mani
{{R|810}}a scaglie e a greppi, che a la fin v'ascende.
Giunto ch'egli è de l'alta rupe in cima,
ne svelse un rozzo e smisurato sasso
pesante sì, che strascinarlo appena
due affannati giovenchi a collo steso
{{R|815}}potrian d'un edifizio al gran lavoro.
Poi tutte le sue forze in un raccolte
l'alza da terra, e lo sospende e libra;
indi lo scaglia. Così Folo appunto
contro i Lapiti rei lanciò il gran vaso.
{{R|820}}Mira in aria il gran monte, e ne stupisce
l'iniqua turba, che va incontro a morte,
e oppressa ne rimane: i visi, i petti,
le forti braccia, e in un l'armi e gli armati
restano infranti, stritolati e misti.
{{R|825}}Quattro fur quei che da la grave mole
distrutti furo, e non d'ignobil gente;
onde gli altri smarriti andaro in fuga.
Dorila il primo fu che per valore
si pareggiava a' Regi; indi Terone
{{R|830}}fiero per gli avi suoi, ch'egli traeva
da' denti del dragon già sacro a Marte;
il terzo domatore de' destrieri,
bench'or pedestre muoia, Alì feroce.
Tu pur da Penteo discendente, in ira
{{R|835}}e in odio a Bacco, o Fedimo, cadesti.
Poichè li vede in fuga, egli i due dardi,
che tiene in man, lor dietro vibra, e poi
balza dal monte a più vicina guerra.
Vede lo scudo di Teron, che 'l sasso
{{R|840}}avea lungi da lui fatto cadere,
e l'imbraccia e 'l solleva, e contro i dardi
e contro l'aste si ricopre, ed usa
de l'ostile riparo in sua difesa;
indi fermossi: i masnadieri allora,
{{R|845}}che lo scorsero al pian, voltâr la fronte,
e contro lui mosser serrati insieme.
Egli trae fuori il formidabil brando,
dono di Marte al suo gran padre Eneo,
e d'ogni parte mira, e questi assale,
{{R|850}}e quei respinge, e col fulmineo ferro
l'aste recide e le saette ostili.
La densa turba s'impedisce, e s'ode
elmo con elmo urtar, scudo con scudo:
sono vani i loro sforzi, e ben sovente
{{R|855}}per troppa fretta l'un l'altro ferisce,
e l'un su l'altro cade. Egli sta immoto,
angusto segno a cotant'armi, e sembra
inespugnabil rocca o quercia alpestre.
Quale il gran Briareo di tutto il cielo
{{R|860}}sostenne in Flegra la potenza e l'armi,
quando Febo con strali, e col Gorgone
Pallade, e Marte col bistonio cerro
gli stavan contro, e Sterope era stanco
in apprestar tante saette a Giove;
{{R|865}}da tante forze combattuto e cinto,
ei si dolea che fosser pigri i Numi:
con non minor furor Tideo combatte,
ed or s'avanza, or si ritira, e sempre
con lo scudo si copre, e i tremolanti
{{R|870}}dardi ne svelle, e contro chi lanciolli
irato li rimanda, e di già il sangue
gli esce da non mortali e lievi piaghe.
Deiloco e Fegea, che con la scure
già l'assaliva, uccide e a Lete manda;
{{R|875}}e appresso a questi d'Echion disceso
Licofroonte, e il fiero Gía dirceo.
Rimirano i fellon la loro schiera
scema de' miglior capi, e in essi il fiero
desio di pugna già languisce e manca.
{{R|880}}Ma Cromio, che da Cadmo il sangue tragge,
avanza il passo: (Driope fenice
a lui fu madre, e n'avea l'alvo grave,
quando ne' giuochi sacri a Bacco avendo
per l'ardue corna un fiero toro preso,
{{R|885}}nel gran contrasto il partorì immaturo).
Fiero ei pe' dardi, e per la spoglia altero
d'un leon, ch'egli avea poc'anzi ucciso,
ruotando in giro una nodosa clava,
alto gli altri rampogna: - Adunque un solo
{{R|890}}uom da tant'armi e tanti armati cinto
tornerà in Argo vincitore? Appena
si troverà chi 'l creda. Ah miei compagni,
ove sono le destre, ove il valore?
ove le spade e l'aste? È questo quello,
{{R|895}}Lampo e Cidon, che promettemmo al Rege? -
Mentr'ei così minaccia, ecco uno strale
che ne le fauci 'l coglie, e per la gola
gorgoglia il suono, e gl'impedisce il sangue
che di fuor esca. Egli tardò a cadere
{{R|900}}sinchè, la morte in tutt'i membri sparsa,
vie più l'asta mordendo, ei cadde al suolo.
Ma già non lascio voi, di Tespio figli,
senza il dovuto onor. Perifa il primo,
mentre con man pietosa il moribondo
{{R|905}}fratel sostiene (mai pietà maggiore,
nè un'indole miglior de' due germani
fu vista al mondo) e 'l già languente collo;
e mentre co' sospir preme l'usbergo,
e l'elmo inonda col dirotto pianto,
{{R|910}}ecco al fianco gli giunge il crudo cerro
de l'etolo campione, e lo conficca
al fratel moribondo: ambi cadéro,
e l'ultimo ferito al di già estinto
germano affissa gli occhi, e con la fioca
{{R|915}}voce che ancor gli avanza, a Tideo dice:
- Tali a te diano abbracciamenti e baci,
o barbaro guerriero, i figli tuoi. -
Così giacquero entrambi: o dura sorte!
Nacquer, visser, moriro uniti insieme.
{{R|920}}Non bada sopra lor Tideo, ma l'asta
ricovra, e con la stessa e con lo scudo
Menete fuggitivo incalza e preme:
fugg'egli, ma fuggendo inciampa e cade.
Allor le mani stende, e mercè grida,
{{R|925}}e l'asta impugna, e quanto può, dal collo
la tien lontana, e in cotai detti prega:
- Deh, per queste stellate ombre, per questa
tua glorïosa notte e per i Numi
perdona a me, tanto che a Tebe vada,
{{R|930}}a predicare del tuo invitto braccio
l'eccelse prove, del tiranno ad onta.
Così sian sempre rintuzzate e vane
contro te le nostr'armi, ed il tuo petto
impenetrabil resti a' colpi nostri,
{{R|935}}e al fido amico trionfante rieda. -
Tacque; e Tideo, senza mutar sembiante:
- Che piangi? (disse) e perchè preghi invano?
Tu pur giurasti al fier tiranno, iniquo,
questo mio capo: or lascia l'armi, e muori.
{{R|940}}A che mercare con viltà la vita?
Restan stragi maggiori. - E così detto
il ferro immerge a lui nel collo, e passa,
e insulta a' vinti con acerbi motti:
- Questa non è la sacra al vostro Nume
{{R|945}}triennal notte; nè guidate in giro
gli Orgii di Cadmo, nè 'l furor materno
profana quivi i sacrifici a Bacco.
Forse vi credevate, ebbri e festosi,
cinti d'edera il crine e 'l petto armato
{{R|950}}del vile cuoio de le belve imbelli,
al molle suon di cornamuse e flauti
guidar le vostre fanciullesche guerre
d'uomini forti indegne? Altr'armi, altr'ire
fan d'uopo qui. Gite a portar sotterra,
{{R|955}}o pochi, o vili, il vostro scorno e l'onta. -
Così minaccia; ma le forze intanto
mancando vanno, e l'agitato sangue
affanna il core; e 'n vani colpi il braccio
s'aggira, e sotto gli vacilla il piede:
{{R|960}}lo scudo grave per tant'armi e rotto
più non può sostener: da l'anelante
petto distilla un gelido sudore;
e tutto è intriso il crin, le mani e 'l volto
del tetro sangue de' nemici uccisi.
{{R|965}}Qual massile leon, che posti in fuga
i guardïani de l'imbelle armento,
a quel s'avventa furibondo e altero,
e se n'empie le fauci e 'l ventre ingordo:
saziata infine la sua ingorda fame,
{{R|970}}l'ira depone, e le mascelle invano
battendo, fra i cadaveri passeggia,
e la strage contempla e lambe il sangue:
così ancora Tideo di stragi carco,
ito sarebbe a Tebe, e al fier tiranno
{{R|975}}e a l'atterrita plebe il suo trionfo
mostrato avrebbe; ma frenò l'ardire
e 'l fiero core del gran fatto gonfio
la sempre amica a lui Tritonia Dea.
- O del grand'Eneo generoso figlio,
{{R|980}}(diss'ella) a cui già promettiamo in Tebe
maggior trionfo, a le felici imprese
pon modo omai, nè più tentare i Numi
fin qui propizi: a la grand'opra manca
sol questo, che tu in Argo ora ritorni
{{R|985}}sicuro e pago di tua lieta sorte. -
Restava vivo sol tra tanti estinti
l'emonide Meone: egli del cielo
conoscea i moti e degli augelli il volo,
e 'l fiero caso avea predetto al Rege,
{{R|990}}da lui schernito e non creduto: il Fato
gli fe' negar la fede. A l'infelice
dona l'odiata vita il gran Tideo,
e un crudel patto a lui tremante impone:
- O qualunque tu sia, che fra costoro
{{R|995}}tolto di mano agl'Infernali Dei,
rivedrai pure la vicina luce,
al tuo spergiuro Re questo dirai:
"Rinforza omai le porte, e rinnovella
l'armi e raddoppia gli ordini e le schiere,
{{R|1000}}e Tebe cingi di più forte vallo.
Questo campo fumar mira nel sangue
de' tuoi guerrieri da un sol brando uccisi:
tali in battaglia ti verrem noi sopra".
Ciò detto, a te, sacra Tritonia Dea,
{{R|1005}}de le acquistate spoglie alto sublime
trofeo prepara, e le raccoglie e lieto
le porta, e va contando i suoi trionfi.
Sovra eminente bica, a' campi in mezzo
posta un'antica annosa quercia sorge
{{R|1010}}di dura scorza e di frondosi rami,
che stende l'ombra largamente intorno.
A questa appende l'etolo guerriero
gli elmi leggeri ed i forati arnesi,
e l'aste e i brandi tronchi; indi su quelle
{{R|1015}}alto si ferma e su i nemici uccisi,
ed apre il varco a la preghiera; al voto
eco fanno la notte e i boschi e i monti.
- Guerriera Dea, Genio ed onor del padre,
cui di terror leggiadro adorna il volto
{{R|1020}}l'elmo lucente, e 'l fier Gorgone impugni;
di cui Bellona e 'l furibondo Marte
spingon men fieri a guerreggiar le schiere;
tu grata accogli il sacrificio e 'l voto.
O ch'or tu venga a rimirar la nostra
{{R|1025}}pugna da la città di Pandïone;
o ne l'aonia Itome ora tu meni
danze e carole con le ninfe amiche;
o che tu lungo il libico Tritone
le sterili giumente al corso affretti:
{{R|1030}}noi a te i busti de' guerrieri uccisi
sacriamo, e l'armi e le sanguigne spoglie.
Ma se avverrà che dal mio duro esilio
ritorni un giorno al partaonio regno
e a Pleurone guerriera, io ti prometto
{{R|1035}}nel mezzo a la cittade alzarti un tempio,
ricco di scelti marmi e di molt'oro.
Quindi grato fia mirar da l'alto
L'Ionio procelloso, e l'Acheloo
fender il mare, e con la rapid'onda
{{R|1040}}de l'Echinadi opposte urtar ne' lidi.
Ivi saran degli avi miei le imprese
scolpite, e i venerabili sembianti
de' magnanimi Regi: a l'alto tetto
staranno appese l'armi, e aggiungerovvi
{{R|1045}}le spoglie opime che col sangue sparso
ho conquistate, e quelle che di Tebe
tu mi prometti, o tutelar mio Nume.
Ivi a te serviran ben cento e cento
d'attico culto vergini pudiche,
{{R|1050}}che t'arderan le caste faci e 'l puro
liquore de la pianta a te diletta.
Una sacerdotessa antica e grave
conserverà perpetuo il sacro fuoco
e terrà occulti i tuoi pudichi arcani.
{{R|1055}}A te sia in guerra, a te sia in pace, sempre
le primizie offrirò d'ogni mio fatto;
nè i voti nostri invidierà Diana. -
Disse, e ad Argo tornò su l'orme prime.
</poem>
 
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