Divina Commedia/Inferno/Canto XXVII: differenze tra le versioni
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|Nome e cognome dell'autore=Dante Alighieri
|Titolo=Divina Commedia
|Iniziale del titolo=D
|Nome della pagina principale=Divina Commedia
|Eventuale titolo della sezione o del capitolo=[[Divina Commedia/Inferno|Inferno]]
|Anno di pubblicazione=
|Secolo di pubblicazione=XIV secolo
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<poem>
Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta, {{r|3}}
quand'un'altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia. {{r|6}}
Come 'l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima, {{r|9}}
mugghiava con la voce de l'afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto; {{r|12}}
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame. {{r|15}}
Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio, {{r|18}}
udimmo dire: "O tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", {{r|21}}
perch'io sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! {{r|24}}
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se' di quella dolce terra
latina ond'io mia colpa tutta reco, {{r|27}}
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch'io fui d'i monti là intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra". {{r|30}}
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: "Parla tu; questi è latino". {{r|33}}
E io, ch'avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
"O anima che se' là giù nascosta, {{r|36}}
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai. {{r|39}}
Ravenna sta come stata è molt'anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni. {{r|42}}
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova. {{r|45}}
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio. {{r|48}}
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno. {{r|51}}
E quella cu' il Savio bagna il fianco,
così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco. {{r|54}}
Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte". {{r|57}}
Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato: {{r|60}}
"S'i' credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse; {{r|63}}
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo. {{r|66}}
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero, {{r|69}}
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda. {{r|72}}
Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi diè, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe. {{r|75}}
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie. {{r|78}}
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte, {{r|81}}
ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe. {{r|84}}
Lo principe d'i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei, {{r|87}}
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano, {{r|90}}
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri. {{r|93}}
Ma come Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro {{r|96}}
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre. {{r|99}}
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
sì come Penestrino in terra getti. {{r|102}}
Lo ciel poss'io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care". {{r|105}}
Allor mi pinser li argomenti gravi
là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi {{r|108}}
di quel peccato ov'io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti farà trïunfar ne l'alto seggio". {{r|111}}
Francesco venne poi, com'io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar; non mi far torto. {{r|114}}
Venir se ne dee giù tra ' miei meschini
perché diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini; {{r|117}}
ch'assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente". {{r|120}}
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io löico fossi!". {{r|123}}
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse, {{r|126}}
disse: "Questi è d'i rei del foco furo";
per ch'io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro". {{r|129}}
Quand'elli ebbe 'l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto. {{r|132}}
Noi passamm'oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr'arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio {{r|135}}
a quei che scommettendo acquistan carco.
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